IL DOPPIO VOLTO DELL’IMMUNITA’
DI ROBERTO ESPOSITO
Bisogna stare attenti a non ridurre il significato del concetto di immunità a un’esperienza recente, di carattere medico o giuridico, volta a chiuderci entro confini difensivi nei confronti dell’altro. Ciò non è sbagliato, ma va inserito in un orizzonte più ampio, adottando uno sguardo di lungo periodo.
Da questa prospettiva, per così dire genealogica, l’immunità, o l’immunizzazione è un paradigma attraverso il quale è possibile rileggere l’intera storia moderna. Se l’esigenza di autoprotezione della vita caratterizza tutta la storia umana, rendendola possibile, è nella modernità che essa viene percepita come un problema fondamentale, e dunque come compito strategico.
Privati delle protezioni naturali di carattere teologico che avevano caratterizzato la stagione premoderna, gli uomini sentono il bisogno di costruire dei dispositivi immunitari di tipo artificiale per proteggersi dai mali, dai conflitti e anche dalle novità che li minacciano, il primo dei quali è lo Stato moderno.
Quanto accade oggi non è che l’ultimo passaggio, sempre più accelerato e quasi ossessivo, di questo processo. Quello cui assistiamo, insomma, è uno straordinario mutamento di scala di un processo risalente nel tempo. Per capire il fenomeno in tutto il suo rilievo, storico, filosofico, antropologico, non dobbiamo smarrire la complessità del meccanismo di immunizzazione, evitando ogni semplificazione polemica o retorica.
Esso è un processo ambivalente, che produce effetti contraddittori. L’immunizzazione è allo stesso tempo necessaria e rischiosa, protegge dai rischi e ne genera a sua volta altri. È necessaria perché nessun corpo individuale o collettivo potrebbe sopravvivere a lungo senza un sistema immunitario che lo protegga da conflitti insostenibili – per esempio senza il sistema immunitario del diritto una società esploderebbe. Ma è rischioso perché, oltre una certa soglia, l’eccesso di protezione rischia di bloccare l’altra esigenza umana fondamentale che è quella della comunità, cioè della relazione tra gli uomini.
Il problema che abbiamo anche oggi di fronte non è quello, semplicistico, di contrapporre comunità e immunità, ma articolarle in una forma sostenibile che non sacrifichi l’una a favore dell’altra. Certo, oggi, forse mai come oggi nel corso di tutta la storia, assistiamo ad una crescita abnorme dell’esigenza immunitaria. Essa è diventata il perno intorno al quale ruota tutta la nostra esperienza reale e simbolica, il punto d’incrocio di tutti i linguaggi – biologici, giuridici, politici, economici. Riguarda insieme il corpo individuale e il corpo collettivo, il corpo sociale e il corpo informatico, tutti in difesa contro i virus di vario genere che li attaccano o sembrano attaccarli.
In questo modo l’equilibrio tra communitas e immunitas sembra spezzarsi a favore di quest’ultima. Il limite appare superato, con la conseguenza di ridurre al minimo non solo la vita in comune, ma perfino la libertà individuale. Il rischio ultimo cui le nostre società immunizzate vanno incontro è quello che si sperimenta durante le malattie autoimmuni, quando il sistema immunitario è talmente forte da rivolgersi contro lo stesso corpo che dovrebbe proteggere, distruggendolo.
Si è visto che questo – un eccesso di difesa da parte degli anticorpi – è quanto accade anche nel covid 19, con l’esito di infiammare i polmoni, come scrive nel suo ultimo libro sull’immunità – Il fuoco interiore – l’immunologo Mantovani. Qui si determina il classico controeffetto delle procedure immunitarie quando sono spinte aldilà della loro funzione normale.
Nel tentativo di fermare il virus, le cellule infette e il sistema immunitario producono una fortissima infiammazione, che può causare danni ai polmoni e difficoltà respiratorie. Allora si cerca di interrompere questa tempesta interna mediante l’utilizzo di immunosoppressori, che bloccano l’azione del sistema immunitario.
Ciò – questo processo contraddittorio di protezione necessaria e di potenziale autodistruzione – nasce dalla caratteristica fondamentale della procedura immunitaria, sia sul piano medico che su quello socio-politico. Essa agisce non abolendo il negativo – il male – ma facendone uso. L’esempio più tipico di ciò è riconoscibile nei processi di vaccinazione. Per evitare il male peggiore, che è quello di ammalarsi, si inietta nel corpo del paziente una porzione, minima e sostenibile, dello stesso male in modo da immunizzare l’organismo contro di esso.
Si potrebbe dire che, per tenere qualcuno in vita, gli si fa assaggiare la morte. Del resto il termine greco pharmakon significa allo stesso tempo cura e veleno, cura mediante veleno. In termini socio-culturali si può dire che, con un eccesso di immunizzazione, si sacrifica la nostra forma di vita, il nostro modo di vita sociale, alla semplice sopravvivenza.
La prospettiva presentata dal prof. Esposito nella dicotomia tra communitas e immunitas, processi di autodifesa ed eccessi di autodifesa (fino all’autodistruzione) è molto interessante. Credo che uno dei passaggi fondamentali del suo intervento sia nel riconoscere preliminarmente la privazione “delle protezioni naturali di carattere teologico” che hanno lasciato sguarniti i bastioni della storia moderna. Mi piacerebbe chiedere al filosofo se la “protezione teologica” sia anch’essa un’immunità con un volto doppio o se, al contrario, in circostanze come quella attuale, possa fornire l’ipotesi di un’apertura all’alterità (senza contagio).
Roberto Esposito studia da anni questa implicazione bio-esistenziale tra comunità e immunità, nelle varie forme che ha preso nel corso della storia. Qui ci offre un quadro lucido ma ovviamente molto semplificato di quella che a tutti gli effetti mi pare una teoria generale delle forme di convivenza. Vorrei porgli due semplici domande: in che misura l’impatto della tecnoscienza sull’ambiente complica il quadro qui delineato? Crede che vi sia un punto di non ritorno nello squilibrio sistemico già in atto?
Gentile Professor Esposito,
Lei già da molti anni lavora sul tema dell’Immunità e della Comunità. E’ stato quindi un profeta dei nostri giorni. Quello che più preoccupa, in questo momento, è lo stato del sistema immunitario delle popolazioni tutto il mondo. La pandemia causata dal covid-19, ha dimostrato la fragilità del sistema immunitario di tutte le popolazioni, quelle ricche e quelle povere. Come si è arrivati a questa situazione? Secondo lei si può tornare indietro? I governi stanno adottando delle scelte giuste? Che cosa prospetta per il futuro?
Intervento illuminante, questo del Prof. Esposito, al quale vorrei domandare se non sia legittimo provare a pensare che tutte le pratiche (o i dispositivi) immunizzanti messe in atto dalla nostra specie, incluse quelle “protezioni naturali di carattere teologico” caratteristiche dell’epoca premoderna, non siano in realtà ascrivibili all’ordine dell'”artificiale”, e se tale ordine non sia la vera chiave di volta per inquadrare sapiens e il suo cammino evolutivo…
“E resta ancora aperta la questione che riguarda la natura della nostra coesistenza. Solo una risposta a questo interrogativo potrà far luce sulla complessità delle ipotesi e degli strumenti di indagine e di azione.”
Con queste parole Jean Luc Nancy – nell’intervista resa a Luigia Sorrentino- affrontava il problema che appare più che mai centrale nella nostra collettività: il rapporto tra autotutela e coesistenza.
Su questo tema si focalizza il lucido intervento di Esposito che sottolinea come l’autoprotezione sia diventata il problema principale della nostra società portando, al contempo, in superficie una serie di problemi ed interrogativi a cui l’uomo contemporaneo deve dare risposta.
Il problema attuale, sostiene giustamente Esposito,” non è quello, semplicistico, di contrapporre comunità e immunità, ma articolarle in una forma sostenibile che non sacrifichi l’una a favore dell’altra.”
È necessario riflettere attentamente su queste parole…
Non so. Il sistema immunitario degli organismi complessi è stratificato e articolato. Non credo sia riconducibile semplicemente a protezione e difesa.
Ci sono i leucociti che provano a distruggere tutto quello che trovano e non riconoscono. Ci sono le cellule T che vengono sollecitate a produrre degli anticorpi dall’antigene. Ci sono i natural killer, una specie di ultima istanza.
Inoltre immunità vuol dire difesa rispetto a ciò che viene dall’esterno. Quindi non contrapporrei immunità a comunità.
Al di là dell’assoluto pregio di questo intervento che, come giustamente rileva il prof. Martella, fa luce sulle implicazioni bio-esistenziali tra comunità e immunità, vorrei ampliare il discorso e ricordare altre profetiche considerazioni di Esposito: la peste, nel suo significato non solo patologico, bensì morale, ontologico e metafisico, era già stata posta da Lucrezio e, prima ancora, da Anassimandro. La peste è destino, ma anche, se misurata sul metro dell’etica, colpa di un uomo che, facendo parte della natura, ne condivide il carattere malvagio o, almeno, insensato. Mi piace constatare, dunque, che esiste un trait d’union tra gli interventi fin qui proposti (mi riferisco agli ottimi contributi di Magrelli e Pontiggia) sul tema: l’assoluta fragilità dell’uomo e dell’umano. Ciò è peraltro dimstrato dalla grande eredità lasciata da questa pandemia: le disuguaglianze sociali.
Rispondo a nome del Professor Roberto Esposito che per mail mi invia questa unica risposta alle prime tre domande formulate da Alberto Fraccacreta, Giuseppe Martella, me stessa.
Cara Luigia,
questo non è un secondo testo, ma una serie di brevi risposte alle singole domande.
Sono buone domande che richiederebbero una trattazione nuova, che non sono in grado di fare in questa fase. Può essere che ritornerò, prima o poi, con un altro libro sul tema, ma al momento sto lavorando su altri argomenti.
Quanto alla domanda di Fraccacreta, il riferimento alla protezioni teologiche riguarda, in maniera generale, la condizione dell’uomo in età premoderna, e in particolare medioevale, in cui la paura, soprattutto della morte, è contenuta dalla fede in una vita ultraterrena. Anche oggi può valere per i credenti, ma certo, con la secolarizzazione, il suo rilievo nella società si è molto ridotto.
Quanto alle domande di Martella, è difficile rispondere in poche battute sul tema ambientale e l’impatto delle tecnologie. C’è un fiume di libri e saggi su un argomento che tocca solo indirettamente il paradigma immunitario. Diciamo che la tecnologia può essere considerata una forma di immunizzazione che, come ogni altra, oltre una certa soglia rischia di produrre conseguenza lesioniste ed autodistruttive, autoimmuni.
Alla terza domanda non riesco davvero a rispondere. Servirebbero molte pagine. Non credo che siamo arrivati a questa situazione per un unico motivo, ma per molte ragioni, che hanno a che fare con il modello di sviluppo che le società contemporanee, occidentali e orientali (ma bisognerebbe distinguere fra esse e al loro interno) hanno da tempo adottato. I governi stanno facendo scelte diverse, che andrebbero valutate diversamente. Per il futuro, dipende dalla durata del virus.
I più cari saluti,
roberto
Le risposte del Professor Roberto Esposito non possono per forza di cose essere esaustive in questo contesto ed è per questo che con lui torneremo a parlare in un secondo momento. Tuttavia le argomentazioni appena accennate dalle nostre domande: la paura della morte a causa dei virus, l’impatto negativo delle tecnologie sull’ambiente, lo stato fragile del sistema immunitario delle popolazioni dell’intero pianeta, ci fanno intravedere la fine di un’epoca. I filosofi dicono che questa è una cosa normale, e non tanto vicina, ma prossima nei secoli a venire. Una fine che se ci voltiamo indietro, non possiamo far altro che constatare essersi verificata molte volte nel passato, si pensi, ad esempio, alla caduta dell’impero romano. Credo che i poeti abbiano molto da scrivere, certo, come del resto, i filosofi. Forse ora dobbiamo trovare davvero un nuovo modo di stare insieme, un nuovo modo di fare Comunità. Possiamo e dobbiamo farlo.
Sì, in effetti le questioni sollevate non ammettono risposte immediate e puntuali, quanto piuttosto manifestano varie sfaccettature della nostra comune perplessità, sollecitando il proseguimento della riflessione (o rifrazione) e di un dialogo articolato sul tema.
Conosco bene il pensiero di Roberto Esposito perché ne seguo l’evolversi da almeno 20 anni. Condivido con convinzione quanto qui detto.Piuttosto riflettevo sulla responsabilità che cadrà sulle spalle della Dottrina del Diritto sia per il raggiungimento dell’equilibrio necessario sia per la necessaria e urgente uscita dalla “legislazione dell’emergenza”, che mi appare più vicina al Seicento delle “grida” di manzoniana memoria e meno a un intervento monosistemico (perciò ho parlato di Dottrina e non di operatori della giustizia- Magistrati Avvocati- di cui mi fido meno pur essendo avvocato da 40 anni). Ma è una riflessione “a valle”.