Forrest Gander, nato in California nel 1956, ha ricevuto il Premio Pulitzer per la poesia nel 2019 con la silloge Be With (New Directions 2018), dedicata alla recente scomparsa della moglie, [n.d.r. la poeta Carolyn D. Wright]. Traduttore, saggista e professore emerito di Letterature comparate alla Brown University, Gander è tra i massimi esponenti della cosiddetta ecopoetry, una delle più recenti frontiere della ricerca poetica legata ai problemi ecologici e ambientali, e contraddistinta da una solida teoresi filosofica e da un forte impegno politico. Il saggio che qui si presenta in anteprima per il lettore italiano è tratto dal libro Redstart: An Ecological Poetics, a cura di Forrest Gander e John Kinsella, Iowa University Press. Oggi, in serata, saranno annunciati i vincitori dei Pulitzer Prizes 2020.
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Introduzione all’ecopoesia
di Forrest Gander
Il termine ecopoesia ha assunto una vasta gamma di connotazioni. Tra queste: un insieme variabile di strategie tecniche e concettuali per la scrittura durante un periodo di crisi ecologica. Tali strategie (che assomigliano molto alle innovative strategie poetiche sostenute negli ultimi cento anni) spesso affermano di aver dato inizio:
- a una disarticolazione dell’agire egocentrato;
- a una posizione di autoriflessività (in modo che, ad esempio, si dice che la poesia abbia origine non all’interno del sé ma all’interno del paesaggio cui appartiene);
- a un rifiuto, come scrive il poeta australiano Stuart Cooke, di qualsiasi tentativo di «radunare il mondo in una sorta di unità e permanenza» a favore di un «incontro» segnato da «fluttuazioni entropiche». I testi ecopoetici sono talvolta descritti come «testi aperti»;
- a una rigorosa attenzione nei confronti del pattern;
- a un riorientamento dell’oggettività verso l’intersoggettività.
Per rafforzare quest’ultima intenzione, l’ecopoesia è stata collegata agli studi di neurologia. Mentre il tentativo di reinterpretare l’oggettività come intersoggettività risale almeno al XIX secolo, a Franz Brentano e Edmund Husserl, il neurologo contemporaneo Antonio Damasio rileva come «la coscienza consista nella costituzione della conoscenza in base a due fattori: che l’organismo sia coinvolto in relazione a qualche oggetto e che l’oggetto presente nella relazione stia causando un cambiamento nell’organismo».
Il mondo, suggerisce Damasio, è attivamente coinvolto nella nostra percezione di esso. Il fenomenologo Maurice Merleau-Ponty, tempo prima, aveva sottolineato qualcosa di simile quando disse che l’albero si offre alla nostra visione. Nella maggior parte delle ecofilosofie, le assunzioni occidentali tradizionali sulla distinzione tra soggetto controllante e oggetto utile vengono rivalutate. L’ego-logico è riformulato come eco-logico.
Quindi l’eco-logica (come afferma Felix Guattari in Le tre ecologie) non è focalizzata su sistemi binari; non è dialettica. Altresì, è disposta a mettere in discussione l’«intera soggettività» e ripensare il sé quale «una singolarità collettiva». Come afferma il poeta-filosofo Richard Deming, «suggerire che esiste una soggettività a cui il “sé” si riferisce non significa necessariamente sostenere che l’“io”, in quanto tale, debba essere una continuità». Non è un’idea radicalmente nuova considerare che l’io è multiplo (dal momento che ne erano consapevoli Friedrich Nietzsche ed Emily Dickinson) o che il sé è interconnesso con altre cose ed esseri (come credono gli animisti e come Edmund Husserl e Brenda Hillman propongono).
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Felix Guattari ci spinge a imparare a vederci come una singolarità collettiva, a «costruire e ricostruire in modo permanente questa collettività in un progetto di liberazione multivalente. Non in riferimento a un’ideologia direttiva, ma all’interno dell’articolazione del Reale». Ecco alcune delle domande che potremmo porre: chi sarà responsabile della separazione tra il reale e l’ideologia? Questo tentativo ci riporta a una nozione di realtà pre-linguistica e primordiale non strutturata dal linguaggio? Esiste un modo per percepire il «Reale» in maniera trasparente, senza dipendere dalle parole profondamente problematiche del mondo? C’è qualche realtà fondamentale oltre alla nostra traduzione costitutiva e prospettica di essa?
Molte delle descrizioni del rapporto tra poesia ed ecologia sono metaforiche e le metafore sono state accuratamente mescolate. Una poesia che esprime preoccupazione per l’ecologia potrebbe essere strutturata come concime, essere sviluppata rizomaticamente ed essere descritta come un nido, una collettività. La sua struttura potrebbe essere ciclica, indeterminata o rigorosamente modellata. Le possibilità formali sono infinite come mai, dato che non esiste alcuna struttura formale per rappresentare l’ecologia o la natura. E la scrittura funge da sistema costruito.
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Tuttavia, chi determina, e con quali criteri, che una poesia «esce dalla terra» mentre un’altra poesia «esce dall’io»? Chi convalida alcune tecniche poetiche, approcci, forme a priori ecologicamente etiche o non etiche? È interessante considerare che la poesia cinese classica — con l’assenza di pronomi personali, di significati simultanei ma non subordinati, di relazioni indeterminate e collegamenti tra il mondo naturale e il mondo delle emozioni, della percezione e dell’esperienza umana — soddisfa molti scopi ecopoetici. Eppure, i cinesi hanno una lunga storia pervasiva di ciò che il mondo occidentale chiama abuso di animali e degrado ambientale, per non parlare di una struttura sociale profondamente gerarchica e di regimi politici oppressivi. Forse non c’è motivo di aspettarsi che i valori presumibilmente collegati alla forma poetica incoraggino comportamenti strutturati a partire da quei valori. Vale a dire, forse la poesia non fa accadere nulla.
Nei circoli linguistici, l’argomentazione wittgensteiniana secondo cui «i limiti della mia lingua coincidono con i limiti del mio mondo» è ancora dibattuta, spesso messa in discussione da attacchi (o variazioni) all’ipotesi di Sapir-Whorf (relativa alle particolarità di un’influenza della lingua sul pensiero dei suoi parlanti). La maggior parte delle ecopoetiche è legata a un certo senso di urgenza politica e alla convinzione che la lingua sia coinvolta centralmente sia nel pensiero che nella cultura, una posizione che mette in discussione la rivendicazione di certezze assolute. È stato suggerito che gli ecopoeti, offrendo prospettive aggiornate, meno dogmaticamente binarie nell’interazione tra regni umani e non umani, suggeriscono modi di essere nel mondo che potrebbero portare a storie meno sfruttatrici e distruttive.
Due studi recenti mi interessano e, sebbene non siano vere e proprie cartine al tornasole, riescono a supportare l’argomentazione per la quale il linguaggio, la percezione e la concezione sono irrevocabilmente interconnessi. Il primo è un lavoro sul campo di Daniel Everett, il quale ha notato, in Cultural Constraints on Grammar and Cognition in Pirahã e in due libri successivi, che per una tribù brasiliana-amazzonica la comunicazione linguistica è limitata «all’esperienza immediata degli interlocutori». La loro lingua non possiede un tempo passato. Non prevede la possibilità di incorporare una frase in un’altra. Non ha numeri, non ha il concetto di contare oltre uno, due etc., né termini di colore, né astrazioni, miti, senso della storia che risale a una o due generazioni. Nonostante i cento anni di contatto con i brasiliani di lingua portoghese, sono monolingui. Poiché la loro lingua non consente di esprimere l’esperienza al di là dell’esperienza dei parlanti, non dicono, quando qualcuno in canoa scompare dietro la curva di un fiume, «è sparito dalla vista»; dicono «è sparito (per esperienza)».
Un altro studio coinvolge gli Aymarà della Bolivia. Questo studio mi interessa in particolare perché ho co-tradotto due libri del poeta boliviano Jaime Saenz, il cui lavoro è influenzato notevolmente dalla lingua e dalla cultura aymara. Nel loro idioma è impossibile dire qualcosa come «Giovanna d’Arco fu bruciata sul rogo nel 1431», poiché questa affermazione non è qualificata dall’esperienza di nessuno e ogni frase deve invece esprimere se un’azione o un evento siano stati vissuti personalmente o meno. Secondo Rafael Núñez, scienziato cognitivo di San Diego, gli Aymarà sono l’unica tra le popolazioni studiate per i quali il passato è linguisticamente e concettualmente di fronte a loro mentre il futuro è dietro di loro.
Per parlare del futuro, spiega Núñez, sin dall’antichità gli Aymarà utilizzavano il pollice e lo volgevano alle spalle. Per fare riferimento al passato, invece, fanno «ampi movimenti in avanti con le mani e le braccia. La parola principale per occhio, fronte e vista in aymara significa passato, mentre la parola base per schiena o tergo significa anche futuro». È stato suggerito che in una cultura che privilegia la distinzione tra visibile/invisibile e conosciuto/sconosciuto nella misura in cui i riconoscimenti probatori sono requisiti della lingua, forse ha senso collocare metaforicamente il passato davanti a sé, nel proprio campo di vista e il futuro sconosciuto e inconoscibile alle spalle.
In questi casi, sembra esserci una stretta relazione tra le particolarità del linguaggio, le percezioni e le concezioni dei parlanti di quel linguaggio. Se la lingua influisce sul modo in cui pensiamo di essere nel mondo, allora la poesia può far accadere qualcosa. Vorrei suggerire che riesce a farlo. Certamente, penso che abbia influenzato la modalità in cui vivo personalmente il mondo. Ma, in tutta probabilità, non influisce sulla percezione in maniera diretta, come potrebbero desiderare i poeti. Sbarazzarsi dell’“io”, eliminando del tutto i pronomi, decostruendo la sintassi normativa, ecc. Queste tecniche – tutte vecchie più di un secolo – influenzano il lettore. Ma gli effetti sono complessi e sottili e potrebbero non corrispondere affatto alle intenzioni di uno scrittore. Forse, invece di modellare le ecologie, si potrebbe osservare che le poesie si assumono la responsabilità di determinati modi di pensare e scrivere, come sottolinea Charles Altieri, «invitando il pubblico a cogliere quali altre potenzialità esse dimostrino nell’adattarsi al modo in cui chiedono di essere lette».
E se le strutture della percezione non fossero “soggettive” (cioè aggiunte dagli esseri umani ai dati grezzi) o “oggettive” (cioè fornite dalle cose in sé), ma fossero articolate a metà tra relazione e interazione, tale che la parola possa sollevarsi in un medium che non è proiettato, ma che è in atto come un ambiente? Potremmo vederci allora come partecipanti di un linguaggio non strumentale? Ci sarebbe modo di saperlo?
Traduzione di Alberto Fraccacreta