Il contravveleno al niente: Gian Mario Villalta tra poesia e presente

Gian Mario Villalta

di MATTEO BIANCHI

La poesia non si accontenta di una lettura e tanto meno di una lettura distratta. Di più, ci riporta a un brusio buono, biologico, alle parole sostanziali dei sentimenti. A confermarlo ancora una volta è il percorso in versi di Gian Mario Villalta, specie nelle sue ultime pubblicazioni. Una su tutte – anomala e folgorante – Il scappamorte (Amos, collana A27, 2019), nella quale il poeta non rinuncia a far proprio il bene altrui, a renderlo condivisibile attraverso il processo estetico: «Confessi a te stesso che della felicità / sai la voglia: fa feste / all’aria intorno a te e ignora / il boccone offerto, come il cane addestrato / alla guardia del cuore / quando sfugge al guinzaglio».

Nel corso di una mirabile divagazione, Barthes affermò che «la letteratura non permette di camminare, ma permette di respirare», in quanto esperienza panica e totalizzante, che permea l’individuo e non lo accompagna soltanto durante una trasformazione interiore. Villalta, dal canto suo, esorta il lettore a un’ecologia del pensiero e di conseguenza della parola, che rifletta onestamente una doverosa ecologia sociale, sostenuta dal disarmo linguistico, e che smussi l’uso di una verbosità sempre più aggressiva e opprimente, volta a intimidire e a conquistare il fruitore dei consueti flussi di comunicazione. D’altronde, sin dalla radice οἶκος, l’ecologia si fonda su un’analisi oggettiva delle interazioni tra le singolarità e il contesto di appartenenza, ossia un’analisi che si focalizza sulle relazioni interne a una qualsivoglia realtà organica.

M. B. «Da sottomessi agli dèi a dei sottomessi / il passo è breve quanto la distanza / tra l’escandescenza e la danza». I suoi versi contenuti nell’antologia “Dal sottovuoto. Poesie assetate d’aria” (Samuele, 2020) fissano la nostra imperdonabile mancanza di consapevolezza e, di conseguenza, la nostra incapacità di prenderci cura del mondo che ci ospita. La pandemia lo ha solo messo a nudo?

G. M. V. Il riferimento non esplicito di questi versi è al saggio Homo deus, di Yuval Harari, dove troviamo una tesi portante così riassumibile: all’alba dell’umanità abbiamo inventato gli dèi per colmare l’abisso tra l’esperienza caotica del mondo e il suo possibile ordine fino a raggiungere ora, a forza di balzi in avanti di carattere cognitivo, la posizione di specie dominante e di ordinatori della terra, ovvero diventare quegli dèi che da umanità primitiva avevamo sognato. Non si creda che Yuval veda un traguardo trionfalistico, anzi, vuole mettere in evidenza la necessità di abbandonare vecchie questioni e di affrontare le nuove sfide che questa condizione comporta.

M. B. La pandemia ha creato un’interruzione nella logica di questa tesi e, in un certo senso, ci ha riportato alla Ginestra di Leopardi che lei cita amaramente.

G. M. V. Non c’è scienza o tecnologia che ci preservi dall’essere esposti alla nostra appartenenza terrestre, biologicamente radicata nell’entusiasmo della vita (nel mio verso: la danza) e che allo stesso tempo, però, si regge su un’impalcatura razionale che può subire un’improvvisa catastrofe e venire sopraffatta, far scoppiare l’emotività (nello stesso verso: l’escandescenza). Allora la cura, come suggerisce lei, è quello che abbiamo dimenticato, cura della terra e cura della mente. Non solo per mantenerci “sani”, noi e la terra, ma perché la cura cura, mi si perdoni il gioco di parole: prendersi cura è curare la fragilità che è dell’umanità e della terra.

M. B. Nella raccolta “Telepatia” (LietoColle-Pordenonelegge, collana Gialla-Oro, 2016) traspone la resistenza delle relazioni umane sottoposte allo scorrere del tempo. Oltre la familiarità di una lingua condivisa, cos’ha salvato del rapporto con l’amico e maestro Zanzotto?

G. M. V. Andrea Zanzotto mi ha insegnato che la lingua, il fatto che siamo animali parlanti (tutti i viventi comunicano, solo l’uomo parla), sancisce la nostra appartenenza alla terra e allo stesso tempo crea un logos, una coscienza e un sapere che ci pongono a distanza e in conflitto con la terra. In questa distanza e in questo conflitto, nella lingua, opera la poesia.

M. B. Perché nel recente “Il scappamorte” affronta l’esistenza attraverso l’alterità? Cosa significa il controcanto a cui sottopone il lettore?

G. M. V.  Il sonno è stato paragonato nei secoli alla morte, a una “piccola morte”. Non è così, il sonno comporta un’attività “altra” della mente e del corpo, non riducibile nei confini dell’“inconscio” freudiano. È davvero un’altra vita del corpo e un altro suo mondo, nel quale il sogno è qualcosa che affiora su un confine. Una dimensione, quella del sogno, che l’egemonia dell’interpretazione freudiana ha circoscritto e, così nella cultura, banalizzato. Quel controcanto, come giustamente lei lo definisce, che si innesta come seconda voce nella mia opuscula, non ha l’ambizione (sarebbe errato) di portare al mondo della veglia il territorio del sonno, ma di chiamare verso quel confine. Anche in questo caso, a posteriori, la condizione della pandemia, con l’interruzione della quotidianità che ha determinato, ha “svegliato” alcuni di noi (l’antologia Dal sottovuoto ne dà testimonianza) dal sonno a occhi aperti che avevamo preso per totale realtà. E lo schermo, il vetro attraverso il quale credevamo di dominare il reale, ha perso la sua trasparenza. Sono qui riflessi sul vetro, quelle ombre, che ci fanno pensare alla possibilità di un’altra vita, più vera.

M. B. «Anche tu / rinunci per il poco al niente, / impari a guardare i sassi / che decorano gli atri, la terra nelle fioriere, / gli alberi arresi ai terrazzi». Il frangente della quarantena, l’obbligo di rallentare il passo in mezzo a un presente frenetico, ha influito sulla sua scrittura?

G. M. V.  C’è nella lingua una lingua più vera. C’è nella vita una vita più vera. Lo sappiamo da sempre. È quello che siamo, un corpo che produce la mente e nella mente non risolve la sua appartenenza biologica alla vita terrestre. Se e quando ignoriamo questo appello, la lingua e la vita dimenticano di chiamarci a essere, che vuol dire creare, smentire l’esistente in nome dell’esistenza. Quella specie di “arresti domiciliari” che abbiamo provato, e che si ripresentano oggi come un fantasma, per me hanno significato addentrarmi ancora di più sul sentiero che lo scrivere poesia mi aveva già mostrato. La domesticazione della terra rischia di fare della nostra stessa esistenza una prigione. Allora, come si diceva, occorre combattere la domesticazione con la cura, cercare anche nei residui, nel poco di appartenenza terrestre, il contravveleno al niente. Quel niente che è la nostra illusione di dominio e di trasparenza, dove la lingua crede di essere sempre interamente se stessa e la vita immagina se stessa così com’è.

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