Bernhard, “Sotto il ferro della luna”

COMMENTO DI ALBERTO FRACCACRETA

Le 56 liriche che compongono Sotto il ferro della luna (1958), terza silloge nella breve parentesi poetica di Thomas Bernhard (dal ’63 in poi, con la pubblicazione di Gelo, si dedicherà interamente al romanzo e al teatro), nascondono alcune delle linee tematiche essenziali nell’opera dello scrittore austriaco.

Come per In terra e all’inferno e In hora mortis, troneggia la scena il paesaggio, docile e spaventoso, della provincia austriaca, simbolo o relato di una condizione egologica: paesaggio, dunque, che assume quasi le vesti di una persona loquens, che acquista sentimenti e sommovimenti umani, che si fonde con l’io autoriale nell’opaca silva del verbo per far risuonare un’ulteriore dimensione di sapienza (o anche d’insipienza) delle cose. Si tratta di una prosopopea imperfetta, ossia di un lasciare che gli oggetti immateriali esprimano qualcosa coincidente il più delle volte con lo stato d’animo del poeta, il più delle volte orientato al pensiero della morte e alle sue implicazioni psicologiche.

 

D’altra parte, i termini residuali maggiormente frequenti di questo paesaggio montano e boschivo sono «polvere», «sangue», «pietra», «cenere» (ma anche «luna», «stelle», «alberi», «foglie»). Da un lato l’«egra terra», dall’altro la «luce», le «nuvole», l’alto, l’heideggeriano Aperto.

L’evidente matrice espressionista dei testi capovolge l’idillio bucolico in un inquietante rimando di motivi notturni, al limite dell’orrore («Il bosco avvolgerà le sue ossa/ nell’irrequietezza/ e ti butterà giù/ il vento/ che dal bianco nascondiglio/ di caprioli disfatti/ colpisce.// Il sole seppellirà/ la sua piaga/ dietro i tronchi morenti»). Prosopopea, correlativo oggettivo, sintassi analogica: è chiaro sin dal titolo (a suo modo leopardiano) l’accostamento tra l’esteriore e l’interiore, quella prossimità — tipica della poesia — tra l’interno e l’esterno, lo scambio osmotico di circostanze psichiche ed eventi naturali. L’orrore del paesaggio, il presagio funesto nel «ferro lucido della luna» e «il rigido/ piede dell’uccello gigante/ cui hai confidato/ il tuo lutto/ in inverno» sono elementi che suscitano e al contempo esorcizzano la paura della morte, intesa però come non pienezza di vita, non letizia, non splendore, opacità.

 

È la morte stessa a essere orrorifica, contraria all’aspettativa e ai desideri umani. Anche per tale ragione, la poesia d’apertura esprime una temporalità ad anello, identica a sé stessa. «Non sappiamo nulla»: tutto è invariabilmente simile all’«anno di mille anni fa», tutto passa alla stessa maniera, «saremo dimenticati». Il paesaggio diviene allora un testimone muto della ciclica assenza di cambiamento, del tempo fermo e stantio, del folle avvicendarsi della specie umana, «delle città sprofondate». Eppure… Eppure. Sì, in questo raro e difficilissimo eppure — ugualmente tipico della poesia — riescono ancora a sorgere la «preghiera» e la speranza di un’alterità.

Thomas Bernhard, Sotto il ferro della luna, traduzione di Samir Thabet, Crocetti/Feltrinelli, pp. 144, € 12

 

1

Quest’anno è come l’anno di mille anni fa,
noi portiamo la brocca e sferziamo la schiena della vacca,
falciamo e non sappiamo nulla dell’inverno,
beviamo mosto e non sappiamo nulla,
presto saremo dimenticati
e i versi svaniranno come neve davanti alla casa.

Quest’anno è come l’anno di mille anni fa,
volgiamo lo sguardo nel bosco come nella stalla del mondo,
mentiamo e intrecciamo cesti per mele e pere,
dormiamo mentre le intemperie consumano
davanti alla porta le nostre scarpe infangate.

Quest’anno è come l’anno di mille anni fa,
non sappiamo nulla,
non sappiamo nulla del declino,
delle città sprofondate, del vortice in cui sono affogati
cavalli e uomini.

25

Dio sente la mia preghiera anche
al mattino nel campo di grano
dove il vento
chiama a raccolta i figli del mezzodì
e i defunti
si riposano dai loro cervelli
al muro.
Dio mi sente
nella tenebra della pioggia
e sulle vie
di erbe amare e di pietre lucide
sopra i teschi della notte
che, per la paura, s’infrangono
nei miei sogni.
Dio mi sente
in ogni angolo del mondo.

56

Nel nome di colui che morì sulla pietra grigia
voglio mandare gli uccelli a Sud
dove spira il vento tra i boschi neri
notte dopo notte e dove la fanciulla alla fontana
non attinge nient’altro che mestizia,
voglio cantare nel suo nome
e udire germogli negli azzurri soffi d’aria estiva
guardare giù nelle valli
e disserrare porte e bocche per colui che è stato dimenticato.

Contare gli uccelli, contarne il numero smisurato,
Nord del mare,
la mia tomba somiglierà alla sua nel bianco dei discorsi,
nelle pieghe dell’ira
e all’alba del seme catturato
che diviene polvere sulla sua mano irrigidita

nel nome di colui che morì sulla pietra grigia.

Thomas Bernhard nasce nel 1931 ad Heerlen, in Olanda, dove la madre, una ragazza nubile austriaca, si era recata per evitare lo scandalo che la nascita di un figlio illegittimo avrebbe provocato nella provinciale Austria. Cresce presso i nonni materni a Vienna e a Salisburgo: è un ragazzino difficile, ma nutre un grande affetto per il nonno, che lo spinge a studiare musica e a prendere lezioni di violino. A diciotto anni Thomas contrae la pleurite e viene ricoverato in sanatorio, dove comincia a scrivere poesie. Nel 1963 pubblica il primo romanzo Frost (Gelo), che vince il premio Brema. A partire dagli anni Settanta scrive numerosi testi teatrali, tutti di grande successo. Nel 1970 gli viene conferito il premio Büchner. Muore a Gmunden nel 1989.

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