Note in margine a Non finirò di scrivere sul mare, Mondadori, Milano, 2019, di Giuseppe Conte)
di Marco Marangoni
Mentre stendo queste note, i giorni sono questi della pandemia 2020. Ci sentiamo improvvisamente più fragili. Ed è presa di coscienza, questa, tragica anche se necessaria, dal momento che ci costringe seriamente a considerare quel fondo senza fondo che è la natura e che come tale avevamo troppo facilmente adombrato o rimosso.
E mentre così una forza imponderabile ci sovviene, quasi tornasse a farsi presente l’antico e lo straniante, sono proprio le parole dei poeti, solitamente neglette, che ci possono offrire un orientamento. Viene però da domandarsi, con Hölderlin, se questo non accada per il fatto che è sempre difronte al pericolo che sopravviene ciò che salva.
Certo è che, in un tale orizzonte di considerazioni, la poesia di Giuseppe Conte si mostra ospitale e necessaria, e tanto più in questo ultimo libro. E converrà leggerlo, data la sua stilistica consistenza, in rapporto al background che lo sostiene. Si dovrà partire almeno da un sentimento abbandonato dell’esserci, che ha nutrito i suoi versi fin dagli inizi; e da lì comprendere quello sbocco a “fonti romantiche e simboliste” (Marco Forti) per cui nel ‘76 Luciano Anceschi ebbe a parlare di “un fluire autre nella riconquista del desiderio”, nonché del “diritto di essere deboli con gioia”.
Dovremo comprendere e apprezzare un linguaggio fatto di forza simbolica e che, scientemente e contrariamente alla pregiudiziale intellettualistica, non può essere ridotto a un sistema di segni convenzionali, su cui poi esercitare tristi analisi decostruttive. Ma, domandiamoci, il gesto di Conte, lungo tutta la strada che va da L’oceano e il ragazzo (1983) a Non finirò di scrivere sul mare, non pare in fondo collocarsi entro il solco del pensiero poetante, anzitutto italiano?
A tal proposito giova ricordare che già Giorgio Ficara aveva notato in Conte tanto la reciprocità fra pensiero e linguaggio” quanto l’ “identificazione” fra “ pensiero e retorica “ – eliotiana “retorica di sostanza”. Di questo passo, guardando al versante italiano, non sembrano legittimi altri accostamenti, come a quel Leopardi che si affidava alla forza mitica dell’immaginazione, e diceva delle Illusioni come “cosa vera”?
La poesia di Conte sa tutto questo, lo si intende, e lo porta avanti, tra innovazione e tradizione, come il mare torna sempre a se stesso rinato, in un continuum di lingua, cultura, paesaggio ed esperienza. Giusto dunque il rinvio, che compare nella quarta di copertina, al verso di Valéry: “La mer, la mer, toujours recommencée!”
Ma, a questo punto, dovremmo anche chiederci che cosa possa mai sapere una poesia così fatta che bifocalmente guarda al quotidiano e al mito; mai scevra peraltro da un distacco metapoetico (“ho preferito per lunghe stagioni/ dèi esiliati e lontani”, op.cit., p.74).
Presto detto, essa sa la vanità di ogni significato preteso (“quando ero giovane/ e non meno di oggi disperato”, Ibidem); e sa però che proprio lì, difronte “l’infinita vanità”, per così dire, è possibile un mondo nuovo, utopico, che non conosce tramonto se non per rinnovarsi incessante, fusione arcana di mondo e parola: “niente se non guardare/ la tua solitudine autunnale, /niente se non scrivere, /e scrivere/ sempre su di te/ mare.” (op.cit., p.72).
E siamo a far luce su quella negazione raddoppiata “Non finirò”, che compare nella prima parte del titolo Non finirò di scrivere sul mare (la sottolineatura è mia). Si tratta di un’espressione negativa, problematica, novecentesca, ma pur sempre progetto, infinito e “inconstruibile”, usando l’espressione di E.Bloch.
Questo è Giuseppe Conte, che dalla negazione neoavanguardista passò, nel suo cammino di formazione, ad un’altra negazione, più complessa, fino a proporre un linguaggio che non sottovaluta l’interdizione operata dai codici sul senso, ma che con quelli si prova a ingaggiare una “lotta” produttiva. E quante volte in questo nuovo libro si accenna implicitamente ed esplicitamente alla “lotta”: “la lotta tra nuvole e sole” (op.cit., p.68), “Bene e Male sono in lotta perenne” (op. cit., p.133).
Di qui si comprende l’articolarsi, per il poeta “eternamente innamorato” (op.cit., p.39), di quel piano teorico in cui l’inconscio archetipico di Jung e il “Fare anima” di Hillman sono capisaldi sempre presenti e inaggirabili.
La poesia è scrittura dunque sì, ma già da sempre, per Conte, anche incanto e poi canto. Sì cultura, ma di più vale per lui una specie di tatuaggio nelle parole, che si espande fin lì, per metamorfosi, dalla natura. La forza simbolica scommette in questa espansione extralogica, tra mare e scrittura-del-mare: “Tu sei lì senza parole, senza nessuno/ che ti saluti, fuorché me, il matto” (op. cit., p.78). O ancora: “Cos’è questa mia smania di scrivere, dimmelo tu che non parli, non scrivi/ ma continuamente mutando/ sei, vivi.” (op.cit.,p.68). Ecco il mare, elemento paesaggistico fondamentale dell’autore nativo di Porto Maurizio; e che ci viene restituito in modo diverso da come ne dissero in versi altri illustri liguri, quali Sbarbaro o Montale -autori comunque ben visibili in filigrana nel testo contiano. Quel mare innalzato in L’oceano e il ragazzo a emblema della natura è proprio lo stesso di “Non finirò di scrivere sul mare”, anche se qui è mutato l’approccio scritturale: il mare è divenuto un vecchio amico o un padre o una madre cui il poeta affida sentimenti e pensieri di una saggezza donata dagli anni, e dal mai spento desiderio di vita, più-che-vita.
Ancor oggi insomma non cessa di riaccendersi, in questo poeta coerente, un verso sapienziale, cercandovi un rito di ricominciamento e resurrezione: “Resurrexit, resurrexit, resurrexit/ mare che sei origine e ricominciamento.” (op.cit., p.48); un rito che sentiamo espresso ovunque in Non finirò di scrivere sul mare. Ciò detto, la poesia vorrebbe qui farsi “amorosa reminiscenza”( G. Ficara) o memoria del sacro: “Tu mare non hai chiese”, “Eppure sei sacro”, (op.cit., p.41). Ed è così che invece di riuscire a un canto consolatorio e arreso, essa si impegna in un fermo “Je’ Accuse…!”, contro una civiltà che ha tradito la poesia. Il mare comunque avrà ragione dei suoi nemici; lo spera il poeta che stendendo dei versi epistolari a un figlio ideale scrive: “Ribellati […] a chi avvelena per il profitto il pianeta/ a chi affama per il suo profitto le moltitudini/ a chi umilia, a chi disprezza/ i deboli, gli inermi, la tenerezza […] e non dimenticarti mai del mare.” (pp.100-101).
Non finirò di scrivere sul mare
[…]
Da ragazzo volevo imparare a camminare
su di te, leggero come un ramo,
rispondendo a non so quale richiamo
di profezia, di eresia.
Lo voglio ancora, ne voglio ancora,
di mare, di poesia.
Per tutte le infelicità, le umiliazioni
per tutto quello che di male
mi fa la terraferma, tu sei medicina,
mare, spettacolo che appare
sempre crudo e dolcissimo ai miei occhi
come questo della tortora maschio
che sulla riva con assurdi tocchi
d’ala, planate, rincorse, svoli
insegue senza mai riuscire a prenderla
la tortora femmina.
Un coito impossibile, come il tuo
con la terra, come il mio con la vita.
Eppure sono qui, non è finita
ancora.” […]
Sei stata tu il mio mare
In origine, sei stata tu il mio mare, madre
sei tu che io ho abitato, il tuo tepore
senza onde, senza il minimo rumore,
fuori dalla storia, dal frusciare dell’aria
tutto dentro di te, dentro il tuo amore.
Sei tu il mare di latte che mi hai nutrito
dove ho imparato a nuotare e a crescere,
il mare che mi ha mostrato l’orizzonte
e la riva, l’isola e l’infinito.
E poi ti ho lasciata, sono partito.
Ma ora sono qui, eternamente figlio
a chiederti, come solo a una madre si chiede,
di ascoltare, esaudire la mia preghiera.
Anche se pesa su di te la sera,
se sopporti dolore e umiliazione
nella tua casa ormai la tua prigione
se il male alla schiena ti piega
e il ginocchio operato cede
se pensi triste che non ho un erede
che la tua vita non è stata come
tu la volevi, io ti prego, in nome
di quel mare che sei stata all’inizio
per me, tu che mi hai portato nella realtà,
non volertene andare, sorridi ancora.
Nun andàtène, ma’.
Mattinate marine
I
Salve mare d’autunno, ciao a te.
Ti sono di fronte questa mattina
come si sta di fronte a un amico
scortese e inaffidabile, ma antico
e seduttore.
Ciao, lo so che non ti importa
niente di me, che è vano
che io ti cerchi e ti saluti.
h.10,05 minuti
Sto davanti a te con un taccuino
al tavolino di questo caffè.
Tu cambi continuamente,
specchi la lotta tra nuvole e sole
fra laghi d’oro e fasce di cenere
sei movimento, sei immensità,
e io qui con le mie parole
da niente e d’amore, senza neppure
saper naufragare davvero.
Svelami il tuo mistero.
Cos’è questa mia smania di scrivere,
dimmelo tu che non parli, non scrivi
ma continuamente mutando
sei, vivi.
come sempre: grazie Giuseppe di esserci! grazie per la tua poesia.