Doomsday Clock e realismo
di Carlo Bordini
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Il Doomsday Clock (orologio dell’apocalisse) è l’iniziativa di un gruppo di scienziati dell’università di Chicago intesa a misurare metaforicamente il pericolo di un’ipotetica fine del mondo. Iniziata nel 1947, la lancetta che si avvicina alla mezzanotte dell’apocalisse è andata progredendo; all’inizio mancavano sette minuti; quest’anno, nel 2020, le lancette distano dalla simbolica mezzanotte 100 secondi, solo un minuto e quaranta.
Inizialmente gli scienziati intendevano come elemento principale di pericolo la guerra atomica; dal 2007 hanno cominciato a considerare altri elementi, come, ad esempio, i cambiamenti climatici.
Con questo atto metaforico gli scienziati vogliono ricordare all’umanità che la nostra civiltà è affetta da numerose malattie mortali che dovrebbero essere subito affrontate. Ma queste sono cose che ormai sanno tutti… Io le ho prese dal web (cosa facilissima) ma già le sapevo come le sanno tutti. E tutti sanno che l’umanità non fa quasi nulla per affrontare questi problemi.
Ho la sensazione che il covid-19 faccia parte di questa rovinosa corsa verso la distruzione. Dato che le malattie mortali dell’umanità sono molte, questa mi sembra essere una delle tante, e neanche la più tragica (pensiamo alla sovrappopolazione, ai cambiamenti del clima, alla presenza delle armi atomiche). Comunque io, poetino romano, non ho ricette interpretative o risolutive. Mi limito a constatare che siamo alla vigilia di una fortissima crisi economica, per esempio. Constato. Cerco di salvarmi personalmente.
So, da tempo, che il mio compito non è salvare il mondo, ma salvarmi nel mondo. E inoltre, accetto la catastrofe.
Potremmo chiederci: ma allora, a che serve fare il poetino romano? Non lo so. Francamente non lo so. Forse a credere in un’utopia. Come i bambini: chi vuol credere all’utopia metta il dito qua sotto.
2
Attenti all’Italia… L’Italia è nei guai… E’ un paese che diventa sempre più incivile. Brutto periodo. Però c’è da fare una constatazione. Gli italiani danno il meglio di sé quanto sono con le spalle al muro. Quando giocano con un uomo in meno. Quando sono già battuti. Forse sta per succedere qualcosa di imprevisto. Sempre da parte di una minoranza, naturalmente. E’ sempre così. Forse dal baratro in cui stiamo cadendo può venir fuori una ripresa. In questo periodo penso molto al neorealismo cinematografico italiano. Che ha creato un cinema nuovo con pellicole scadute. Che è nato dalla catastrofe.
In questo periodo di Covid guardo sul web vecchi film. Gli italiani hanno inventato il realismo cinematografico. Gran parte del miglior cinema del mondo è andato a scuola dal neorealismo italiano e non esisterebbe senza il neorealismo.
Prima non esisteva quel tipo di realismo. Tra le due guerre è esistito il realismo magico in Francia, bellissimo, ma molto fiabesco; magari fiabe nere, noir. E’ esistito il cinema russo, ma erano film di regime, tranne pochi: buoni contro cattivi.
Il neorealismo, vale a dire il realismo cinematografico italiano, non vede la vita come una fiaba e nemmeno come una lotta tra buoni e cattivi (escludiamo per un attimo l’epico Roma città aperta). Il realismo cinematografico italiano di De Sica, Zavattini, Rossellini, Visconti ed altri, mette le mani nel fango, fa vedere il male, la contraddizione della vita. Non ci sono i buoni, non arrivano i nostri. Le storie d’amore non terminano col matrimonio. La vita non è un susseguirsi di tragedie. Non ci sono eroi tristi. Mette le mani nel fango, fa vedere il fango. Non c’è retorica.
Ma è durato poco. In breve tempo il realismo ha dato luogo al folklore, e poi al “volemose bene”, alla commedia all’italiana. Ed è nata quindi una nuova retorica. Non è la retorica dei buoni e dei cattivi, degli eroi tristi, dei grandi amori. E’ la retorica del volemose bene, del pane amore e fantasia, una retorica e una cultura provinciale. Gli italiani sono belli, sono buoni, sono disorganizzati ma creativi, si risolve tutto con la bontà e l’allegria insita in questo paese magico e bellissimo, senza grandi sentimenti, senza grandi problemi. Solo Fellini è stato capace di sopravvivere e di far sopravvivere il realismo mischiandolo al sogno e al paradosso, un sogno cinico e magico. In Fellini non esistono mai né personaggi positivi né facili soluzioni.
Un certo cinismo privo di illusioni, ma non privo di moralità, che era presente nel neorealismo. è diventato cinismo deteriore. La capacità di non illudersi ha dato luogo a illusioni banali. E’ mancato, dopo i primi anni, un senso etico e autocritico. Si è riso del fascismo, ad esempio, invece di vergognarsene.
Il problema è che gli italiani danno il meglio di sé quando sono con le spalle al muro. Poi, quando le cose cominciano ad andar meglio, ripiombano in una vile corruzione. E qui bisognerebbe continuare e capire perché. Madri vili, diceva Pasolini; che insegnano ai figli ad essere vili. E in questo ambito a che serve fare il poetino romano? Non lo so. Forse a morire dignitosamente. O a creare qualcosa di nuovo.
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Devo dire che fra tutti forse questo è l’intervento che mi tocca più da vicino,col quale mi sento in completa sintonia. Niente di trascendentale, intendiamoci. Ma un realismo integrale, una enorme onestà intellettuale. “Cosa può fare un poetino romano?” Questo: offrirci una testimonianza spassionata che custodisce un residuo di “speranza messianica.”
Bello. Complimenti.
A scuotere servono, a scuotere, i poetinii romani, come tutti i poetini del mondo. Perché siamo ini tutti, di fronte alla catastrofe che incombe. Perché non siamo finora riusciti a comunicare il malessere planetario, a indicare minime soluzioni, come passi anche minimi di solidarietà, di attenzione alla casa comune. La poesia serve anche a immaginare utopie, si dice, come un futuro fuori dagli schemi tossici economici ed egoici . Allora continuiamo ostinati a inseguire utopie, non restiamo imbelli nell’attesa dell’ autoestinzione. Almeno salviamo la faccia (la dignità) dell’homo sapiens, prima che sia tacciato come insipiens.