La consapevolezza della metamorfosi.
Sul nostro tempo dopo il primo assalto del Covid
DI ALBERTO CASADEI
Dopo ogni evento traumatico per una collettività, adesso addirittura per il mondo intero, ci si interroga su come le arti, e in particolare la poesia, possano rispondere adeguatamente. In questo senso, le parole più celebri restano quelle perentorie di Adorno sull’impossibilità di scrivere dopo Auschwitz se non compiendo un atto “barbarico”, cioè di inconsapevole fruizione di un bello diventato ormai velenoso. Eppure grandissimi poeti come Celan vollero appunto scrivere per intercettare il senso dell’evento nefando.
Riproporre poesia o arti in genere come se nulla fosse accaduto sarebbe impossibile, certo, ma anche chiedere alla poesia una via maestra per indicare il futuro sarebbe velleitario. È in queste condizioni che si ripropone il senso perenne di ogni gesto artistico, quello di rendere percepibile un nucleo di senso altrimenti non evidente o addirittura occulto. Se fino a poco tempo fa pensavamo che la poesia in particolare andasse esclusivamente nella direzione dell’individualismo e del narcisismo, tipici della cultura occidentale, è chiaro che questo aspetto risulterà per tutti solo uno di quelli del ‘poetabile’, mentre si dovranno trovare i mezzi per descrivere una condizione di continua metamorfosi, nella quale all’improvviso gli spazi e i tempi che pensavamo fossero in nostro possesso sono ridiventati degli apriori che ci condizionano. Per alcuni mesi tutti siamo stati soprattutto tempo da riempire in uno spazio fisso, e ora dovremo riadattarci a spazi che ci risulteranno estranei, produrranno senz’altro l’Unheimlich come tutto ciò che pensavamo nostro e torna a noi come ‘altrui’.
Noi ci sentiremo come parti di una trasformazione, che è la condizione che in genere percepiamo come controllabile, all’interno delle nostre vite quotidiane, e invece non lo è: come nell’immagine di Escher che accompagna queste righe, passiamo dalla materia bruta alla costruzione razionale, dall’animalesco al civilizzato, dall’indistinto all’individuale – ma possiamo anche compiere il cammino inverso. In questa metamorfosi incessante la poesia dovrà trovare i motivi per cui è giusto cercare una strada, una direzione che riguardi l’umanità di tutti.
Troppo spesso infatti abbiamo sentito parlare di pandemie che non ci riguardavano e non le abbiamo considerate degne se non di una notizia in ventesima pagina. Stavamo lentamente prendendo consapevolezza dell’avvicinarsi di un punto di non ritorno per il clima del pianeta, e ora rischiamo di dimenticarlo perché si profila un periodo di drammatica povertà anche per buona parte del mondo capitalistico: il che potrebbe spingere ad azioni ancora più aggressive contro il nostro ambiente anziché a un profondo ripensamento dei sistemi produttivi.
Ma certo non potrà essere la poesia a risolvere queste grandi questioni. Potrà però indagare alcuni moments of being della pandemia, per interpretare in senso almeno simbolico o allegorico il luogo della nostra metamorfosi. Potrà parlare di cosa ha significato, per una popolazione, essere protetta dal contagio attraverso una forte restrizione di ogni tipo di libertà personale, mentre però si diceva che una soluzione ottimale sarebbe stata quella dell’immunità di gregge. Potrà parlare di cosa rimane nell’immaginario collettivo della scena di un Papa che compie un rito per favorire la fine di un’epidemia di notte, sotto la pioggia, davanti a una piazza di San Pietro deserta. Potrà dare voce ai nuovi ‘sommersi’, a chi ha lasciato la vita in uno spazio asettico, circondato da persone sconosciute avvolte in tute e maschere protettive che impedivano ogni minimo contatto.
La nuova poesia (la nuova arte in genere) sarà insomma di progetto e non di meri contenuti. Il progetto per trovare uno stile che renda dicibile quanto è davvero avvenuto, nel profondo di questa crisi così improvvisa e violenta, e insieme così prevedibile (un virus che ce l’ha fatta a trasmettersi nel modo per lui migliore). La vera rivoluzione poetica, per il dopo, sarà cercare di trovare esattamente il nostro posto nella sequenza continua delle nostre metamorfosi, sapendo che cambierà ancora e che dovremo poi di nuovo inventare un altro stile, indefinitamente, come nei disegni di Escher.
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Ciò che mi suggerisce questo perspicuo, equilibrato intervento di Casadei (in felice unione con le ricorsive immagini di Escher) è che la funzione della poesia, del verso in particolare, sia quella di tradurre ciascuna volta l’Unhemlich dell’esperienza nelle svolte del discorso.