di GIUSEPPE CONTE
Tristi record si sono accumulati durante l’isolamento in casa per l’Epidemia. Me ne sono reso conto all’improvviso. Dal compimento dei diciotto anni in poi, non ero mai stato settanta giorni di fila sotto lo stesso tetto , né settanta giorni di fila nella stessa città. Non ero neppure mai stato ininterrottamente per settanta giorni insieme a mia moglie. E non ero mai stato tanto senza vedere né sognare il mare. Perché nella mia vita ho sempre vissuto sul mare, in Liguria, in Bretagna, a Nizza, e quando abitavo giocoforza lontano dalle sue rive, non passava certo più di una settimana che non mi chiedessi dove era, vedendolo in un sogno ad occhi aperti.
Fuggito per l’Epidemia da Milano, in Riviera non ho trovato pace. Impaurito, angosciato, snervato, ho avuto bisogno di ricorrere al mio antico amico chiamato Valium. E alla mia amica ancora più antica chiamata poesia. Mi sono inchiodato al computer, stretto tra due tavoli in questo antro cavernoso dove i libri stanno come stalattiti e stalagmiti , deciso a non fare più un passo, a commerciare con le ombre e a diventare un’ombra io stesso. L’inverno finiva, una primavera inutile baluginava al di là della vetrata.
Cultore di primavere, Veneri e resurrezioni come sono sempre stato, ora non me ne importava più niente. Dappertutto vedevo cenere e contagio, come per una maledizione. Avevo sempre amato mobilità, leggerezza, cambiamento. Ora mi stavano accerchiando stasi, pesantezza, uniformità. Mary, che continuava a uscire con la sua bella mascherina azzurra almeno per andare a fare qualche spesa e per prendere i suoi amati giornali, il settantesimo giorno mi ha convinto a mettere il naso fuori di casa. Mi convince sempre, non so come faccia. Sono uscito, col naso in realtà coperto da una pezzuola bianca, titubante, senza gioia. Ho mosso i primi passi, le gambe mi si sgranchivano, mi sembrava un miracolo saper ancora camminare. Un miracolo ancora più grande, alla fine della strada in leggera discesa, veder giganteggiare davanti ai miei occhi il mare. Possibile che avessi dimenticato anche lui? Era lì,di un colore selvatico, né blu né viola, falciato dal vento, spopolato, immobile e in continuo movimento sin sotto l’orizzonte sottolineato da uno strano filo di oscurità meridiana. Mi sono guardato intorno, non c’era nessuno, ho abbassato la mascherina e ho inspirato a pieni polmoni un’aria fresca di alghe e di lontananze. Soltanto allora ho avuto la certezza che l’ universo era ancora vivo, e che in questo suo angolo ero ancora vivo anche io.
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“Cultore di primavere, Veneri e resurrezioni come sono sempre stato, ora non me ne importava più niente.” Poeta mobile, gioioso, mitomodernista, amante del mare, ora si trova lì a due passi, rinchiuso in una cameretta, incapace persino di sognarlo. Vive il senso della stasi: della paura dell’assedio che ci portiamo dentro. Perché questo è il senso della parola greca “stasis”, con tutto il carico di archetipi che si porta dietro. Giuseppe Conte ce lo comunica benissimo in prosa, ma è inevitabilmente poesia.
Leggo quest’intervento di Giuseppe Conte sul blog Rai di Luigia Sorrentino e penso che la grandezza di un poeta si misura anche dalla “semplicità” delle parole che sceglie per comunicare un concetto, una sensazione (al di là del momento creativo che genera il verso). Forse esagerava Breton quando, non senza ironia, diceva che “una poesia deve essere una disfatta dell’intelletto e nient’altro”. Eppure, qualcosa di vero c’è. Forse la poesia non può essere il luogo dell’intellettuale in cerca di scorciatoie. Grazie Giuseppe.
Condivido quanto ha detto Giovanni Ibello. “Aria fresca di alghe e di lontananze” . Un grazie al Maestro.