Donatella Di Cesare, “La catastrofe del respiro”

Donatella Di Cesare

INDENNI?
DI DONATELLA DI CESARE

Forse ne verremo fuori con una patente di immunità che attesti i nostri anticorpi. Passeremo, quasi per abitudine, fra sofisticati termoscanner e fitti circuiti di videosorveglianza, in luoghi e non-luoghi sanificati, mantenendo la distanza di sicurezza, guardandoci intorno cauti e diffidenti. Le mascherine non ci aiuteranno a distinguere gli amici, e a venirne riconosciuti. A lungo continueremo a scorgere ovunque asintomatici che, ignari, annidano in sé la minaccia intangibile del contagio. Forse il virus si sarà già ritratto dall’aria, scomparso, dissolto; ma ne resterà a lungo il fantasma. E noi avremo ancora l’affanno, il fiato corto.

Potremo raccontare quell’evento epocale che abbiamo vissuto. Lo faremo da sopravvissuti – inconsapevoli, magari, dei rischi che ciò nasconde. Non solo per le insidie della rimozione; né solo per quell’impegno che la vita ha di portare con sé la vita che non c’è più, di riscattarla e indennizzarla, nel lavoro infinito del lutto. La sopravvivenza può inebriare, esaltare. Può diventare una sorta di piacere, una soddisfazione insaziabile, ed essere presa persino come un trionfo. Chi è vissuto oltre, chi è sfuggito alla sorte che si è abbattuta sugli altri, si sente privilegiato, favorito. Questa sensazione di forza, come ha osservato Canetti, prevale persino sull’afflizione. Come se si avesse dato buona prova di sé, e si fosse in un certo senso migliori. Bandito il pericolo, si avverte la prodigiosa, eccitante impressione di essere invulnerabili. Proprio questa potenza del sopravvissuto, la sua rinnovata invulnerabilità, potrebbe rivelarsi un boomerang, un danno di ritorno, spingendolo a credere di poter restare indenne anche in futuro.

Saremo dunque sopravvissuti sani e salvi, immuni e immunizzati, forse già vaccinati, sempre più protetti e assicurati, in lotta per indennizzi e indennità. Celebreremo una certa resistenza, lasciando indistinto il confine tra lotta politica e reattività immunitaria. Non potremo ritenerci reduci o scampati da un conflitto perché, anche se il gergo militare ha dominato la narrazione mediatica, sappiamo che non è stata una guerra. Immaginare così quel che è avvenuto sarebbe un errore reiterato, un ostacolo per ogni riflessione. Non è stata una guerra – nessuno ha vinto. Molti sono stati sopraffatti senza poter combattere; molti hanno perso tutto, integrità e proprietà. Proprio quelli che possedevano meno degli altri, i più indifesi, i più esposti.

Essere usciti indenni da quest’inedita e immane catastrofe del respiro non autorizza a credere di essere intatti e inaccessibili al danno. L’indennità non salva. E l’immunità, più che un successo, si capovolge nel contrario. È come quando il rimedio si rivela un veleno. Perciò fallisce il tentativo di evitare a tutti i costi il danno, di calcolare l’incalcolabile, di innalzare iperdifese. L’organismo che, nell’intento di tutelare la propria indennità, manda in giro la truppa dei suoi anticorpi per impedire l’ingresso agli antigeni stranieri, rischia di autodistruggersi. È quel che mostrano le patologie autoimmuni. Bisogna allora proteggersi dalla protezione. E dal fantasma dell’immunizzazione assoluta.

Il respiro è sempre stato il simbolo dell’esistenza, la sua metonimia, il suo sigillo. Esistere è respirare. Nulla di più naturale, nulla di più emblematico. Eppure, già a partire dal secolo scorso, il respiro è stato bersaglio sistematico. Basti pensare all’impiego sempre più esteso e sofisticato di gas e veleni: dal cloro, sul primo fronte bellico, all’acido cianidrico, nello sterminio, dalla contaminazione radioattiva alle armi chimiche. Anche in seguito sembra che la scienza delle nubi tossiche e la teoria degli spazi irrespirabili abbiano fatto progressi. Al punto che si può parlare, come ha suggerito Peter Sloterdijk, di «atmoterrorismo», dato che non si prende di mira la vittima designata, bensì l’atmosfera in cui vive. Non più colpi diretti, né responsabilità palesi. Chi muore cade sotto il proprio stesso impulso a respirare. Di chi sarà la colpa? La manipolazione dell’aria ha messo fine al privilegio ingenuo goduto dagli esseri umani prima della cesura novecentesca, quello di respirare senza preoccuparsi dell’atmosfera circostante.
Non è un caso che la letteratura abbia guardato a ciò con apprensione. È stato Hermann Broch a intuire che il respiro non sarebbe più stato naturale e a diagnosticare che, mentre l’aria avrebbe finito per diventare un campo di battaglia, la comunità umana sarebbe soffocata dai veleni impiegati contro se stessa. L’atmoterrorismo rivolto all’interno mostrava già caratteri suicidi. Nel suo saggio Il meridiano Paul Celan ha celebrato il respiro, ne ha denunciato lo sterminio, ha raccolto e articolato il rantolo delle vittime e promuovendone il riscatto nella poesia, che ha chiamato «svolta del respiro».

Nessuno avrebbe potuto immaginare questa catastrofe del respiro, provocata da un virus, che sembra però stagliarsi sullo sfondo di un’inquietante continuità. L’aria ha perso da tempo la sua innocenza. E dopo l’effetto serra l’alito dell’esistenza non è più libero, né naturale. La spaesatezza vuol dire anche questo: che l’atmosfera, pervasa da concorrenti microbici, è inabitabile e irrespirabile. S’impone tuttavia la convivenza. È in tale contesto che le nuove scienze scoprono i sistemi immunitari.

Cresce la diffidenza, aumenta il sospetto. A meno di non ricorrere a spazi sottovuoto, occorre vivere in un ambiente contaminato, infettato, avvelenato. L’integrità è un miraggio del passato. Per avere condizioni accettabili l’organismo deve votarsi a una veglia permanente, a una sorveglianza insonne. Virus e batteri sono tra noi. Questi nuovi coinquilini aggressivi invadono anche l’intimità, insidiano l’antica dimora, dove tentato di stanziarsi.

La società dell’igiene chiama a raccolta e l’immunità diventa un’ideologia. La cura ossessiva di sé e la medicalizzazione continua sono lo specchio della chiusura selettiva, del rifiuto convinto alla partecipazione, della conservazione caparbia. I sistemi immunitari sono i servizi di sicurezza specializzati nella protezione e nella difesa contro invisibili invasori, virus migranti che avanzano pretese di occupazione dello stesso spazio biologico. Il miraggio dell’immunità procede di pari passo con la globalizzazione.

Non si tratta solo di metafore allusive. L’edificazione dell’immunità – su cui ha riflettuto non per caso la filosofia più recente, a cominciare da Jacques Derrida – va ben al di là delle categorie biochimiche o mediche e mostra evidenti caratteri politici, giuridici, religiosi, psichici.

Nel globo epidemico la biopolitica, anziché perdere valore e rilevanza, si è potenziata diventando immunopolitica. La catastrofe latente, che attraversa e inquieta i decenni del nuovo secolo, non è un però un semplice rischio, che rientrerebbe nel calcolo governamentale dei rischi. Non si può minimizzarne la portata, sminuirne intensità ed estensione. La catastrofe è ingovernabile e mette allo scoperto tutti i limiti della governance neoliberale. È un’interruzione che segna il corso della storia, scalfisce l’esistenza, cambia habitat, abitudini, abitazione e coabitazione. Ha la tonalità dell’irreversibile e il timbro dell’irreparabile. Nulla sarà più come prima. Il mondo di ieri appare quello di un passato remoto, sfuggito, collassato. Nel presente, impoetico e luttuoso, il respiro è stato sconvolto.

Ma anziché indugiare in un rapporto catastrofico con la catastrofe, occorre considerare l’esigenza che la pandemia globale ha portato alla luce. Non è una lotta di confine quella che si verifica tra virus e anticorpi nell’organismo umano dove il sé e l’estraneo sono invece connessi in un gioco intricato; il sistema immunitario, che interviene con le sue volanti e le sue truppe di sicurezza, rischia di andare troppo a fondo. Nell’intento di eliminare l’altro, il sé finisce per uccidersi o esporsi a malattie autoimmuni. Il sé identitario e sovranista non se la cava bene. Anche perché presume un’integrità che non esiste: al suo interno si verificano sempre microscontri, piccole guerriglie. La cosiddetta «dose infettante» è indispensabile. Per funzionare gli anticorpi devono interpretare la parte degli estranei, senza ostentarsi come fieri autoctoni, e in quella parte – il teatro può aiutare! – riconoscersi stranieri residenti. Questa sarà la salvezza e la salute. La difesa poliziesca non giova neppure qui.

Sarà necessario convivere con questo virus e, forse, con altri. Il che significa coabitare con il resto della vita in ambienti complessi, che si sovrappongono e si incrociano, nel segno di una riscoperta covulnerabilità.

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Questo saggio di Donatella Di Cesare è tratto dal libro Virus sovrano. L’asfissia capitalistica, Bollati Boringhieri, Torino 2020. Il libro è uscito come ebook da Bollati Boringhieri il 4 maggio, il 23 maggio per Repubblica /Espresso in edicola e nelle librerie dal 4 giugno con Bollati Boringhieri. Sarà pubblicato in Brasile, Turchia, Germania, Francia e altri paesi.

 

11 pensieri su “Donatella Di Cesare, “La catastrofe del respiro”

  1. E’ un intervento estremamente lucido e articolato (è infatti parte di un libro in uscita) ma soprattutto ne apprezzo la chiara presa di posizione, il saper trarre le conseguenze dalle premesse, fino in fondo, senza consolazioni o infingimenti riguardo a ciò che ci aspetta…sull’orizzonte della storia…sul filo dell’aria.

  2. “Nell’intento di eliminare l’altro, il sé finisce per uccidersi o esporsi a malattie autoimmuni” .Questa mia appare la frase più intensa in questo lucido intervento che nella analisi e descrizione dell’evento è da condividere. Se questo è l’orizzonte (la non “espulsione dell’altro”) il punto è come convocare una “nostalgia dell’altro” . E qui non posso far altro che rinviare al rinnovato “elogio dell’amore” invocato da Byung Chul Han (sia in “L’espulsione dell’altro” che in “Eros in agonia”) e da Alain Badiou nella splendida prefazione alla seconda edizione del citato “Eros in agonia”.

  3. Sicuramente non ho un linguaggio poetico, anche se leggo di poesia molto volentieri. Pensavo che quella fosse una affermazione non una espressione emotiva. Adesso mi è chiaro. Grazie.

    • Gentile Prof. Fano, non so se si tratta di un’espressione emotiva. E’ una possibilità, certo. Perché no? Ma il linguaggio poetico o quello filosofico, può affermare qualcosa indipendentemente dall’emotività. Il dato certo mi sembra sia l’estraneità degli anticorpi, se è vero che il nostro sistema immunitario si è indebolito e i virus proliferamo. Quindi gli anticorpi sono “estranei” stranieri al corpo.

  4. È proprio su questo che non sono convinto. Quando Esposito scrisse il suo libro 15 anni fa utilizzando la nozione di Immunità lo invitammo a Urbino e in molti esprimemmo dubbi sull’uso di questa analogia.
    È ragionevole cercare nel nostro corpo qualcosa che possa spiegare almeno in parte una nozione che a tutti noi preme tantissimo, cioè quella di una apertura che sappia nel contempo mantenere una propria identità.
    E questo gli anticorpi non lo fanno. Sono macchine molecolari complesse e stratificate che eliminano ciò che è estraneo mediante sofisticati meccanismi .Arrivano a danneggiarci quando sono talmente stimolati da rivolgersi contro l’organismo. Ma non mi sembra che questo c’entri.
    Invece mi sembra più interessante il fatto che a livello di codice genetico succede qualcosa del genere, cioè l’estraneo diventa parte di noi. cCi devono essere meccanismi filogenetici, in parte conosciuti, che realizzano questo, TANTO CHE IL 40% del nostro DNA è di origine virale.
    Poi c’è il sistema nervoso, ma quella è un’altra storia e adesso con l’epidemia c’entra poco. Grazie per l’interesse e per il dialogo stimolante.

  5. Trovo stimolante questo dibattito fra Vincenzo Fano e Luigia Sorrentino, che dimostra la fecondità dell’incontro/scontro fra le due culture, la scientifica e l’umanistica, l’esprit de geometrie e l’esprit de finesse. Un incontro che è da reinventare ad ogni nuova occasione. Le implicazioni sono numerose e alcune verranno fuori probabilmente dai prossimi interventi.

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