Simoncelli, cinque poesie

Stefano Simoncelli, ph. di Daniele Ferroni

COMMENTO DI MATTEO BIANCHI

Dallo sfondo sfocato sono le forsizie a occupare lo sguardo del lettore con i loro fiori di un giallo intenso, ovvero le riserve del presente. Le piante in questione che simboleggiano l’anticipazione di qualcosa, la sua venuta fuori contesto, separano lo spazio vitale del custode dalla casa in disfacimento a cui bada, quasi fosse la carcassa di un passato irreparabile, insolvibile. In un momento tanto incerto e drammatico che impone un severo isolamento, il poeta si nasconde dietro il vissuto di qualcun altro proprio per non rinnegare il suo e metterlo a fuoco. L’io lirico non trova un senso alla memoria che sbiadisce, così la dimora fatiscente svuotata dalle boutade gravose del tempo riecheggia la Villa chiusa di Corrado Govoni, che circondata da una siepe pativa la stessa «solitudine forzata», la stessa ruggine, ma che aspettava la pace. D’altronde, Govoni era solito ricavarsi periodi di distacco totale dal brusio quotidiano per riconoscersi attraverso un ascolto più limpido di sé.

Simoncelli che «è già morto tante di quelle volte / che non se ne accorgerà nemmeno / nell’attimo in cui morirà davvero», raccoglie versi alla finestra, fatti di ombre dietro i vetri, di gesti trattenuti e voci distanti sui davanzali. Sono versi nuvolosi in cerca di uno spiraglio, di un atto indispensabile e salvifico per tutti, come il vecchio taglialegna solitario che in sogno scalda il resto del mondo a sua insaputa, o di una boccata d’aria, di un profumo improvviso e vitale, così le viole tremanti di Sinisgalli.

Stefano Simoncelli
UN TERRAZZO CON PIANTE

                           a Valeria

I.

Il passato non gli dà tregua
nei pochi metri quadrati
che abita come custode

e insonne guardiano dei morti
mentre al di là della siepe di forsizie
la villa è in disfacimento: la polvere, la muffa,

lo sconquasso lungo le tubature, nelle fogne,
nelle grondaie distrutte dalla ruggine,
dai temporali, dalle tormente,

e la memoria scialacquata,
perduta come il sonno
per le visite notturne

di ombre che scaccia via in fretta,
ogni volta sempre più in fretta,
per non affezionarsi troppo.

II.

Raccontano che trascorra le giornate
in vestaglia affacciato alla finestra
da cui guarda i voli delle rondini

che sono ritornate dall’Africa
e farfuglia di un terrazzo con piante
da cui si intravedono in lontananza le colline.

Ai pochi intimi che gli consigliano
di passeggiare per la camera
o fare un po’ di cyclette

che se no, alla sua età,
gli si atrofizzano le gambe,
risponde con uno sguardo distante,

trasognato e bisbiglia: «Andate da lei
e ditele che sono rimasto lassù,
su quel terrazzo, tra i voli

disorientati delle rondini e che l’amo».

III.

Ha fatto un sogno strano,
intenso e in technicolor.
Abitava in montagna

in una piccola baita
con un grande camino
sempre acceso e là fuori

sconfinate distese di neve.
Ogni giorno all’alba andava
a tagliare legna e si stupiva

che lui, così esile e vecchio,
potesse abbattere tronchi
giganteschi. Sorrideva

quando gli dicevano
che senza lui il mondo
sarebbe morto di freddo.

IV.

È un tempo funestato
da febbri sconosciute, untori
invisibili agli angoli delle piazze,

negli abbracci, nei bicchieri
e tra le ombre degli alberi
nei parchi abbandonati

perfino dal vento
che arrivava dal fiume
prendendo d’infilata le strade, qui

dove, in solitaria quarantena
e in contumacia di se stesso,
apre appena una finestra

su un minuscolo giardino
per una boccata d’aria
che profumi di viole.

V.

Gli arrivano al telefono notizie
di amici intubati negli ospedali
o sbarcati in chissà che altrove

e ne legge sul giornale i necrologi.
È addolorato, ma non si spaventa.
Lui è già morto tante di quelle volte

che non se ne accorgerà nemmeno
nell’attimo in cui morirà davvero.
Gli piacerà, si dice sorridendo,

e si sentirà finalmente in pace.

STEFANO SIMONCELLI è nato nel 1950 a Cesenatico, ma da dieci anni vive ad Acquarola sulle colline di Cesena. Negli anni Settanta è stato uno dei redattori della rivista di poesia e politica “Sul Porto” cui hanno collaborato alcuni dei più importati poeti della seconda metà del Novecento. Libri: nel 1981, presso Guanda, è uscito “Via dei platani” con prefazione di Giovanni Raboni e postfazione di Franco Fortini (premio Mondello opera prima). Nel 1987, presso Gremese, “Poesie d’avventura”. Nel 2004, presso Pequod, “Giocavo all’ala” (premio Gozzano) e nel 2006 “La rissa degli angeli”. Nel 2012 “Terza copia del gelo” (Pequod). Nel 2014 “Hotel degli introvabili” (Pequod). Nel 2017 ha iniziato a pubblicare, sempre con Pequod, una trilogia che comprende i seguenti titoli: “Prove del diluvio” (premio Europa in versi), nel 2019 “Residence cielo” (premio Fabriano) e nel 2020 “A beneficio degli assenti”.

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