LEZIONI DI MELODIA SERALE
Ri-
corderemo
con enfasi, credo,
il silenzio di queste
serate di primavera, nelle
quali l’unico tormento è il gonfiare
l’aria dei grilli, operazione mandarinale
sempre uguale a sé stessa. Ascoltandola,
le finestre aperte nel buio, si ha la sensazione
che nasca in un punto preciso, accanto al cuore.
Sulle schiene s’agitano ipotesi di ali, ed è come
quando si è bambini e ci si tuffa per la prima
volta da un pontile. Quel mancamento
ci mancherà non appena i piedi
avranno rotto le acque. È lì
dentro che vorremo tornare
e ritornare, al respiro che manca,
alla gioia prima che nasca. Al timido
silenzio di un pianeta privo di auto
e di chiacchiere, antico come
un mondo mai conosciuto,
eppure già fervido, già
vivo, già nostro
LA STANZA DELLE FOGLIE SOSPESE
La
tua sussistenza
non abita più qui, i tuoi
ricordi non abitano più qui. È la
natura che ammiri un grembo inadatto
al sentimento degli esploratori. Sei una persona
nuova, se lo vuoi sei una persona nuova, se lo vuoi sei.
Ma non è perché cammini nel bosco, non è perché preghi,
non è perché cerchi di proteggere le creature sconfitte.
Semmai è a causa del Sovrano della Dimenticanza.
Sei una persona nuova se sai dimenticare,
sei una persona nuova se fai come
il ruscello che resta nello stesso
punto fluttuando ad
ogni singolo
respiro
DAL CUORE CAVO DELLE FORESTE
E
la vedo,
quella luce che
palpita nei tuoi occhi:
non è niente ed è la vita, ogni
cosa forse o nessuna. Ricordi quando
bambini ci parlavano della via più breve
per unire due punti sulla mappa? Da grande
ho capito che transita per la luna che ingrassa e
poi scompare, un uomo, d’altronde, non sarà mai
così prossimo alla verità del mondo come quando
non ha più nulla da perdere. Ora la senti la musica
che cresce nel cuore remoto e cavo delle foreste?
È per te, è per me, è per noi tutti, ancora nasce,
ancora viaggia, ancora non si arrende, si
trasforma costantemente. La natura è
sovrana poiché non è nella natura
della natura estinguersi senza
tentare, a canto spiegato,
l’ennesima fondazione
del
mondo
O
Azzardi alimentari
IL LABIRINTO DELLA GIOIA ORDINARIA
Ho scambiato uno spicchio di mela
con uno spicchio d’arancia, sul
tovagliolo riposano entrambi,
anfore di un desiderio
inespresso. Non
sarei riuscito
a stabilire
quale dei
due le tue
mani avessero
sgambato e risalito l’aria,
fino a spremersi fra le labbra.
Cosa ci vuoi fare? mi hai chiesto.
Ho quarant’anni, non ho più tempo
da perdere. E non l’abbiamo
perso, il tempo. Siamo
diventati il corpo
del reato, un
delitto
senza
reato, uno
fra i tanti che ogni
giorno vengono commessi
e dimenticati. Ma si sa: il sesso,
il cibo, le due cose insieme,
una combinazione
ordinaria e
banale
*
Finale maestoso e tragico
IL ROGO
Voi
n o n
volete saperlo.
Ad un certo punto
è successo qualcosa, là
fuori. Una foresta di radici
secche e contorte ha iniziato ad
armarsi nei cuori, a stringere, a contaminare.
Le città sono cambiate: le
case scurite, la gente incattivita, gli
occhi si sono velati e le cose hanno
iniziato a scricchiolare. Se posi
l’orecchio e ascolti, forse potresti
sentirlo, l’urlo di
quando si era
umani
RADICO ERGO SUM
Prima prosa
Ogni atto in letteratura è un azzardo. Per fortuna col tempo l’ambizione scema e il cuore di tanta passione viene sostituito da dosi minime di sapienza. Un ascolto autentico della natura può insegnarci molte cose: una di queste è imparare a fare saggia parsimonia e cautela di noi stessi. Il come dipende dal nostro carattere, dalle nostre forze, dal nostro modo di vedere le cose e intrecciare rapporti. La natura d’altronde non esiste, è una parola che abbiamo inventato noi, la natura nasce nello sguardo. Nasce nel primo apprendistato della distinzione. La natura nasce là dove un pensiero si squaderna per attribuire nome a quel che è vivo e a quel che non è vivo. Il pianeta su cui viviamo a miliardi non ha bisogno di un titolo, di una definizione, di una lingua. Crea, o meglio alleva lingue, dialetti, sinfonie, dimostrazioni matematiche. Ma abita lo spazio senza averne bisogno: la natura non ha alcuna consapevolezza della propria natura. Essa avanza, sperimenta, devasta, si crea e si annienta. E noi siamo lì, nel buio, coi nostri minuscoli occhi d’animale.
Nell’arco di un decennio ho composto migliaia di pagine dedicate a quel sentimento che vado chiamando ‘dendro-sofia’, da dendron (albero) e sophia (conoscenza, esperienza, saggezza). Ho provato a stimare, sommando le pagine dei libri maggiori e le pagine dei libri più agili, le interviste, i tanti articoli sui quotidiani, i mensili, i settimanali, le poesie dunque, e i contributi filosofici, estemporanei, tematici, le riviste… all’ennesimo numero alto mi sono arreso: una vera foresta di parole, di intenzioni e descrizioni, e nondimeno di versi, incanti, tragedie, disastri e resistenze. Tutto questo scrivere e minutamente tirare e cucire fili d’inchiostro ha come unico scopo ‘esistere’. Io sento dunque sono. Io vedo dunque sono. Io scrivo dunque sono. Radico ergo sum. Attraversare le selve e scriverne è diventato il mio modo di abitare il tempo, di transitare da una stagione all’altra, vestendomi o spogliandomi, annichilendomi o infiorandomi, un’anima floribunda, un Homo radix, un fauno che cavalca in un continente compreso fra la carta e la corteccia.
Quando arriviamo dinnanzi a uno dei cento volti che un piccolo bosco cittadino può mostrarci, cogliamo il tracciato di un confine, un confine che abita dentro di noi, prima ancora che fuori da noi. Penetrando un bosco c’è qualcosa che scatta nella nostra testa, un clic, chiaro, profondo, una voce cavernosa che riprende a mormorare cose che si erano interrotte tempo addietro. Ogni tanto proviamo ad ascoltarla, questa sorgente carsica che ci scorre dentro, questo respiro che ci unisce alle distanze, alle isole che galleggiano sulle bocche estinte di antichi vulcani, che ci affratella all’istinto che guida le migrazioni transcontinentali delle rondini, alle colonie di farfalle monarca che attraversano gli Stati Uniti, alle balene franche australi che vanno a nutrirsi nei mari pescosi di fronte alla Patagonia. Noi siamo macchine della ragione e dell’astrazione, calcolatori viventi, animali desideranti e cosmonautici; il nostro cervello ci ha consentito di progredire tecnologicamente come nessun’altra specie eppure, al fondo, siamo identici ai primi uomini che si sono risvegliati nel cuore di una foresta, con la paura di essere divorati dall’orso, attaccati dal lupo, morsi dal serpente o annientati dal fuoco e dal fulmine. Ci nascondiamo al riparo della roccia, quando il cielo è in tumulto, abbiamo costruito città monumentali dentro le quali estinguere la paura, eppure le paure, poiché abitano in noi, hanno preso forma anche nelle nostre aree di sicurezza. Ma come mai l’uomo del tempo che si conta in ogni istante torna alle foreste? Alla natura? Magari attraversando in cammino le riserve del Casentino, i pianori e le faggete del Pollino, le abetine delle Alpi? In parte per dimenticare le città, per dimenticare le vite che oggi conduciamo come forzati del desiderio, per ritrovare la pace di quell’uomo che si alzava con la luce del sole e imparava da ogni azione. E dove, se non in un bosco, l’esperienza può assumere toni severi e autentici?
Noi pregavamo nelle foreste; quando abbiamo iniziato a edificare luoghi di culto l’abbiamo fatto grazie agli alberi e poi ancora ricostruendo i luoghi da cui siamo partiti. La cupola lignea che abbiamo visto ardere, pochi mesi fa, nel cuore di Parigi, quando la cattedrale di Notre-Dame è stata aggredita e vinta dal fuoco, veniva chiamata, non a caso, la forêt. Nei boschi che restano stiamo tornando a ricercare noi stessi, preghiamo una divinità tutta nostra, proviamo a ritrovare la bussola quando l’esistenza ci ha travolti e sballottati con furore, o ci alleniamo a una centralità, a una maggiore pace, a un equilibrio psicofisico che ci possa consentire di vivere senza troppi scossoni. Curiosamente l’Amazzonia brucia nell’anno in cui l’emersione di una nuova generazione di giovani ambientalisti si è manifestata come non mai, su scala planetaria; forse si tratta di una coincidenza, forse di un segno, o forse di due conseguenze imposte da duecentocinquant’anni di industrializzazione. Di certo è difficile non sentire i tamburi in lontananza: essi battono, battono, battono, sono lì per noi, ci dicono suvvia, umani, non fatevi fregare, non lasciate che tutto prosegua come è sempre proseguito, fate qualcosa, fate qualcosa per voi e per il pianeta, fate, fate, fate!
Si chiede spesso agli ‘esperti’ di alberi che cosa l’uomo possa davvero imparare da loro: le risposte alternano invenzioni e aspirazioni, utopie e realismi. Talora si dice che dovremmo imparare a collaborare perché i boschi sarebbero cooperative dove tutti gli alberi detengono lo stesso valore e la stessa importanza: avere poco di meno ma tutti.
Mi chiedo in quale bosco ordinato e distinto, aristocratico e liberal-radicale, abbiano mai messo piede questi grandi maestri dell’osservazione. L’albero, come ogni forma di esistenza, non conosce rispetto, al contrario conosce sfruttamento e dipendenza, assuefazione e predominio, conquista di spazi, di risorse, di liquidi; gli alberi hanno un unico Dio e si chiama luce. La fisica è la fede che governa la biologia di un albero. Assumere e riprodurre, allungare e assorbire, limitare e, in caso di necessità, mutuo soccorso.
Chi crede che un bosco di faggi corrisponda alla perfetta geometria di una famiglia socialista è un retore, un divulgatore di cose opportune, buone e giuste, o un idiota. Tertium non datur. Gli alberi sono abitati dalla necessità,
rispondono al bisogno della materia in ogni singolo istante della loro esistenza, e addirittura dopo, quando le linfe hanno smesso di circolare e la fotosintesi non ha più modo di riprodursi, anche in questo stato di totale abbandono il corpo di cui è composto un albero continua a fare i conti
con la fisica. Noi umani siamo mondi che si nascondono, abbiamo deciso di disintegrarci (cremazione) e di incapsularci in un sentimentale abbraccio con un futuro che ha senso soltanto per chi resta dopo di noi. Gli alberi, invece,
si fanno edifici per altri esseri viventi, come i funghi, come gli insetti, come i picchi. Vivono anche dopo la vita fino allo sfaldamento complessivo. È così che la terra su cui camminiamo si è concimata in milioni di anni.
Accogliamo quotidianamente dichiarazioni di prossima estinzione della nostra specie. L’uomo è spacciato, l’uomo non ce la farà, anzi, l’uomo non merita di farcela. Ebbene non lo credo affatto. Il cambiamento climatico è soltanto al principio e già ne iniziamo a intravedere i progressivi e devastanti mutamenti. Attualmente credo che ci illudiamo che la volontà di pochi possa essere determinante per molti. L’uomo del presente pone i problemi, li evidenzia, li concettualizza e avvierà un vasto cambiamento di condotta, ma sarà nondimeno l’uomo del futuro, e chissà quale futuro, a capire se tutto ciò sarà sufficiente, se i nostri cambiamenti basteranno a salvarci da un mutamento su larga scala oppure no – come credo – poiché i movimenti del pianeta, una volta innescati, avanzano con o senza di noi.
Nel 1800 l’umanità toccava quota un miliardo, nel 1927 due miliardi, oggi, cento anni dopo, veleggiamo verso gli otto; l’impronta di così tante persone che ambiscono, che necessitano, che cercano dignità e benessere, non può essere semplicemente moderata da una perfetta raccolta differenziata e dalla dismissione della plastica. Ci vorrà ben altro, e su scala globale. Credo comunque che il pianeta, questa immensa ingegneria rotante dotata di un’intelligenza invisibile eppure manifesta, che ha generato infinite forme del vivente, saprà fare fronte anche all’evenienza di un pericolo di distruzione, e se sarà il caso ci rimuoverà, come un ostacolo che va travolto. Possiamo ancora evitarlo, ma di certo il pianeta, nei suoi misteriosi meccanismi di azione e reazione, non starà a guardare senza intervenire. Non posso ovviamente provarlo ma ne sono convinto. Le foreste, a mio modo di sentire, ne sono testimonianza: si ritirano, quasi scompaiono ma poi rinascono.
Il mio ritornare quotidianamente al silenzio dei boschi e degli alberi è stimolato da una vocazione al silenzio assoluto. Un rinunciare, forse, al fondo, a compartecipare a questo vasto teatro spalancato che è la vita degli umani sul pianeta Terra, destino al quale sento di appartenere soltanto a tratti. In effetti mi pare che nelle ultime stagioni la poesia abbia smesso di raccontare, semmai si scrive poesia che pensa, il poeta è chino nella propria ombra a interrogarsi sulla propria condizione d’animale esistente ed esistenziale. Ovviamente ammiro il destino solitario ed eremitico di
quei signori che duemila anni fa, o mille, o cento, hanno rinnegato sé stessi trovando la pace e la dannazione, al contempo, fra le montagne dell’India, della Cina o del Giappone. Quanto vorrei avere il coraggio di dire basta, di mettere la parola fine a tutto, di fare l’uomo che s’inforesta e assume la regola del silenzio, provando a diventare davvero uno dei tanti alberi – uno fra milioni, uno fra molti, uno di uno – e alla fine abbracciare l’imperturbabilità dei nostri confratelli radicanti. E magari provare, anche soltanto per una notte, quel che il monaco eremita zen Daigu Ryōkan scrive in una poesia:
Di notte, nel silenzio della capanna,
suono l’arpa che non ha corde.
La sua melodia sale al cielo col vento:
la sua musica si unisce a quella del torrente;
risuona nell’intera vallata,
mormora nelle foreste e nelle montagne.
Se uno non chiude gli orecchi,
non può udire questa musica silenziosa.
Da: Tiziano Fratus “Sogni di un disegnatore di fiori di ciliegio” (Aboca, 2020)
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Tiziano Fratus è nato a Bergamo nel 1975 ed è cresciuto tra Lombardia e Piemonte. Ha pubblicato numerose opere per i maggiori editori italiani, fra le quali Manuale del perfetto cercatore d’alberi (Feltrinelli, 2013), Ogni albero è un poeta (Mondadori, 2015), L’Italia è un bosco (Laterza, 2014), Il libro delle foreste scolpite (Laterza, 2015), Il bosco è un mondo (Einaudi, 2018), I giganti silenziosi (Bompiani, 2017) e Giona delle sequoie (Bompiani, 2019). Per sei anni ha curato la rubrica “Il cercatore di alberi” per “La Stampa”. Collabora con “il Manifesto” e Radio Francigena. Conduce una pratica quotidiana di meditazione zen in natura. Sito: Studiohomoradix.com