La poeta anglo-indiana Arundhathi Subramaniam

Arundhathi Subramaniam

Prayer

May things stay the way they are
in the simplest place you know.

May the shuttered windows
keep the air as cool as bottled jasmine.
May you never forget to listen
to the crumpled whisper of sheets
that mould themselves to your sleeping form.
May the pillows always be silvered
with cat-down and the muted percussion
of a lover’s breath.
May the wall-clock
continue to decree
that your providence
runs ten minutes slow.

May nothing be disturbed
in the simplest place you know
for it is here in the foetal hush
that blueprints dissolve
and poems begin,
and faith spreads like the hum of crickets,
faith in a time
when maps shall fade,
nostalgia cease,
and the vigil end.
And may the vast moon-brindled fields,
opal mountains of sunwashed snow,
resonant with the laughter of all those buddhas,
never be more than a dream away.

Preghiera

Che le cose rimangano come sono
nel luogo più semplice che conosci.

Che le persiane chiuse
mantengano l’aria fresca come essenza di gelsomino.
Che tu non possa mai scordarti di ascoltare
il gualcito sussurrare delle lenzuola
che modellano la tua forma dormiente.
Che i cuscini siano sempre argentei
di pelo di gatto e della tenue percussione
del respiro di un amante.
Che l’orologio a muro
continui a decretare
che la tua provvidenza
è dieci minuti in ritardo.

Che niente venga disturbato
nel luogo più semplice che conosci
perché è qui nel silenzio fetale
che i progetti si dissolvono
e cominciano le poesie,
e la fede si diffonde come il ronzio dei grilli,
fede in un tempo
in cui le mappe sbiadiranno,
la nostalgia cesserà,
e la veglia sarà finita.
E che i vasti campi screziati di luna,
le montagne opalescenti di neve inondata di sole,
risuonanti del riso di tutti i buddha,
non siano mai più lontani di un sogno.

Poems Matter

It was snobbery perhaps
(or habit)

to want
perforation,

to choose cotton, for instance,
with its coarse asymmetries,
over polyester
or unctuous rayon.

But this, I suppose,
is what we were looking for all along —
this weave
that dares to embrace
air,

this hush of linen, these frayed edges,
these places where thought
runs
threadbare,
where colours bleed into
something vastly blue
like sky,

these tatters
at peace almost
with the great outrage
of not being around.

It’s taken a long time
to understand
poems matter
because they have holes.

 

Le poesie sono importanti

È stato forse snobismo
(o abitudine)

volere
la porosità,

preferire il cotone, ad esempio,
con le sue grezze asimmetrie,
al poliestere
o all’untuoso rayon.

Ma è questo, credo,
che abbiamo sempre cercato —
una tessitura
che osa abbracciare
l’aria,

questa quiete di lini, questi orli sfrangiati,
luoghi dove il pensiero
corre
consunto,
dove i colori sanguinano in
qualcosa di vasto e blu
come il cielo,

questi stracci
in pace, quasi
col grande oltraggio
del non esserci.

C’è voluto del tempo
per capire
che le poesie sono importanti
perché hanno dei buchi.

When God Is a Traveller

wondering about Kartikeya/Muruga/Subramania, my namesake

Trust the god
back from his travels,

his voice wholegrain
(and chamomile),
his wisdom neem,
his peacock, sweaty-plumed,
drowsing in the shadows.

Trust him
who sits wordless on park benches
listening to the cries of children
fading into the dusk,
his gaze emptied of vagrancy,
his heart of ownership.

Trust him
who has seen enough–
revolutions, promises, the desperate light
of shopping malls, hospital rooms,
manifestos, theologies, the iron taste
of blood, the great craters in the middle of love.

Trust him
who no longer begrudges
his brother his prize,
his parents their partisanship.

Trust him
whose race is run,
whose journey remains,

who stands fluid-stemmed
knowing he is the tree
that bears fruit, festive
with sun.

Trust him
who recognizes you –
auspicious, abundant, battle-scarred,
alive –
and knows from where you come.

Trust the god
ready to circle the world all over again
this time for no reason at all

other than to see it
through your eyes.

Quando Dio è un viaggiatore

riflettendo su Kartikeya/Muruga/Subramania,
che si chiama come me

Confida nel dio
tornato dai viaggi,

nella sua voce di crusca
(e di camomilla),
nel suo neem, albero di saggezza,
nel suo pavone dalle piume sudate,
appisolato nell’ombra.

Confida in lui
che siede muto sulle panchine
ad ascoltare le grida dei bimbi
dissolversi all’imbrunire,
nello sguardo svuotato di erranza,
nel cuore privo di possesso.

Confida in lui
che ha visto abbastanza –
rivoluzioni, promesse, la luce disperata
dei centri commerciali, stanze d’ospedale,
manifesti, teologie, il gusto ferroso
del sangue, i grandi crateri nel mezzo all’amore.

Confida in lui
che non rivendica più
il premio al fratello,
la partigianeria ai genitori.

Confida in lui
che ha corso la sua corsa,
ma ancora gli resta il viaggio,

in lui che svetta irrorato di linfa
sapendo di essere lui l’albero
che dà frutti, festoso
di sole.

Confida in lui
che ti riconosce –
augurante, abbondante, ferita in battaglia,
viva –
e che sa da dove vieni.

Confida nel dio
pronto a fare ancora il giro del mondo
senz’altra ragione

che vederlo, stavolta,
attraverso i tuoi occhi.

Words

Words this evening are weapons.
We use them with easy precision,
in shaft and counter-shaft,
our mutilations Spielberg-swift,
casual, even artistic.

We who know
that the perfect line
that blinks up, kitten-eyed, from the page
is birthed in the shiver of intestine
and visions malarial,

in the hiss
of detonating dream,
in the terrifying surrender
to absence.

We who know
that artisans must build
only to blast
vast ziggurats of thought
into silence.

We who know.
We who forget.

Parole

Le parole stasera sono armi.
Le usiamo con facile precisione,
di punta e di taglio,
le nostre mutilazioni sono degne di Spielberg,
disinvolte, perfino artistiche.

Noi che sappiamo
che la linea perfetta
che ammicca, felina, dalla pagina
è partorita nel fremito dell’intestino
e da malariche visioni,

nel sibilo
del sogno che esplode,
nel terribile arrendersi
all’assenza.

Noi che sappiamo
che gli artigiani devono costruire
solo per far esplodere
vasti ziggurat di pensiero
nel silenzio.

Noi che sappiamo.
Noi che dimentichiamo.

Da : A una poesia non ancora nata, di Arundhathi Subramaniam traduzione e cura di Andrea Sirotti, Interno Poesia Editore, 2018

Arundhathi Subramaniam è nata nel 1967 a Mumbai da famiglia originaria del Tamil Nadu. Ex danzatrice di Bharatha Natyam, è giornalista freelance e critica di danza, arte e spettacolo per conto di diverse testate. Come poeta ha pubblicato su numerose riviste e sulle pagine di poesia di “The Independent”. Cura la sezio- ne indiana del portale di poesia internazionale “Poe- try International Web” ed è traduttrice di testi teatrali dall’hindi. On Cleaning Bookshelves è la sua prima raccolta pubblicata nel 2001 presso Allied Publishers di Mum- bai, seguita da Where I Live (Allied Publishers, 2005). Alcune sue liriche sono raccolte nell’antologia Reasons for Belonging (Penguin India, 2002), curata da Ranjit Hoskoté. Insieme a Jerry Pinto ha curato l’antologia tematica Confronting Love (Penguin India, 2005). Le sue raccolte sono state pubblicate in Inghilterra nel 2009 in un’antologia per la casa editrice Bloodaxe (Where I Live, New and Selected Poems). Ha curato per Penguin In- dia un’antologia di scritti sul pellegrinaggio in India: Pilgrim’s India, e ha anche scritto una biografia di Sa- dhguru Jaggi Vasudev. Un’altra raccolta, When God is a Traveller è uscita alla fine del 2014 per Bloodaxe. Suoi testi sono contenuti nell’antologia di poesia femmini- le indiana L’india dell’anima (Le Lettere, 2000), a cura di Andrea Sirotti. Nel corso del 2015 ha ottenuto il premio Bigongiari-Il Ceppo, e il Khushwant Singh Me- morial Prize for Poetry per When God is a Traveller. Per lo stesso volume è stata nel 2015 finalista per il presti- gioso TS Eliot Poetry Prize.

Andrea Sirotti è nato a Firenze, dove insegna lingua e letteratura inglese. Fa parte delle redazioni di «Semicerchio», rivista di poesia comparata, e di «Interno Poesia», blog e casa editrice per la promozione della poesia. Da circa vent’anni svolge l’attività di traduttore letterario, soprattutto di poesia e di narrativa postcoloniale in lingua inglese per varie case editrici tra cui Einaudi, Giunti, Le Lettere e Interno Poesia. Tra le poetesse tradotte e curate insieme a Giorgia Sensi figurano Carol Ann Duffy, Eavan Boland e Margaret Atwood. Ha inoltre curato, o co-curato, svariate antologie poetiche a tema. Tra gli altri poeti anglofoni tradotti e curati figurano Karen Gut, Arundhathi Subramaniam, Sally Read e Jane Hirshfield e i «classici» Emily Dickinson e Oscar Wilde. Dal 2000 al 2008, insieme a Vittorio Biagini, ha curato per il Comune di Firenze le iniziative sulla poesia giovanile “Nodo sottile”. È tra i fondatori di Linguafranca, agenzia letteraria transnazionale. Negli ultimi anni si è dedicato alle attività di scout letterario, di consulente editoriale e di organizzatore di festival e altri eventi letterari.

2 pensieri su “La poeta anglo-indiana Arundhathi Subramaniam

  1. Polemica con la gli stereotipi della letteratura “post coloniale”,
    la Subramaniam offre qui un saggio di alto livello di inglese “delle periferie”.
    Molto originale la lingua: tracima di effetti pirotecnici, formule
    classicheggianti, mischiate a gergo ipermoderno, con geniali invenzioni poetiche
    (una per tutte: “winters the eyes”= “inverna gli occhi”)
    Non si pensi però a qualche caravanserraglio di culture disparate,
    ché – prodigiosamente – la lingua di questa raccolta si mantiene
    asciutta, composta, essenziale; persino laconica, a volte.
    Messo di fronte a un compito improbo, il traduttore alterna
    scelte opinabili a soluzioni di apprezzabile saggezza.

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