COMMENTO DI MARIO FAMULARO
“La parola poetica deve essere, per Rilke, una parola svuotata del peso dell’io e fatta essere lo spazio puro in cui si trascrive l’esperienza del «contatto» con le cose, quel contatto che un poeta «senza nome» esperisce con le «cinque dita della mano dei sensi». La questione della parola – il suo come – è pertanto strettamente connessa sia alla necessità di un esercizio di estrema riduzione del sé, sia alla necessità di dire dell’intimità estranea che ci lega alle cose.”
(Daniela Liguori in “Rilke e l’Oriente”, Mimesis, 2013)
Le poesie contenute in “L’Angelo e altre poesie” (Via del Vento Edizioni, 2003, traduzione di Roberto Carifi) riescono a restituire, con una selezione accurata, la cifra stilistica e tematica del Rilke più maturo, quello che, incorporato serenamente l’orrore della morte e della dispersione (ricorrente, ai limiti della novella gotica, nei racconti giovanili di “Totentänze”), si fa voce impersonale dell’assoluto, strumento nelle mani del tremendo e del magnifico, parola commossa che si lascia nominare da quella stessa bellezza che “disdegna di distruggerci”.
Ed ecco che in “Morte del poeta” i versi mostrano la gioia nascosta di essere “una cosa sola / con queste profondità, con questi prati”, in uno splendore invisibile a “chi lo vide vivere”, nonostante il suo viso fosse sia “le acque” che “la vastità del tutto”, quel tutto che lo desidera, “lo reclama” – fino a collegare la maturità della dissolvenza dell’esistere al frutto caduto dall’albero, la cui polpa “nell’aria si corrompe”.
La percezione del terribile, intrecciata alla rivelazione della bellezza nascosta nel mistero delle cose, viene poi paragonata “all’impacciato incedere del cigno”: nuovamente vi è il richiamo alla morte, a una fine serena e compenetrata nel quotidiano, priva di angosce, che si avverte come profondamente naturale.
Nonostante nella consapevolezza della nostra fine dilegui “il fondamento / del nostro stare quotidiano”, essa rivela un’accoglienza felice, “mite”: così come il cigno è “padrone di sé e sempre più regale”, capace di reggere l’abisso della sua “discesa ansiosa” sotto le acque, allo stesso modo l’uomo che ha fatto proprio l’orrore della dissolvenza e della morte, riuscendo ad accedere al segreto più sacro e intimo dello splendore delle cose, “in dignitoso distacco avanza”.
Sarà sempre Rilke, nella nona elegia duinese, in uno stato non dissimile a quello estatico, a ribadire: “Terra … non sono più necessarie / le tue primavere a guadagnarmi a te –, una, / ah, una sola è già troppo per il sangue. / Senza nome, da tanto, a te mi sono votato. / Sempre fosti nel giusto, e la tua sacra scoperta / è la familiarità con la morte.”
Tutte le parole chiave di quanto detto su Rilke sono presenti in pochi versi: “Senza nome”, a evidenziare l’impersonalità, l’opera di riduzione e svuotamento dell’io; la “sacra scoperta” dell’accesso al mistero terribile della bellezza del mondo; la “familiarità con la morte”, che è necessario attraversare e fare propria, per realizzare tale “scoperta”; e la percezione che “una sola” primavera sia “già troppo per il sangue”, per lo stesso motivo per cui “ogni Angelo è terribile” e “il bello è solo l’inizio del tremendo”.
Tutti questi temi, che appaiono forieri di una consapevolezza lacerante e dolorosa, sono pregni di una serenità disumana, commovente, simile a “l’infinita calma” di quel cigno; ed ecco che, nonostante noi “conosciamo il paesaggio d’amore” (e dunque la sua provvisorietà e la sua precarietà, altro tema caro a Rilke su cui molto si potrebbe dire), nonostante conosciamo “il piccolo cimitero con i compianti nomi” di chi è già svanito, “e il segreto sgomento dell’abisso dove altri / incontrano la fine” – insomma – nonostante siamo perfettamente consapevoli che ogni cosa o persona a noi cara svanirà, è svanita, o sta svanendo, “sempre di nuovo in due / vaghiamo sotto gli alberi antichi, di nuovo / tra fiori ci stendiamo, di fronte al cielo”.
È una resa incondizionata, un’incorporazione serena del mondo e delle sue contraddizioni, che annienta qualsiasi dolorosa tensione verso i desideri del sé, siano essi proiettati all’esterno, all’interno, o contro lo svanire di relazioni, cose e persone; attraverso una parola che davvero realizza un rinnovato e universale senso del sacro “l’io giunge a essere nessuno, giunge a sentirsi-sentire come nessuno e come nessuno a esperire le cose in perfetta equità, ossia senza dominio e senza fusione” per “giungere a un sentire senza protervia, che non vive della propria esaltazione, ma che sa morire a questa – e conseguire una potenza senza potere”, come ha riassunto perfettamente la prof.ssa Pina De Luca.
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Morte del poeta
Giaceva. Il volto era adagiato
pallido e riluttante su ripidi guanciali,
ormai strappato ai suoi sensi
quanto del mondo è noto
nel tempo indifferente era caduto.
Chi vivere lo vide non sapeva
come con tutto questo fosse una cosa sola,
con queste profondità, con questi prati,
come le acque fossero il suo viso.
Oh, il suo viso era la vastità del tutto
che ancora lo vuole e lo reclama;
e la sua faccia, che ora muore dolente,
è tenera e aperta come polpa
d’un frutto che nell’aria si corrompe.
Il cigno
La pena di questo passo greve
attraverso l’incompiuto, quasi in catene,
somiglia all’impacciato incedere del cigno.
E la morte, dove dilegua il fondamento
del nostro stare quotidiano,
sembra la sua discesa ansiosa
nell’acqua che mite lo accoglie
e quasi felice e già trascorsa
a lui onda su onda si sottrae;
mentre sicuro, con infinita calma,
padrone di sé e sempre più regale
in dignitoso distacco avanza.
[Sempre, benché conosciamo il paesaggio d’amore]
Sempre, benché conosciamo il paesaggio d’amore
e il piccolo cimitero con i compianti nomi
e il segreto sgomento dell’abisso dove altri
incontrano la fine: sempre di nuovo in due
vaghiamo sotto gli alberi antichi, di nuovo
tra fiori ci stendiamo, di fronte al cielo.
(Rainer Maria Rilke, “L’Angelo e altre poesie”, Via del Vento Edizioni, 2003, traduzione di Roberto Carifi)