Alessandro Bellasio, “Chi persegue la via dell’arte è vissuto, vive e vivrà segregato”

Alessandro Bellasio credits ph Dino Ignani

ARTE ADIABATICA
La linea di faglia tra bios e pneuma

di Alessandro Bellasio

E’ ormai trascorso quasi un secolo da quando, inanellando fulminanti saggi dedicati allo studio comparato di letteratura e biologia, arte e medicina, un grande poeta e frequentatore per professione delle scienze della vita, Gottfried Benn, stringenti argomentazioni e nutrita casistica alla mano, era giunto a una conclusione sconcertante e lapidaria: lo spirito, e quella sua manifestazione par excellence che è l’arte, si dà esclusivamente come istanza bionegativa.

Tradotto nel gergo più familiare del riduzionismo biologista del nostro tempo: l’arte non offre alcun vantaggio evolutivo. (Non offre alcun vantaggio e basta, avrebbe verosimilmente sentenziato Benn, guardando al proprio e a molti altri, ben documentati casi). A modo suo e per vie assai diverse, Marina Cvetaeva doveva avere in mente qualcosa di analogo quando, in uno dei suoi appunti epistolari indirizzati a Boris Pasternak, e riferendosi nello specifico a Rilke ma pensando soprattutto a sé stessa, sosteneva che «è dal marchio della randagità che sempre riconoscerai il poeta». Per la scrittrice russa, fare letteratura significava parlare per sempre dal confino e al confine – del silenzio, di Dio, dei morti. Stando così le cose, potremmo dire allora che non solo dal fare arte non sembrerebbe derivare alcun particolare agio o tornaconto adattivo, ma che, al contrario, l’arte esporrebbe più frequentemente a un rischio, il più delle volte assoluto.

Tutto questo con buona pace di certo velato, ambiguo provvidenzialismo, presente in larga parte delle teorie evoluzioniste susseguitesi da Darwin ai nostri giorni. Nelle quali, in effetti, il deus ex machina di un’agenzia sottesa al divenire biologico – si chiami essa selezione naturale, equilibri punteggiati o deriva genetica, sia essa finalisticamente orientata, neutra o diplomaticamente a metà fra le due – sta in agguato dietro l’angolo. E d’altronde, nessuna di queste agenzie sembra giocare il ruolo decisivo, quando si tratta di vite consacrate all’arte.

Perché il punto è esattamente questo: vita e arte sono sfere separate, e al limite antagoniste.

Uno strappo incomponibile oppone bios e pneuma, e solo quest’ultimo istituisce il milieu abitabile per un artista. Come osservava Pavese nei suoi diari, o la letteratura, per lo scrittore, è dimensione di esistenza unica e totalizzante, indistinguibile dalla vita in quanto essa stessa divenuta tale, oppure non è che «gioco di letterati».

Il fatto è che lo “spirito” – questo ineffabile e desueto catalizzatore degli umani consorzi e scambi – sembra alimentarsi di esigenze soltanto proprie, inspiegabili con formulazioni che, in ultima istanza, non mettano capo alla esclusiva realizzazione dell’opera. E questo perché in arte, in letteratura, in poesia, è ad essa e a nient’altro che la “vita” è interamente subordinata: «chi reca arte negli occhi e nella mente, costui è dimentico di sé». Ma non certo nel senso irenico di un idiotismo trasognato, idealista e contemplatore – come vuole la vulgata, attualissima, del poeta trafugatore di buoni sentimenti, edificante e innocuo. Tutt’altro.

Sequestro, isolamento, coercizione: sempre, da sempre, chi persegue la via dell’arte è vissuto, vive e vivrà segregato. Arte è un processo adiabatico: irreversibile e in vitro, non scambia calore con l’esterno. E ciò significa (forzando l’analogia, ma in una prospettiva rigorosamente fisica) che essa non conosce tempo (o al limite solo un tempo proprio, interno) – e dunque neppure mandanti, ordini del giorno. Né le sirene del sociale, né i vari diktat dell’ora – tutto ciò che è occasione o accidente – possono o potranno mai orientarla o deciderne.

Ci sentiamo domandare in questi giorni disastrati: come cambierà la poesia, come sarà la letteratura, cosa diventerà l’arte, nel mondo sferzato dal flagello? Ma: non era già da sempre la calamità la condizione primaria dell’esserci, anche nella nostra porzione (apparentemente) ben protetta di mondo, se è vero che «esistere significa essere in pericolo»? E inoltre: prima di chiederci come cambierà, proviamo a fare un passo indietro e a porci la questione preliminare: cambierà?

No, mormoriamo dapprima increduli, certo che no, sembriamo quasi convincerci d’un tratto, perché dobbiamo pur riconoscerlo: mai è cambiata, mai cambierà – fare arte (finché si farà arte e solo fino a quel giorno) significa e significherà sempre vivere sotto chiave, sottovuoto e nel sottosuolo, da sempre sul filo dell’asfissia e ciò nonostante fino all’ultimo respiro, ostaggi di un compito inesauribile e di una realizzazione interminabile, malgrado ogni circostanza e qualunque cosa accada, a qualunque costo.

POST-SCRIPTUM

La suggestione di un’arte adiabatica vorrebbe alludere non tanto a una chiusura, d’altra parte impensabile, rispetto agli eventi del mondo, bensì a quello che (attenendoci sempre al lessico della biologia) potremmo chiamare primato del momento autopoietico rispetto a quello adattivo. Infatti, se da un lato «il lirico non sa mai abbastanza, non lavora mai abbastanza, deve essere a contatto con tutto, deve avere un’idea precisa del punto in cui è oggi il mondo, quale ora passa in questo momento meridiano sulla Terra», ecco poi subentrare l’attimo decisivo del vincolo formale e del controllo assoluto, allorché «egli deve isolare ermeticamente la sua poesia contro irruzioni, possibilità di disturbo, deve ripulire lui stesso i suoi fronti», perché in definitiva «il solo, vero nemico è il caso».
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1 pensiero su “Alessandro Bellasio, “Chi persegue la via dell’arte è vissuto, vive e vivrà segregato”

  1. Si potrà essere più o meno d’accordo su questo iato, di derivazione plotiniana, fra bios e pneuma, ma questo saggio ci interpella fino in fondo sia come poeti che come esseri umani. Ripensando poi specialmente al post-scriptum, dove si chiarisce che per “arte adiabatica” non si intende affatto la chiusura dell’artista rispetto agli eventi del mondo circostante quanto piuttosto, nell’attimo decisivo, la necessità “del vincolo formale e del controllo assoluto”, mi viene da chiedere all’autore se l’intero approccio socio-poetico qui espresso non si possa per certi aspetti ricondurre alla dialettica fra vita e forma così come è stata sviluppata da intellettuali tanto diversi tra loro come Simmel e Pirandello.

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