COMMENTO DI ALBERTO FRACCACRETA
A sette anni di distanza dalla pubblicazione sulla carta arancione degli «Oscar», le poesie e alcune prose scelte di Vittorio Sereni — con l’identica e puntuale curatela di Giulia Raboni — si ripresentano oggi nell’assetto raffinato degli «Oscar moderni Baobab», a sottolineare l’eccezionalità dell’aderenza lirica dell’autore luinese al panorama letterario italiano. Non soltanto un classico dunque, ma qualcosa di più: un poeta insradicabile dal paesaggio caducifoglie nella valle della letteratura contemporanea tra frutti ovoidali e semi reniformi. Poeta percorso da brucianti attese e da una reale quanto distillata urgenza comunicativa — sono quattro le sillogi edite, Frontiera (1941-1942), Diario d’Algeria (1947; 1965), Gli strumenti umani (1965; 1975) e Stella variabile (1981) —, Sereni è esattamente quello che ha dipinto Pier Vincenzo Mengaldo: personalità silenziosa ed estremamente consapevole in cui «l’uomo e il poeta facevano tutt’uno».
Noto per la sua «avara vena» («o quand’era in pantofole la sua stitichezza»), il luinese — almeno nella prima parte della sua carriera potentemente influenzato da Montale e dalle Occasioni — ha acquisito sempre di più un timbro riconoscibile di necessarietà compositiva da un lato (la cui «finitezza formale» è pari solo a Leopardi e Mallarmé) e di preponderante esercizio dell’incertezza dall’altro. Poeta del crogiuolo del dubbio non soltanto metafisico ma anche semplicemente pratico (nei riguardi del futuro, nelle incombenze della guerra o nell’umiltà della non partecipazione a troppo rigide posizioni), amante indiscusso del participio presente — e quindi legato all’asciuttezza dello stile nominale —, Sereni dà forse la prova più audace e tenace nell’intero Novecento di un io lirico definito proprio dai confini della sua indefinitezza: io quasi mai cangiante, per nulla istrionico e nemmeno iconoclasta (come il terzo Montale); altresì un io fedele alla propria povertà epistemologica, intriso d’improvvisi e transeunti lampi nella rivelazione del mondo esteriore, sempre elegante e generoso, eppure eroso dal senso di colpa della «vergogna della poesia». Peculiarità invero amabile di un «carattere evidentemente predisposto alla discussione di sé», come sottolinea Giulia Raboni, ci insegna il riserbo, il continuo ripensamento interiore dei propri fantasmi e la sublime arte (ascetica) di un perfezionamento soggettuale, sempre condotto in forme negative e antifrastiche («Ma ero/ io il trapassante, ero io,/ perplesso non propriamente amaro», In salita), e attraversato da lunghe discese infere (Un posto di vacanza). Scorrendo i titoli delle quattro sillogi sereniane si comprende questo progressivo indice di autoanalisi che va dalla frontiera dell’io alle puntute memorie diaristiche, dalla personalizzazione vivificante degli strumenti (oggetti di un’umanità desunta dal proprio imprevedibile passaggio epifanico) al barbugliare della stella variabile, emblema di un lucore apparente e mutabile nel tempo. Il cuore della poetica di Sereni — non esente da walseriane sirene uditive (Vaucluse, Luino-Luvinum) e martellanti iterazioni — risiede davvero in tale dislivello di conoscenza della caducità («non dire che la vita è carbonizzazione o divorzio», Lavori in corso) e flebile speranza d’altrove.
Completano questo imperdibile volume le solide traduzioni di Il musicante di Saint-Merry (con testi da Apollinaire, Char e altri) e la «tentazione della prosa» inverata in Gli immediati dintorni, La traversata di Milano e alcuni scritti critici dedicati alla letteratura e all’arte.
Vittorio Sereni, Poesie e prose, a cura di Giulia Raboni, con uno scritto di Pier Vincenzo Mengaldo, «Oscar moderni Baobab», Mondadori, pp. 1260, € 28.
Soldati a Urbino, da Frontiera
Queste torri alte sulla memoria
nell’ora dolce dei bastioni
e la nebbia che appena
approssima l’autunno a queste terre,
a noi
due, girovaghi soldati. Dici:
— purtroppo — e taci
un nome se una foglia chissà
di dove distolta ti sfiora,
poi parli d’una stella
che ancora un giorno
sulla tua strada forse spunterà.
Forse da oggi soltanto
avvertiremo l’impeto dell’ore
a mezzo il nostro secolo volgenti,
mentre al vento oscillano le lampade
bisbiglia un portico in ombra
e tu trasali al rombo
degli autocarri che mordono la montagna.
La ragazza di Atene, da Diario d’Algeria
Ora il giorno è un sospiro
e tutta l’Attica un’ombra.
E come un guizzo illumina gli opachi
vetri volgenti in fuga
è il tuo volto che sprizza laggiù
dal cerchio del lume che accendi
all’icona serale.
Ma qui
dove via via più rade s’abbattono
dell’ultima caccia le prede
tra le piante che seguono il confine,
ahimè che il puro
segno delle tue sillabe si guasta,
in contorto cirillico si muta.
E tu: come t’oscuri a poco a poco.
Ecco non puoi restare, sei perduta
nel fragore dell’ultimo viadotto.
Via Scarlatti, da Gli strumenti umani
Con non altri che te
è il colloquio.
Non lunga tra due golfi di clamore
va, tutta case, la via;
ma l’apre d’un tratto uno squarcio
ove irrompono sparuti
monelli e forse il sole a primavera.
Adesso dentro lei par sempre sera.
Oltre anche più s’abbuia,
è cenere e fumo la via.
Ma i volti i volti non so dire:
ombra più ombra di fatica e d’ira.
A quella pena irride
uno scatto di tacchi adolescenti,
l’improvviso sgolarsi d’un duetto
d’opera a un accorso campanello.
E qui t’aspetto.
Lavori in corso, da Stella variabile
I
Sarà che esistono vite come foglie morte —
la casa tra le acque
evidentemente in rovina
quella lebbra repressa dall’acciaio
quei ragnateli di suoni domestici di appena ieri
(e vuoti i letti umidi i divani le poltrone deserte)
lasciala nel lampo del suo enigma
espunta dal traffico riproposta a ogni rotazione del Riverside Drive
non chiederti dove saranno mai finiti
non dire che la vita è carbonizzazione o divorzio
(ma strano che uno ricordi solo questo di una intera metropoli)
oppure inezie di un viaggio d’inverno nell’immenso —
il palpebrio del jet nel suo orgasmo di mutante
quando è ancora e non è più
un numero-luce scattato sul tabulatore di New York
o anche quei segni dipinti negli atrii dei formicai —
foglianti epidemie su pareti piastrelle carte da parati
che ci fanno le piccole svastiche qui nel Bronx,
ce n’erano tanti — dicono — ce ne sono tra colombe e falchi
ma puoi anche supporli come emblemi vecchi motivi indiani,
comunque si biforchino in questo mezzo sonno:
drappi e stendardi calpestati in Europa
o l’ombra senza speranza dell’indio tra i grattacieli?
Altre sono in cammino nell’agonia o nell’estasi
nuove ombre mi inquietano che intravedendo non vedo.
In salita, da Stella variabile
«Insomma l’esistenza non esiste»
(l’altro: «leggi certi poeti,
ti diranno
che inesistendo esiste»).
Scollinava quel buffo dialogo più giù
di un viottolo o due
alla volta del mare.
Fanno di questi discorsi
nell’ora che canicola di brutto
i ragazzi Cioè? — mi dicevo
scarpinando per quelle petrarie —.
Proprio non ha senso
se non per certi trapassanti amari
quando si stampano per sempre in loro
interi pezzi di natura
gelandosi nelle pupille.
Ma ero
io il trapassante, ero io,
perplesso non propriamente amaro.
Luino-Luvino, da Stella variabile
Alla svolta del vento
per valli soleggiate o profonde
stavo giusto chiedendomi se fosse
argento di nuvole o innevata sierra
cose di cui tuttora sfolgora l’inverno
quand’ecco
la frangia su quella faccia spiovere
restituirla a un suo passato d’ombra
di epoche lupesche
e ancora un attimo gli occhi trapelarono
da quella chioma spessa
lampeggiarono i denti
per rinselvarsi poi nella muta
assiepantesi attorno
dei luoghi folti dei nomi rupestri
di suono a volte dolce
di radice aspra
Valtravaglia Runo Dumenza Agra.
Vittorio Sereni è nato il 27 luglio 1913 a Luino e scomparso il 10 febbraio 1983 a Milano. Autore di quattro raccolte poetiche edite tra il 1941 e il 1981, è stato — sin dal 1958 — direttore letterario di Mondadori. Numerosi saggi sono stati pubblicati in riviste come «Paragone», «aut aut», «Nuova Corrente», «Tempo Presente», «Il Menabò», «Nuovi Argomenti». Tra le prose spiccano Gli immediati dintorni e La traversata di Milano.