Tiziana Sola, “L’umanità al crepuscolo”

Tiziana Sola

DOPO IL CORONAVIRUS:
RIFLESSIONI PSICOANALITICHE TRA MICROCOSMI UMANI E MACROCOSMO AMBIENTALE

DI TIZIANA SOLA

Quello che c’è di fuori, lo sappiamo soltanto
dal viso animale; perché noi, un tenero
bambino già lo si 
volge, lo si costringe a
riguardare indietro e vedere
figurazioni soltanto e non l’aperto ch’è sì
profondo nel volto delle bestie. Libero
da morte…

Rainer Maria Rilke, Elegie duinesi, Ottava Elegia

 

È il crepuscolo di una Pasquetta insolita. Insolita perché la libertà di restare a casa è condizionata dall’intimazione a non muoversi. Intimazione legittimata dalle esigenze di una pandemia che in poche settimane ha rivoluzionato la nostra vita. La sua imprevedibilità ha scardinato i nostri ritmi, la sua forza contaminante limitato i nostri movimenti. Il SARS-CoV-2 è piombato come un’onda anomala sull’ordine delle nostre esistenze, inducendoci a rinchiuderci, a sconvolgere consuetudini fino ad un mese fa acquisite come certezze inconfutabili. Il suo impatto traumatico ha risvegliato in noi paure primitive e diffidenze verso gli altri, abolito ogni visione o proiezione futura, obbligandoci ad un lavoro mentale per ricercare un altro ordine, un altro senso delle cose”.

Scrivevo così più di un mese fa, nella quiete del mio studio, in pieno periodo di confinamento, sullo sfondo di una splendida primavera, che grata del silenzio umano, pareva libera di esibire i suoi fruscii e cinguettii. In quella sorta di vuoto e di allentamento temporale in cui tutti eravamo immersi, cercavo nella scrittura un modo per pensare e metabolizzare il magma di emozioni che invadeva i miei pensieri, un misto di spaesamento e di interrogativa curiosità, di leggera euforia, quasi a “non voler perdere, come dice Paolo Giordano nel suo Nel contagio (2020) ciò che l’epidemia ci sta svelando di noi stessi”.

Il SARS-CoV-2 ha sovvertito l’ordine delle nostre vite e minacciato le evidenze della scienza. Ora siamo al dopo, mentre il mondo si rimette in moto. La riacquistata libertà, per tanti il segno del ritorno ad un’agognata normalità, comporta il rischio che il grave carico luttuoso che la pandemia ha generato, si perda in una sorta di “fuga nella guarigione”, privandoci della possibilità di intraprendere un nuovo necessario percorso.

La crisi pandemica si innesta invero in una contemporaneità già attraversata da mutamenti radicali che impattano, in senso antropologico e psicopatologico, sulla visione identitaria dell’uomo e dei suoi rapporti con il proprio ambiente. Da vari anni la riflessione psicoanalitica si è concentrata su tali cambiamenti, generati dalle “storture” di un mondo globalizzato e tecnologizzato, tanto da accelerare le trasformazioni della nostra condizione umana e generare quelli che in tanti definiscono i “nuovi disagi della civiltà”, con riferimento alla celeberrima opera eponima di Freud del 1929. Nel tentativo di sondare il senso delle nuove declinazioni della sofferenza mentale, fondate prevalentemente sullo sfaldamento della struttura identitaria-narcisistica con conseguenti modificazioni della funzione dell’Io e dei suoi rapporti con l’intrapsichico e l’inter-psichico, la psicoanalisi si è impegnata non solo a riesaminare alcuni paradigmi fondamentali, come l’inconscio, il conflitto edipico, il Super-Io, “sbiaditi” se non vanificati nella loro funzione strutturante, dalla esasperazione della modernità (Recalcati 2010 ; Borrelli e Al. 2013), ma anche ad interrogarsi se tali mutamenti realizzino la rottura di forme anteriori di socializzazione. Rottura che si ripercuote in un nuovo stato di legame sociale contrassegnato dal rischio, supposto, della caduta in una nuova barbarie e di una società contrassegnata dal male assoluto (Richard 2011; Bourdin 2013). Sono interrogativi che rimettono in questione i rapporti tra il fondo primitivo della psiche, ovvero la costituzione biologica della specie umana, e le capacità sublimatrici e civilizzatrici dell’uomo. Continua a leggere

Umberto Piersanti, “Una strana primavera”

Umberto Piersanti credits ph. Dino Ignani

UNA STRANA PRIMAVERA
DI UMBERTO PIERSANTI

tra febbraio e marzo il bruno accende
col suo bianco squillante
i greppi e i fossi,
dalle lunghe Cesane
al Petralata,
e tutt’attorno nascono
i prugnòli,
il solo fungo della primavera,
lo si mette in padella
con l’aglio e l’olio
e la terra non da
erba più buona

attorno al pruno
le streghe fanno i cerchi,
cerchi di sortilegi
inqueti e strani

oggi i cerchi s’alllargano
dovunque,
giungono fino al mare
salgono i monti,
dalle fessure dei muri
e delle porte
entrano nelle case
degli umani

primavera crudele che s’inoltra
col suo riso sinistro
di cieli e campi,
di fiori,
d’acque azzurre
e venti lievi

da dietro le finestre
e stretti ai muri,
del sortilegio
s’attende la fine,
guardare un’erba
o un fiore
senza il male nascosto
dentro i colori Continua a leggere

Carmelo Princiotta, “Dalla poesia mi aspetto una nuova musica relazionale”

Carmelo Princiotta, credits ph Dino Ignani

BISOGNA DI NUOVO IMPARARE A SCRIVERE?
DI CARMELO PRINCIOTTA

Non so come sarà la poesia dopo il Covid. Non so nemmeno come sarà la nostra vita. Che cosa davvero significherà questo dopo, se ci sarà un dopo inteso come discontinuità oppure no. So che la poesia è costellata di molti dopo, sia storici che letterari: dopo la guerra, dopo Auschwitz, dopo Montale, dopo i Novissimi, dopo il ’68. E che ogni poeta ha declinato il suo dopo nei modi più vari, vivendolo volta per volta come nostalgia, ebbrezza o esaurimento. La percezione di un dopo ha spesso autorizzato il ricorso a categorie come quelle di postumità e postremità, che in futuro verranno forse trattate così come noi oggi trattiamo per lo più le decadenze e i decadentismi, perché sappiamo quante cose terribili e straordinarie sarebbero venute dopo. Più di recente, all’insistenza sul dopo, spesso avvertito come cappa, ipoteca, impossibilità, si è sostituita, negli studi letterari, l’attenzione all’oltre, non necessariamente secondo la logica del superamento, ma certo in quella dell’oltrepassamento, o, se vogliamo, di un ricominciamento che abbia coscienza non della fine, ma di una fine, forse intermittente.

«Bisogna di nuovo imparare a vivere» recita un verso di Anna Achmatova che Biancamaria Frabotta ha inserito ne La materia prima, il libro inedito con cui si chiudeva nel 2018 il suo Tutte le poesie 1971-2017: La materia prima un’interrogazione acuminata e trepidante della senescenza, biologica, storica, cosmica, e insieme una ricognizione del fondamento ultimo del nostro stare al mondo, che oggi possiamo leggere come un libro profetico, per la sua insistenza sulle «cure primarie» (questo il titolo della prima sezione). La risorgenza e la penultimità si intrecciano in un continuo contrappunto, come Espero e Lucifero, il «pietoso pianeta» che segna sia la fine che l’inizio delle nostre giornate, con l’ambiguità che è tipica di Venere. Il contrappunto è la vitalità di una poesia cosciente della nostra ineluttabile (più che della propria eventuale) mortalità. Perché a Frabotta gli esseri umani interessano più delle poesie. E le poesie interessano per la loro relazione con l’umano. Questo è il punto del dopo-Covid. Continua a leggere

Kathleen Jamie, “Accettare l’albero”

Kathleen Jamie

ALBERO SULLA COLLINA
KATHLEEN  JAMIE

C’era una volta una collina su cui cresceva un albero. Nel corso del tempo il vento l’aveva talmente assottigliato che, come un apostolo in un dipinto, sembrava allargare le braccia in un ampio gesto verso una gloria più grande, in questo caso il paesaggio sottostante.

A questo albero ti potevi appoggiare e osservare il fiume che diventava un fiordo, che si allargava per miglia e miglia mentre si preparava a incontrare il mare. Potevi osservarlo mentre si portava via non solo la pioggia invernale – addio! addio! ma tutto ciò che era necessario perdere.

E di quello ce n’era in abbondanza, ma sembrava che l’albero insistesse su qualcosa ancora più in là: oltre il ‘Braes of the Carse’ e le turbine eoliche, perfino oltre le montagne – un raggio di – cosa?

Beh, questo può funzionare in un modo o nell’altro. Potremmo restare quaggiù e sostenere che non è esistito né l’albero né, sicuramente, la distante consolazione. O forse accettare l’albero, un larice, essendo i larici tra gli oggetti di questa Terra. Ma la premonizione – no.

Concesso l’albero, tuttavia, chi può dirlo? Per quel che ne sappiamo potrebbe essere ancora là, un albero solo sulla collina. E se non un albero, allora una celidonia, che si ridesta al giallo. O una pietra che sprofonda. O il canto di un’allodola. O una lepre con i suoi occhi di mondo, in ascolto.

24/03/20

Traduzione di Giorgia Sensi

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Franco Rella, “L’assenza della storia”

Franco Rella

INCIPIT

Un uomo si trova solo in una stanza e cerca di costruire una storia che possa intramare ciò che vive il dentro di lui e ciò che sta accadendo fuori, la sua vicenda e vicende collettive. La storia non riesce. L’uomo non riesce a costruire un racconto che tenga insieme le sue contraddizioni e le contraddizioni che solcano il mondo. E’ dunque sospeso in una sorta di lacerante esitazione, braccato da una serie di domande che si ripetono e si insinuano in lui inquietanti. Alla fine, da questo suo esilio, decide di mandare comunque al mondo, a qualcuno, a nessuno le poche parole che ha.

SCRIVERE

DI FRANCO RELLA

Si dice che nulla sarà più come prima. Ogni evento in gualche modo fa deviare il corso del mondo, persino la piccola increspatura sollevata dal volo di una libellula sul pelo dell’acqua di uno stagno. Il mondo è stato piagato da Auschwitz, dalla bomba atomica, dalle guerre postcoloniali, dalle grandi migrazioni di massa, dal sessantotto, dall’11 settembre, e poi dall’irrompere delle minoranze sulla scena delle metropoli contemporanee, neri, femminismo, gay, transgender. Ora è la pandemia, è il massacro dei vecchi nelle case di riposo, è la balbettante incompetenza della politica, che fa dire che nulla sarà come prima. Che porta un intellettuale, che non solo non ha previsto il virus, ma che si è sentito impreparato ad affrontarlo, a dichiararsi disarmato. Ma Auschwitz è stato, malgrado tutto, ben più dell’attuale pandemia virale. Auschwitz è stato mettere l’insieme del sapere, a partire dall’illuminismo fino al dispiegamento della scienza e della tecnica, al servizio dell’attuazione di fabbriche di morte. Auschwitz ha corroso le coscienze, ha intaccato le anime, ha bacato le menti. Adorno ha detto una frase, che è stata ampiamente equivocata, e che rimane pur tuttavia ancora comunque discutibile. Ha detto che dopo Auschwitz non è più possibile poesia. Ma dopo Auschwitz c’è stata l’immensa poesia di Paul Celan, il tardo Montale, Wystan Hugh Auden, La montagna magica di Thomas Mann, Beckett, Philip Roth e Don DeLillo, e Yoram Kaniuk, e Yehoshua Kenaz. C’è stato Francis Bacon, Lucio Fontana, Mark Rothko. Dopo Auschwitz c’è stata anche La dialettica negativa di Adorno.

Ma dove ti collochi tu con la tua scrittura? Qui dove sei ora, nella stanza con la finestra, non hai i tuoi libri, nemmeno quel centinaio di libri che – lo hai detto da qualche parte – costituiscono il tuo bagaglio essenziale. È vero che come ha scritto Joyce non si sa mai di chi si masticano i pensieri. Hai preso per caso in mano un libro di Marguerite Duras, che certamente non fa parte del tuo bagaglio essenziale, e hai letto alcune parole che ancora prima di averle completamente lette ti eri già ripetuto più volte in questo periodo, e che caratterizzano, almeno così credi, tutto quello che stai cumulando, riga dopo riga, in queste pagine. Hai parlato della necessità di una storia, e della tua esitazione a definirla. Leggi che Duras afferma che “scrivere non è raccontare storie”. Scrivere è raccontare “una storia e l’assenza di questa storia”. È quello che hai fatto finora. Questa storia e la storia assente di Wallas, di Dora. Anche la tua storia assente, dal momento che non sei riuscito a farti trasportare dai tuoi personaggi. Sai che andrai avanti fino ad un certo punto, quando deciderai che l’assenza della storia si sia finalmente compiuta, realizzandosi come assenza oppure costruendo la sua lacuna compiuta nel corpo del testo.

È per questo che vinci la tentazione di ripercorrere ciò che hai scritto, di mettere a posto le parti dissonanti, gli elementi che ciò che è venuto dopo ha reso incongrui o contraddittori. Qualsiasi correzione cercherebbe inevitabilmente di smussare gli spigoli e gli angoli del disegno che traccia via via il profilo di quella lacuna che è lo spazio della storia che non c’è, della storia assente, che è cresciuta fino a sovrapporsi e prendere il posto di qualsiasi storia possibile. Continua a leggere

Paul Celan, “Svolta del respiro”

Paul Celan

PAUL CELAN
ATEMWENDE

FA’ PURE, se a un pasto di neve
tu vuoi invitarmi:
ogni volta che spalla a spalla
col gelso percorsi l’estate,
il suo fogliame più fresco
vociava.

DU DARFST mich getrost
mit Schnee bewirten:
sooft ich Schulter an Schulter
mit dem Maulbeerbaum schritt durch den Sommer,
schrie sein jüngstes
Blatt.

*

(TI CONOSCO, sei colei che sta ricurva,
io, il trafitto, ti sono soggetto.
Dove divampa un verbo, che sia d’entrambi
testimonianza? Tu – interamente,
interamente vera. Io – pura follia.)

(ICH KENNE DICH, du bist die tief Gebeugte,
ich, der Durchbohrte, bin dir untertan.
Wo flammt ein Wort, das für uns beide zeugte?
Du – ganz, ganz wirklich. Ich – ganz Wahn.)

*

PRESSO I CALPESTATI
segni, nella
tenda dell’olio, con pelle di parole.
Al termine del Tempo,
lamentandosi
senza un suono
– Tu, aria regale, inchiodata
alla Croce della Peste, ora
tu fiorirai -,
con occhi porosi.
con squame di dolore, a
cavallo.

BEI DEN ZUSAMMENGETRETENEN
Zeichen, im
worthäutigen Ölzelt, am Ausgang
der Zeit,
hellgestöhnt
ohne Laut
– du, Königsluft, ans
Pestkreuz genalgelte,
blühst du -,
porenäugig,
schmerzgesschuppt, zu
Pferde.

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Donatella Di Cesare, “La catastrofe del respiro”

Donatella Di Cesare

INDENNI?
DI DONATELLA DI CESARE

Forse ne verremo fuori con una patente di immunità che attesti i nostri anticorpi. Passeremo, quasi per abitudine, fra sofisticati termoscanner e fitti circuiti di videosorveglianza, in luoghi e non-luoghi sanificati, mantenendo la distanza di sicurezza, guardandoci intorno cauti e diffidenti. Le mascherine non ci aiuteranno a distinguere gli amici, e a venirne riconosciuti. A lungo continueremo a scorgere ovunque asintomatici che, ignari, annidano in sé la minaccia intangibile del contagio. Forse il virus si sarà già ritratto dall’aria, scomparso, dissolto; ma ne resterà a lungo il fantasma. E noi avremo ancora l’affanno, il fiato corto.

Potremo raccontare quell’evento epocale che abbiamo vissuto. Lo faremo da sopravvissuti – inconsapevoli, magari, dei rischi che ciò nasconde. Non solo per le insidie della rimozione; né solo per quell’impegno che la vita ha di portare con sé la vita che non c’è più, di riscattarla e indennizzarla, nel lavoro infinito del lutto. La sopravvivenza può inebriare, esaltare. Può diventare una sorta di piacere, una soddisfazione insaziabile, ed essere presa persino come un trionfo. Chi è vissuto oltre, chi è sfuggito alla sorte che si è abbattuta sugli altri, si sente privilegiato, favorito. Questa sensazione di forza, come ha osservato Canetti, prevale persino sull’afflizione. Come se si avesse dato buona prova di sé, e si fosse in un certo senso migliori. Bandito il pericolo, si avverte la prodigiosa, eccitante impressione di essere invulnerabili. Proprio questa potenza del sopravvissuto, la sua rinnovata invulnerabilità, potrebbe rivelarsi un boomerang, un danno di ritorno, spingendolo a credere di poter restare indenne anche in futuro.

Saremo dunque sopravvissuti sani e salvi, immuni e immunizzati, forse già vaccinati, sempre più protetti e assicurati, in lotta per indennizzi e indennità. Celebreremo una certa resistenza, lasciando indistinto il confine tra lotta politica e reattività immunitaria. Non potremo ritenerci reduci o scampati da un conflitto perché, anche se il gergo militare ha dominato la narrazione mediatica, sappiamo che non è stata una guerra. Immaginare così quel che è avvenuto sarebbe un errore reiterato, un ostacolo per ogni riflessione. Non è stata una guerra – nessuno ha vinto. Molti sono stati sopraffatti senza poter combattere; molti hanno perso tutto, integrità e proprietà. Proprio quelli che possedevano meno degli altri, i più indifesi, i più esposti.

Essere usciti indenni da quest’inedita e immane catastrofe del respiro non autorizza a credere di essere intatti e inaccessibili al danno. L’indennità non salva. E l’immunità, più che un successo, si capovolge nel contrario. È come quando il rimedio si rivela un veleno. Perciò fallisce il tentativo di evitare a tutti i costi il danno, di calcolare l’incalcolabile, di innalzare iperdifese. L’organismo che, nell’intento di tutelare la propria indennità, manda in giro la truppa dei suoi anticorpi per impedire l’ingresso agli antigeni stranieri, rischia di autodistruggersi. È quel che mostrano le patologie autoimmuni. Bisogna allora proteggersi dalla protezione. E dal fantasma dell’immunizzazione assoluta.

Il respiro è sempre stato il simbolo dell’esistenza, la sua metonimia, il suo sigillo. Esistere è respirare. Nulla di più naturale, nulla di più emblematico. Eppure, già a partire dal secolo scorso, il respiro è stato bersaglio sistematico. Basti pensare all’impiego sempre più esteso e sofisticato di gas e veleni: dal cloro, sul primo fronte bellico, all’acido cianidrico, nello sterminio, dalla contaminazione radioattiva alle armi chimiche. Anche in seguito sembra che la scienza delle nubi tossiche e la teoria degli spazi irrespirabili abbiano fatto progressi. Al punto che si può parlare, come ha suggerito Peter Sloterdijk, di «atmoterrorismo», dato che non si prende di mira la vittima designata, bensì l’atmosfera in cui vive. Non più colpi diretti, né responsabilità palesi. Chi muore cade sotto il proprio stesso impulso a respirare. Di chi sarà la colpa? La manipolazione dell’aria ha messo fine al privilegio ingenuo goduto dagli esseri umani prima della cesura novecentesca, quello di respirare senza preoccuparsi dell’atmosfera circostante.
Non è un caso che la letteratura abbia guardato a ciò con apprensione. È stato Hermann Broch a intuire che il respiro non sarebbe più stato naturale e a diagnosticare che, mentre l’aria avrebbe finito per diventare un campo di battaglia, la comunità umana sarebbe soffocata dai veleni impiegati contro se stessa. L’atmoterrorismo rivolto all’interno mostrava già caratteri suicidi. Nel suo saggio Il meridiano Paul Celan ha celebrato il respiro, ne ha denunciato lo sterminio, ha raccolto e articolato il rantolo delle vittime e promuovendone il riscatto nella poesia, che ha chiamato «svolta del respiro». Continua a leggere

Franco Buffoni, “Le bare bianche senza estreme unzioni”

Franco Buffoni, Credits ph Dino Ignani

MICROTRAGEDIA IN TRE QUADRI
DI FRANCO BUFFONI

Qui come tante Lady Macbeth
A lavarci le mani di continuo

Coro: Non va via… Non va via…

Rimpiangendo cattedrali ripiene
Di fedeli convinti al Te Deum

Coro: Così sia… Così sia…

E a scansarci nei supermercati
Riforniti d’ogni bendidio

Coro: Vada via… Vada via…

Mentre da Roma cercavo sul Corriere
Le notizie sul contagio a Gallarate,
L’occhio mi è caduto sul servizio
Con le foto da Marte. Trentaquattro istantanee
Inviate da Curiosity, il rover della Nasa
Che da otto anni vaga sul pianeta.
Il Sole da Marte in un tramonto blu,
Mount Sharp e il cratere di Gale,
I sedimenti d’un antico fiume
Rocce meteoriti e dune
E poi ad un tratto quel pallino chiaro
The Earth
La Terra vista dal cortile del vicino
Con le fidejussioni i rogiti i contratti
Le zone rosse ed arancioni
Le bare bianche senza estreme unzioni.

(12/05/2020)

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Roberto Esposito, “Il fragile equilibrio fra comunità e immunità”

Roberto Esposito

IL DOPPIO VOLTO DELL’IMMUNITA’

DI ROBERTO ESPOSITO

Bisogna stare attenti a non ridurre il significato del concetto di immunità a un’esperienza recente, di carattere medico o giuridico, volta a chiuderci entro confini difensivi nei confronti dell’altro. Ciò non è sbagliato, ma va inserito in un orizzonte più ampio, adottando uno sguardo di lungo periodo.

Da questa prospettiva, per così dire genealogica, l’immunità, o l’immunizzazione è un paradigma attraverso il quale è possibile rileggere l’intera storia moderna. Se l’esigenza di autoprotezione della vita caratterizza tutta la storia umana, rendendola possibile, è nella modernità che essa viene percepita come un problema fondamentale, e dunque come compito strategico.

Privati delle protezioni naturali di carattere teologico che avevano caratterizzato la stagione premoderna, gli uomini sentono il bisogno di costruire dei dispositivi immunitari di tipo artificiale per proteggersi dai mali, dai conflitti e anche dalle novità che li minacciano, il primo dei quali è lo Stato moderno.

Quanto accade oggi non è che l’ultimo passaggio, sempre più accelerato e quasi ossessivo, di questo processo. Quello cui assistiamo, insomma, è uno straordinario mutamento di scala di un processo risalente nel tempo. Per capire il fenomeno in tutto il suo rilievo, storico, filosofico, antropologico, non dobbiamo smarrire la complessità del meccanismo di immunizzazione, evitando ogni semplificazione polemica o retorica.

Esso è un processo ambivalente, che produce effetti contraddittori. L’immunizzazione è allo stesso tempo necessaria e rischiosa, protegge dai rischi e ne genera a sua volta altri. È necessaria perché nessun corpo individuale o collettivo potrebbe sopravvivere a lungo senza un sistema immunitario che lo protegga da conflitti insostenibili – per esempio senza il sistema immunitario del diritto una società esploderebbe. Ma è rischioso perché, oltre una certa soglia, l’eccesso di protezione rischia di bloccare l’altra esigenza umana fondamentale che è quella della comunità, cioè della relazione tra gli uomini.

Il problema che abbiamo anche oggi di fronte non è quello, semplicistico, di contrapporre comunità e immunità, ma articolarle in una forma sostenibile che non sacrifichi l’una a favore dell’altra. Certo, oggi, forse mai come oggi nel corso di tutta la storia, assistiamo ad una crescita abnorme dell’esigenza immunitaria. Essa è diventata il perno intorno al quale ruota tutta la nostra esperienza reale e simbolica, il punto d’incrocio di tutti i linguaggi – biologici, giuridici, politici, economici. Riguarda insieme il corpo individuale e il corpo collettivo, il corpo sociale e il corpo informatico, tutti in difesa contro i virus di vario genere che li attaccano o sembrano attaccarli.

In questo modo l’equilibrio tra communitas e immunitas sembra spezzarsi a favore di quest’ultima. Il limite appare superato, con la conseguenza di ridurre al minimo non solo la vita in comune, ma perfino la libertà individuale. Il rischio ultimo cui le nostre società immunizzate vanno incontro è quello che si sperimenta durante le malattie autoimmuni, quando il sistema immunitario è talmente forte da rivolgersi contro lo stesso corpo che dovrebbe proteggere, distruggendolo.

Si è visto che questo – un eccesso di difesa da parte degli anticorpi – è quanto accade anche nel covid 19, con l’esito di infiammare i polmoni, come scrive nel suo ultimo libro sull’immunità – Il fuoco interiore – l’immunologo Mantovani. Qui si determina il classico controeffetto delle procedure immunitarie quando sono spinte aldilà della loro funzione normale. Continua a leggere

Giancarlo Pontiggia, “Il mondo nuovo”

Giancarlo Pontiggia, credits ph Dino Ignani

IL MONDO NUOVO

DI GIANCARLO PONTIGGIA

1

Qui, né Lete né Eunoè. Ci scorre, sì, un fiume,
ma nient’altro che acque: torbide, grevi, ferrigne.
Anche la terra è terra, e basta: umida, tediosa, fetida,
per troppa piova che ci batte. Ma uomini,
di quelli ce n’è tanti, e bestemmiano, sudano,
s’accapigliano. Stridono, anche, su e giù, e gemono
fino al cielo; ma il cielo
non è altro che cielo: vuoto, impervio, rado.
Né voli, né nubi: solo aria, umida e fina, che ti s’impasta
sulla pelle, dappertutto

2

E non si dorme, vedi, ma tutti
abitano qui come talpe laboriose, brulica
la vita per le vie della notte, gridano
i loro nomi, gridano
i nomi che non ci sono, che s’incidono
sulla lastra, vuota, del cielo

3

Chi se li ricorda, i tempi
di un tempo che fu, remoto, inaccessibile,
che compare, talvolta, in sogno, per chi sogna,
ancora.
Ma nessuno più sogna, credimi,
e questo è per voi, che venite di lontano,
l’ostacolo più grande: resistere
al sonno che vi invade, e annienta
la mente che ragiona. Dai sonni, lunghi e ramosi,
discendono i popoli dei sogni, che vi si appiccicano addosso,
come ragne liquorose nella cella
della mente.
Ma nessuno più sogna, qui, dal tempo dei tempi
che furono, e chi ci arriva, come voi, di lontano,
si abitua a non farne,
e così diviene simile a noi, ombra
come tutti Continua a leggere

Valerio Magrelli, “violando l’ambiente l’uomo distrugge se stesso”

Valerio Magrelli credits ph Dino Ignani

UNA MODESTA PROPOSTA
DI VALERIO MAGRELLI

Era del 1969 l’articolo di Gregory Bateson Patologie dell’epistemologia. Lo si trova nel volume intitolato Verso un’ecologia della mente (Adelphi, 1991). Solo per dire che, oltre mezzo secolo fa, lo studioso aveva già perfettamente analizzato la situazione in cui ci troviamo in questi mesi. Il mio intervento si riduce a un semplice, sentitissimo invito: proporre l’adozione del suo testo nelle scuole dell’obbligo. Nient’altro. E passo adesso a riassumerne brevemente qualche pagina.

L’intervento denuncia gli errori epistemologici commessi dalla civiltà occidentale, a cominciare dai danni del Positivismo. In armonia con il clima di pensiero che predominava verso la metà dell’Ottocento in Inghilterra, Darwin formulò una teoria della selezione naturale e dell’evoluzione in cui l’unità di sopravvivenza era la famiglia, la specie, la sottospecie o qualcosa di simile. Oggi, però, sappiamo che l’unità di sopravvivenza nel mondo biologico reale non è questa: l’unità di sopravvivenza è piuttosto L’ORGANISMO PIÙ L’AMBIENTE.

Stiamo imparando sulla nostra pelle che, distruggendo il suo ambiente, l’organismo distrugge se stesso. Con la pandemia, aggiungo io, stiamo vedendo cosa accade quando si commette l’errore epistemologico di scegliere l’unità sbagliata.

Nella loro forma più virulenta, le idee che dominano oggi la nostra civiltà risalgono alla rivoluzione industriale, e si possono riassumere così: noi contro l’ambiente; noi contro altri uomini; l’unica cosa importante è il singolo (o la singola compagnia o la singola nazione); possiamo avere un controllo unilaterale sull’ambiente e dobbiamo sforzarci di raggiungerlo; viviamo all’interno di una frontiera che si espande all’infinito; il determinismo economico è cosa ovvia e sensata; la tecnica ci permetterà di attuarlo.

Ora, alla luce delle grandi ma in definitiva distruttive conquiste della nostra tecnica negli ultimi 150 anni, tutte queste idee, spiega Bateson, si sono dimostrate false. La moderna storia ecologica (e l’attuale contagio da virus, torno a sottolineare io) dimostrano che, violando il proprio ambiente, la creatura distrugge stessa. Possiamo dire anzi (continuo a parafrasare un saggio di cinquant’anni fa…) che tutte le attuali minacce alla sopravvivenza dell’uomo sono riconducibili a tre cause originali: 1) progresso tecnico; 2) aumento della popolazione; 3) errore nel pensiero e negli atteggiamenti della cultura occidentale. Insomma, i nostri valori sono sbagliati perché la maggioranza degli uomini è ancora guidata da un’epistemologia errata. La nostra insensata volontà di concentrarci sulla vita dei singoli individui, ha creato, nell’immediato futuro, la possibilità di una catastrofe mondiale. Continua a leggere

Jean-Luc Nancy, “Il virus ha aumentato il divario sociale”

INTERVISTA A JEAN-LUC NANCY
DI LUIGIA SORRENTINO
(22 -28 maggio 2020)
Traduzione di Letizia Tesorini

Luigia Sorrentino. La pandemia da Covid-19 ha innescato una crisi globale che ha investito la popolazione di tutto il pianeta. I limiti e le restrizioni della libertà imposti dai governi in cui vige la democrazia sono stati avvertiti dalla popolazione come una minaccia dei diritti umani. Una necessità per contenere la pandemia confinare  la libertà individuale e collettiva che ha reso i cittadini più responsabili?

Jean-Luc Nancy. In realtà non è la limitazione delle libertà individuali di movimento e di assembramento che costituisce una minaccia per i diritti e per la dignità perché al contrario ha dato vita a molteplici iniziative per adattarci a queste misure, per riproporre invenzioni per circoscrivere o superare gli effetti di queste misure, per cercare anche di liberarcene – tanto in modo prudente, consentendo comunque di aiutare gli altri, quanto in modo imprudente per il semplice piacere di trasgredire. In ogni caso, c’è stata una maggiore presa di coscienza delle nostre interdipendenze. La nostra realtà comune è diventata più sensibile e allo stesso tempo è aumentato il divario sociale sulla base delle proprie condizioni abitative, lavorative, ma anche in termini di accesso alla sanità, all’istruzione e all’informazione. Andando più in profondità, si può pensare a un grande interrogativo sulla natura stessa della nostra esistenza comune,  che nasce non a causa del virus, ma dei suoi effetti. Forse questo interrogativo era già lì, meno immediato ma già sensibile. Oggi abbiamo una maggiore sensibilità.

Luigia Sorrentino. Lei non ha timore che con la scusa di contenere la pandemia possano  generarsi dei regimi totalitari? Intendo dire, secondo lei l’umano non rischia di perdere il diritto all’autodeterminazione della libertà?

Jean-Luc Nancy. E’ un timore plausibile, sebbene i regimi autoritari attualmente esistenti non costituiscono esempi particolarmente convincenti. Infatti non siamo abbastanza informati su ciò che accade realmente in alcuni paesi. Detto questo la seduzione della rappresentazione di un potere forte da una parte e la tutela di una nazione o di un popolo dall’altra agiscono o possono agire in questa direzione. Tuttavia, le interdipendenze e le interconnessioni mondiali – tra queste anche quelle europee – sono così forti che è impossibile non prenderle in considerazione. Il problema di fondo, però è altrove, sicuramente: non sappiamo più cosa significhi “potere”. La potenza tecno-economica ha reso il potere politico o simbolico (compreso quello religioso) uno strumento al proprio servizio. Sarà necessario reinventarsi qualcosa….

Luigia Sorrentino. Si è parlato di “immunità di gregge” per proteggere la popolazione mondiale dalla pandemia, anche se occorrerà almeno un anno per sperimentare il vaccino contro il covid-19. Questo meccanismo non può generare cittadini di serie A “gli immuni” e cittadini di serie B, “i non immuni”? Intendo dire, non c’è il rischio che si generino discriminazioni ad esempio fra persone più giovani e persone meno giovani? Continua a leggere

L’ordine del mondo



Nel tempo del coronavirus
di Luigia Sorrentino

 

 

La pandemia da coronavirus della quale si è cominciato a parlare in Italia dal 22 febbraio 2020 è l’epidemia mondiale chiamata COVID-19 e provocata dal virus SARS-CoV-2.

Di questo virus noi, persone comuni, sappiamo davvero ben poco.
Ci hanno detto che si era diffuso già molti mesi prima nel mercato del pesce di Wuhan, in Cina, per poi propagarsi in Giappone, poi in Italia, e via via, velocemente in tutto il mondo, causando migliaia e poi milioni di morti.
Successivamente abbiamo saputo che il virus, manifestatosi con febbre alta, tosse, e con una strana polmonite interstiziale, circolava in Italia già dall’ ottobre 2019.

Il governo italiano colto alla sprovvista ha preso decisioni drastiche: nel tentativo di arginare l’emergenza sanitaria e la diffusione del virus ha costretto l’intera popolazione a restare in isolamento per mesi, fermando, di fatto, l’intero Paese.

La necessità di contenimento imposte dalla pandemia hanno sollevato numerose proteste sul piano geopolitico e ideologico, volte a rivendicare i diritti umani che sembravano essere stati messi in discussione. Anche se nella maggioranza dei casi, le reazioni più condivise sono state di accettazione eppure spesso alla base vi era un fondo di amarezza per quello che sembrava essere, oltre che una misura di tutela sanitaria, anche un attentato alla libertà individuale e collettiva. Continua a leggere

Mario Benedetti (1957 – 2020)

A due mesi dalla scomparsa di Mario Benedetti, poeta italiano, pubblichiamo alcune poesie di Benedetti tradotte in inglese da  Roberto Binetti. 

____

Da Moriremo guardati (1994)

Quanto s’incatina il cielo
che non è più fermo.
Mi perde la tranquilla tersità
già dell’estate.

Più non si sfugge
dalle vie calde di portici.
Al refrigerio murato
del fingersi sovrani
più non riporta
l’incarto rotto del pensiero.

***

When the sky’s bulging
to the point that is no longer still.
The calm terseness gets me lost
of the late summer.

No longer one could slip away
from the hot lanes of the colonnades.
No longer the cracked wrapping
of thought recalls
the walled relief
from faking regality.

Da Umana gloria (2004)

È stato un grande sogno vivere
e vero sempre, doloroso e di gioia.
Sono venuti per il nostro riso,
per il pianto contro il tavolo e contro il lavoro nel campo.
Sono venuti per guardarci, ecco la meraviglia:
quello è un uomo, quelli sono tutti degli uomini.
Era l’ago per le sporte di paglia l’occhio limpido,
il ginocchio che premeva sull’erba
nella stampa con il bambino disegnato chiaro in un bel giorno,
il babbo morto, liscio e chiaro
come una piastrella pulita, come la mela nella guantiera.
Era arrivato un povero dalle sponde dei boschi e dietro del cielo
con le storie dei poveri che venivano sulle panche,
e io lo guardavo come potrebbero essere questi palazzi
con addosso i muri strappati delle case che non ci sono.

****

To live was a great dream
and real, always, painful and full of joy.
They came for our laughter,
for our tears burst against the table and the work in the fields.
They came to stare at us, here’s the miracle:
that is a man, those are all men.
He was the needle for the straw bags, the clear eye,
the knee pressing on the grass
in the etching with the clearly-drawn child in a clear day,
the dead father, smooth and clear
like a clean tile, an apple in a glove-box.
A poor man arrived from the woods’ banks and beneath the sky
with stories from other poor men that used to amass over the benches
and I was staring at him as I would stare at these buildings
with the ripped walls of the houses that do not stand anymore. Continua a leggere

Bartolo Cattafi (1922 – 1979)

Alle porte del Sud róse dal mare
agavi e capre bivaccano covando
il sangue fatto polvere nei secoli
vecchio odore immobile del mondo.

Mezzogiorno su razze dolorose
favola sbarcata come un padre
lamento della sete dei cammelli
ogni ulivo è per te una bandiera
ogni cuore l’arancia ritrovata
ogni donna la cavalla cavalcata.

Colmate le chiese d’incenso e di gridi
come battelli di spezie e di limoni
fanciulle atroci sull’antica schiena
affogano cantando il grosso sesso
uccello starnazzante rosso e nero
in un bagno mordace d’acquasanta.

Caldo corpo di favola e fuga
tinnante del frumento dalle pietre
Scirocco spada di Dio in processione
rosa in mano alle grige famiglie
nuvola e sonno maturo sopra i tetti. Continua a leggere

La poesia di Margaret Atwood

 

Margaret Atwood

Morning in the Burned House

In the burned house I am eating breakfast.
You understand: there is no house, there is no breakfast,
yet here I am.

The spoon which was melted scrapes against
the bowl which was melted also.
No one else is around.

Where have they gone to, brother and sister,
mother and father? Off along the shore,
perhaps. Their clothes are still on the hangers,

their dishes piled beside the sink,
which is beside the woodstove
with its grate and sooty kettle,

every detail clear,
tin cup and rippled mirror.
The day is bright and songless,

the lake is blue, the forest watchful.
In the east a bank of cloud
rises up silently like dark bread.

I can see the swirls in the oilcloth,
I can see the flaws in the glass,
those flares where the sun hits them.

I can’t see my own arms and legs
or know if this is a trap or blessing,
finding myself back here, where everything

in this house has long been over,
kettle and mirror, spoon and bowl,
including my own body,

including the body I had then,
including the body I have now
as I sit at this morning table, alone and happy,

bare child’s feet on the scorched floorboards
(I can almost see)
in my burning clothes, the thin green shorts

and grubby yellow T-shirt
holding my cindery, non-existent,
radiant flesh. Incandescent.

Mattino nella casa bruciata

Nella casa bruciata faccio colazione.
Capirai: niente casa, niente colazione,
invece eccomi qua.

Il cucchiaio che si è fuso raschia
la ciotola che pure si è fusa.
non c’è nessun altro in giro.

Dove sono andati, il fratello e la sorella,
la madre e il padre? Via lungo il mare,
forse. I loro abiti sono ancora sulle grucce,

la pila dei piatti accanto al lavello,
accanto al fornello a legna
con la gratella e il bollitore incrostato,

ogni dettaglio è chiaro,
la tazza di latta e lo specchio grinzoso.
Il giorno è luminoso e senza canto,

il lago è blu, la foresta vigile.
A est un cumulo di nubi
lievita il silenzio come pane scuro.

Vedo i ghirigori nella carta oleata,
vedo i difetti nel vetro,
le vampe dove il sole batte.

Le mani e le gambe non me le vedo
e non so se è un problema o una benedizione,
ritrovarmi qui, dove ogni cosa

in questa casa si è da tempo estinta,
pentolino e specchio, cucchiaio e ciotola,
perfino il mio stesso corpo,

perfino il corpo che avevo allora,
perfino il corpo che ho adesso
mentre siedo a tavola stamattina, sola e felice,

piedi nudi di bimba sulle assi bruciacchiate
(li vedo quasi)
nei miei abiti in fiamme, i calzoncini verdi leggeri

e la maglietta gialla bisunta
che tiene insieme la mia inesistente, cinerina,
carne radiosa. Incandescente. Continua a leggere

Stefan George (1868 -1933)

Die sommerwiese dürrt von arger flamme

Auf einem uferpfad zertretnen kleees
Sah ich mein haupt umwirrt von zähem schlamme
Im fluss trübrot von ferner donner grimm.
Nach irren nächten sind die morgen schlimm:
Die teuren gärten wurden dumpfe pferche
Mit bäumen voll unzeitig giftigen schneees
Und hoffnungslosen tones stieg die lerche.

Da trittst du durch das land mit leichten sohlen
Und es wird hell von farben die du maltest.
Du lehrst vom frohen zweig die früchte holen
Und jagst den schatten der im dunkel kreucht ..
Wer wüsste je – du und dein still geleucht –
Bänd ich zum danke dir nicht diese krone:
Dass du mir tage mehr als sonne strahltest
Und abende als jede sternenzone

*

Devasta una maligna fiamma i campi

Da un argine di magra erba calpesta
vidi tra il fango torba la mia testa
nel fiume bieco di lontani lampi.
Da notti folli torbidi mattini:
avvelenata neve rifioriva
fatti acri stabbi i nitidi giardini
e sgomenta l’allodola saliva.

Tu vieni lieve ora per la campagna
e ai colori che temperi schiarisce.
Insegni a coglier frutti dalla rama
e scacci l’ombra che ne buio striscia…
Sapevi tu e la tua calma spera
che io ti offrirei ghirlanda di parole:
giorni tu mi raggirasti più del sole,
più di ogni zona d’astri qualche sera.

Stefan George, una poesia da Der siebente ring (Il settimo anello) 1907. La traduzione italiana è di Leone Traverso. Continua a leggere

Leopoldo María Panero (1948 – 2014)

Leopoldo María Panero

Oltre quel luogo dove
ancora si nasconde la vita, resta
un regno, resta da coltivare
come un re la sua agonia,
da far fiorire come un regno
il sudicio fiore dell’agonia:
io che tutto ho prostituito, posso ancora
prostituire la mia morte e fare
del mio cadavere l’ultima poesia.

Leopoldo María Panero nella traduzione di Alessandro De Francesco.
Dalla rivista Poesia, Crocetti Editore (anno 2012)

Más allá de donde
aún se esconde la vida, queda
un reino, queda cultivar
como un rey su agonía,
hacer florecer como un reino
la sucia flor de la agonía:
yo que todo lo prostituí, aún puedo
prostituir mi muerte y hacer
de mi cadáver el último poema.

Leopoldo María Panero
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Lucio Piccolo (1901 – 1969)

Da sinistra Gioacchino Lanza Tomasi, Lucio Piccolo e Giuseppe Tomasi di Lampedusa a Capo d’Orlando

Le sognanti, lontane ombre che sono
dietro le tue parole questa notte,
fantastiche o dolenti le portava
la corrente dei giorni, il vento che apre
i colori, ed ognuna il suo segreto
di dolore o di gioia che il destino
segnò e il buio chiude;
e ancora altre ne chiami
che dileguando diedero un’impronta
di lume: la promessa di un ritorno;
mani che schiusero i riposi,
occhi che riflettevano i meriggi
sotto i rami, le foglie della vite
che il raggio fa vivaci, oh le stormenti
stagioni attorno ai volti, le ore
che scendevano a noi come in dolcezza
umana fatte miti da uno sguardo;
viva siepe, riparo che fa
sicure in cerchio notti, albe, tramonti,
e come pienamente
rispondevano ad ogni sole
che mai le avrebbe, mai sfiorate il rombo
del mistero; ma in fondo ad ogni svolta
è il dolore, la cenere che tocchi
si riga: brace e sangue.
E sul quadrante gira una segno
indietro lascia la vacua spirale
dove l’anima è presa, e fuori attorno
ferma è la notte come una memoria
di sempre; sul piano
pietroso che sovrasta al mare basse
macchie di luna e cespi,
tarde stuoie di nuvole e un’ansia
s’alza d’ignoto, ricade; respiro
dell’aria scorre tra le gole, tocca
la paglia sotto il ponte, alle pareti
della cava risale e sopra i margini
si cela tra le foglie degli ulivi.

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Ungaretti, “Blake visioni”

02/10/1957
Nella foto: il poeta Giuseppe Ungaretti a una conferenza
@ArchiviFarabola [258605]

COMMENTO DI ALBERTO FRACCACRETA

 

Il 2 giugno di quest’anno ricorrono i cinquant’anni dalla scomparsa di Giuseppe Ungaretti: una data che inevitabilmente fa pensare all’eredità lasciata dal massimo esponente del cosiddetto “ermetismo” (benché l’etichetta non renda giustizia della complessità della poesia ungarettiana). In illo tempore la sfida Ungaretti-Montale era senz’altro più sentita. Nella storia degli studi assistiamo oggi a una netta vittoria del secondo, appartenente al partito che fortemente lo sostenne a sfavore del cattolico Ungaretti (non si dimentichino le parole di Leone Piccioni: «Ebbe contro il partito dei laici, che gli contrappose sempre Eugenio Montale. Non gli è mai stata perdonata la vicinanza con il mondo cattolico e il sostegno che quel mondo dava alla sua opera»).

Eppure, sebbene in maniera diversa e secondo differenti sfumature liriche, entrambi sono stati altissima espressione di un’inquietudine religiosa che li ha visti sfiorarsi nell’agone, toccare il vertice della loro arte a distanza di circa un decennio: Ungaretti con Il Dolore nel 1947 e Montale con La bufera e altro nel 1956. Due capolavori come punti di luce infinitamente lontani nella siderale distanza degli astri letterari, eppure percorsi entrambi da una sete di assoluto e di disvelamento del sacro nell’esperire la sofferenza individuale e universale. Quella che nel poeta più anziano è parola nuda, poésie pure, confessione e in senso lato «vita d’un uomo», nel più giovane è impalcatura metaforica, poésie metaphysique, misticismo e costruzione di un personaggio. Da un lato c’è il Cristo di Mio fiume anche tu («Cristo, pensoso palpito,/ Astro incarnato nell’umane tenebre,/ Fratello che t’immoli/ Perennemente per riedificare/ Umanamente l’uomo,/ Santo, Santo che soffri,/ Maestro e fratello e Dio che ci sai deboli,/ Santo, Santo che soffri/ Per liberare dalla morte i morti/ E sorreggere noi infelici vivi,/ D’un pianto solo mio non piango più,/ Ecco, Ti chiamo, Santo,/ Santo, Santo che soffri»); dall’altro la Cristofora «iddia che non s’incarna» della Primavera hitleriana e di Iride («Perché l’opera tua (che della Sua/ è una forma) fiorisse in altre luci/ Iri del Canaan ti dileguasti/ in quel nimbo di vischi e pungitopi/ che il tuo cuore conduce/ nella notte del mondo, oltre il miraggio/ dei fiori del deserto, tuoi germani»). Due stili e due modi d’approccio alla poesia inconciliabili fra loro, benché ci sia una prossimità nelle tematiche e nell’uguale reazione al descensus ad inferos della guerra e dei disfacimenti della storia. Continua a leggere

Il poeta estone Igor’ Kotjuch

Igor’ Kotjuch

Poesia e Covid-19

di Igor’ Kotjuch

они обсуждают сериалы
они советуют что почитать
они выкладывают снимки ужина с вином
они спорят о политике
они воплощают в жизни картины художников
они поддерживают флешмоб «портрет в ч/б цвете»

сидят по квартирам
почти никуда не ходят
карантин

а мы думаем

что будет, когда у них кончатся деньги
что будет, когда кончится инерция прошлой жизни

что тогда будут обсуждать
что тогда будут советовать
что тогда будут выкладывать
о чем тогда будут спорить
что тогда будут воплощать
какие флешмобы тогда будут поддерживать

мы не знаем, как долго это продлится
мы не думали заводить себе столько питомцев

discutono delle serie tv
consigliano che cosa leggere
pubblicano foto della cena col vino
discutono di politica
incarnano nella vita i quadri degli artisti
sostengono il flashmob “ritratto in bianco e nero”

stanno negli appartamenti
non vanno quasi da nessuna parte
la quarantena

e noi pensiamo

che cosa accadrà, quando loro finiranno i soldi
che cosa accadrà, quando finirà l’inerzia della vita passata

di che cosa discuteranno allora
che cosa consiglieranno allora
che cosa posteranno allora
di che discuteranno allora
che cosa incarneranno
quali flashmob sosterranno allora

non sappiamo quanto a lungo durerà
non pensavamo di trovare tanti allievi Continua a leggere

Il massacro delle madri in Afghanistan

Shukria Rezaei

COMMENTO DI LUIGIA SORRENTINO

Il 12 maggio scorso in Afghanistan all’ospedale di Kabul, c’è stato un orribile attentato terroristico. Uomini armati hanno fatto irruzione nel reparto maternità con lo scopo di uccidere madri e neonati.
La maggior parte delle donne prese di mira dai terroristi erano donne afgane sciite di etnia Hazara, la stessa della giovane poeta Shukria Rezaei. La famiglia di Shukria a lungo perseguitata dai Taleban in Afghanistan,  da sette anni si è rifugiata a Oxford, in Gran Bretagna.  Shukria  aveva dodici anni quando è stata costretta a lasciare il suo paese natale, ora ne ha ventuno e frequenta l’università.  Ha cominciato a scrivere poesie dopo aver frequentato a Oxford un laboratorio di scrittura creativa diretto dalla poeta Kate Clanchy.
Shukria ha scritto una poesia per non dimenticare la strage delle madri e dei neonati che si è consumata il 12 maggio 2020 in Afghanistan.

Grazie Shukria. Continua a leggere

La poeta anglo-indiana Arundhathi Subramaniam

Arundhathi Subramaniam

Prayer

May things stay the way they are
in the simplest place you know.

May the shuttered windows
keep the air as cool as bottled jasmine.
May you never forget to listen
to the crumpled whisper of sheets
that mould themselves to your sleeping form.
May the pillows always be silvered
with cat-down and the muted percussion
of a lover’s breath.
May the wall-clock
continue to decree
that your providence
runs ten minutes slow.

May nothing be disturbed
in the simplest place you know
for it is here in the foetal hush
that blueprints dissolve
and poems begin,
and faith spreads like the hum of crickets,
faith in a time
when maps shall fade,
nostalgia cease,
and the vigil end.
And may the vast moon-brindled fields,
opal mountains of sunwashed snow,
resonant with the laughter of all those buddhas,
never be more than a dream away.

Preghiera

Che le cose rimangano come sono
nel luogo più semplice che conosci.

Che le persiane chiuse
mantengano l’aria fresca come essenza di gelsomino.
Che tu non possa mai scordarti di ascoltare
il gualcito sussurrare delle lenzuola
che modellano la tua forma dormiente.
Che i cuscini siano sempre argentei
di pelo di gatto e della tenue percussione
del respiro di un amante.
Che l’orologio a muro
continui a decretare
che la tua provvidenza
è dieci minuti in ritardo.

Che niente venga disturbato
nel luogo più semplice che conosci
perché è qui nel silenzio fetale
che i progetti si dissolvono
e cominciano le poesie,
e la fede si diffonde come il ronzio dei grilli,
fede in un tempo
in cui le mappe sbiadiranno,
la nostalgia cesserà,
e la veglia sarà finita.
E che i vasti campi screziati di luna,
le montagne opalescenti di neve inondata di sole,
risuonanti del riso di tutti i buddha,
non siano mai più lontani di un sogno. Continua a leggere

Andrea Gareffi, “L’opus contra naturam di Montale”

Eugenio Montale

DI ALBERTO FRACCACRETA

 

Chi ha detto che Eugenio Montale era un nichilista? Una vecchia tradizione di studi, avvitata sulla scettica vena diaristica di Satura (1971) e delle ultime sillogi, lo dipinse per decenni come simbolo di inflessibile negazione. Eppure Eusebio, in molte poesie e nei rivelatori (e talora depistanti) autocommenti, non ha mai nascosto una sua personale, benché velleitaria e problematica, ricerca di trascendenza. Dopo che Paolo De Caro, nell’intricato ciclo cliziano, ha scoperto legami testuali con l’eresiarca ebreo Jakob Frank, la parabola interpretativa di alcuni passaggi fondamentali dell’Opera in versi ha cominciato decisamente a correggersi. L’elegante saggio di Andrea Gareffi dal titolo junghiano L’opus contra naturam di Montale, pubblicato nella collana «Mosaic» di Loffredo diretta da Elisabetta Marino e Fabio Pierangeli, fa luce e giustizia su un aspetto ancora poco conosciuto della poetica montaliana che si pone come rivoluzione copernicana negli studi del maggiore poeta del nostro Novecento. È l’intero impianto compositivo della lirica di Montale ad appartenere a una kafkiana teologia individuale o a una tensione mistica individuata da Gareffi nell’ampio spettro del lavorio psicologico e delle conquiste della coscienza. Non una vera e propria confessione religiosa (benché siano innegabili i punti di contatto con il cristianesimo), ma una sorta di «metafisica immanente», orientata verso un’«eternità d’istante» à la Kierkegaard, che mantiene nitida la distinzione di anima e animus ed è in rapporto di prossimità con il verum ipsum factum di Vico. Ma lo studioso si spinge oltre: la spiritualità montaliana, in continua genesi e in perpetuo rinnovamento, è forse mediata anche dalla prospettiva gnostica e asiatica di Bobi Bazlen: si può parlare allora di un Montale orientale o addirittura taoista? Sarebbe troppo, ma qualcosa c’è. Continua a leggere

La poesia di John Barnie

John Barnie

A cura di Giorgia Sensi

Later

When I’m too old for scrambling
Up and down the hills
And valleys of sex, I’ll
Rethink my position,

Look at water
Under a microscope,
The study of clarity;
Float pollen in its lens

Till the nuggets and shields
Come clean
As Trojan gold. I’ll enjoy
The facelessness

Of that; the worth
Of nothing. Then
I might take silence
In sunlight,

Listening for its hiss
In interstices
Of leaves. I’ll sit
With the surface

Of a white page,
And think of cleanness
In a mind prepared to leave.
Everyone else

Will carry on
Living with the red shift,
Each believing of the other:
“He is saying goodbye.”

Dopo

Quando sarò troppo vecchio per scorrazzare
su e giù per i monti
e le valli del sesso,
rivedrò la mia posizione,

osserverò l’acqua
al microscopio,
studio della chiarezza;
farò galleggiare il polline nella lente

finché pepite e scudi
non brilleranno
come oro di Troia. Godrò
di quella impersonalità;

del valore
del nulla. Poi
potrei prendere il silenzio
alla luce del sole,

ascoltarne il sibilo
tra gli interstizi
delle foglie. Siederò
con la superficie

di una pagina bianca,
e penserò alla pulizia
di una mente pronta ad andarsene.
Tutti gli altri

continueranno
a vivere con il red shift,
e ciascuno penserà dell’altro:
“Sta prendendo commiato.” Continua a leggere

Simoncelli, cinque poesie

Stefano Simoncelli, ph. di Daniele Ferroni

COMMENTO DI MATTEO BIANCHI

Dallo sfondo sfocato sono le forsizie a occupare lo sguardo del lettore con i loro fiori di un giallo intenso, ovvero le riserve del presente. Le piante in questione che simboleggiano l’anticipazione di qualcosa, la sua venuta fuori contesto, separano lo spazio vitale del custode dalla casa in disfacimento a cui bada, quasi fosse la carcassa di un passato irreparabile, insolvibile. In un momento tanto incerto e drammatico che impone un severo isolamento, il poeta si nasconde dietro il vissuto di qualcun altro proprio per non rinnegare il suo e metterlo a fuoco. L’io lirico non trova un senso alla memoria che sbiadisce, così la dimora fatiscente svuotata dalle boutade gravose del tempo riecheggia la Villa chiusa di Corrado Govoni, che circondata da una siepe pativa la stessa «solitudine forzata», la stessa ruggine, ma che aspettava la pace. D’altronde, Govoni era solito ricavarsi periodi di distacco totale dal brusio quotidiano per riconoscersi attraverso un ascolto più limpido di sé. Continua a leggere

La poeta pakistana Imtiaz Dharker

Fotografata alla BBC

Traduzione e cura di Giorgia Sensi

The Trick

In a wasted time, it’s only when I sleep
that all my senses come awake. In the wake
of you, let day not break. Let me keep
the scent, the weight, the bright of you, take
the countless hours and count them all night through
till that time comes when you come to the door
of dreams, carrying oranges that cast a glow
up into your face. Greedy for more
than the gift of seeing you, I lean in to taste
the colour, kiss it off your offered mouth.
For this, for this, I fall asleep in haste,
willing to fall for the trick that tells the truth
that even your shade makes darkest absence bright,
that shadows live wherever there is light.

da Luck is the Hook, Bloodaxe, 2018

Il tranello

Nelle ore sprecate, è solo quando dormo
che tutti i miei sensi si svegliano. Nella veglia
di te, il giorno non spunti. Di te mi rimanga
il profumo, il peso, lo splendore, tutta
la notte calcolerei le incalcolabili ore
fino a quando tu non verrai alla porta
dei sogni, portando arance che ti accendono
il viso. Non paga del dono
di vedere te, io mi sporgo a gustarne
il colore, con un bacio sulla bocca che mi offri.
È per questo, per questo, che mi appresto al sonno,
ansiosa di cadere nel tranello che dice la verità,
che perfino la tua ombra alla più cupa assenza è lume,
che le ombre vivono ovunque vi sia luce. Continua a leggere

“Verso le stelle glaciali”

Tommaso Di Dio

Le parole possibili del viaggio. Una nota (in due tempi) su Verso le stelle glaciali di Tommaso Di Dio.

di Emanuele Franceschetti

*

In Verso le stelle glaciali (Interlinea, 2020) Tommaso Di Dio ha raccolto il frutto di sei anni di scrittura poetica. Ne è risultato un testo corposo, articolato, e che fin da subito si rivolge al lettore suggerendogli la non-univocità dei possibili itinerari di lettura. Ne emerge l’idea di un libro senza traiettorie obbligate: un testo in qualche modo aperto, al netto delle mappe e degli itinerari proposti dall’autore. Il tracciato è quadripartito: si può viaggiare nelle storie comuni degli uomini (Hanno freddo/ Le strade, la storia); nella nuda evidenza del dolore e della malattia (L’occhio azzurro/ L’ospedale, la caverna); oppure nella ‘grande’ storia, che è anch’essa vicenda di uomini, viaggi e speranze (1492/ Il mare, la mente, terza sezione). Nella quarta sezione (Verso le stelle glaciali/ Il vento, i pronomi), che mi sembra possa intendersi al contempo come una summa e come un concertato finale, si ha ancora una volta, e con forza, la percezione che il viaggio e lo sguardo siano sovra-individuali, che esista una coralità implicita («Perché noi amiamo/ le nude colline, i tronchi storti»; ma anche «ogni cosa splende/ si perde e dice stai/ fra mondi; confratèrnati»), un destino di tutti, come lo è la storia dell’universo, come lo sono «gli umani sogni». Nella quinta e ultima sezione, Descrizione delle mappe, Di Dio colloca delle prose, quasi delle lunghe ekphrasis ‘a distanza’. Sono le descrizioni delle nove immagini (le mappe) che il lettore ha incontrato nel corso del viaggio. Immagini che vengono in tal modo illuminate di senso, retrospettivamente. Alla fine del viaggio, il lettore può ricominciare il cammino con diversa consapevolezza: “La mappa smette di mostrare una direzione e mostra invece se stessa”. Tutto diventa così circolare e plurale: le prose sono testi poetici, organici alla raccolta, ma sono anche funzionali; indicano se stesse, ma rimandano ad altro. Hanno, forse, valenza allegorica, come le stelle glaciali.

Continua a leggere

Respiro, biopoetica del Covid 19

ph. di Luigia Sorrentino

Penuria d’aria

di Giuseppe Martella

Da un paio di decenni a questa parte, sono gradualmente venute in voga negli Stati Uniti delle correnti critiche che vanno nel complesso sotto l’etichetta di biopoetica o darwinismo letterario. A parte la faziosità, il velato razzismo e l’eccesso di semplificazione che caratterizzano alcuni fra questi contributi, vi si trovano tuttavia diversi aspetti interessanti che si possono riassumere in una reazione salutare agli eccessi opposti del testualismo e del culturalismo registrati nei decenni precedenti, e soprattutto nella costante propensione a un dialogo costruttivo fra le due culture, umanistica e scientifica. Si sta cercando insomma di teorizzare un nuovo equilibrio tra i fattori naturali e quelli culturali nello sviluppo e nella selezione delle forme, dei generi e dei modi dell’invenzione letteraria e artistica, alla luce delle più recenti acquisizioni della biogenetica e della teoria dell’evoluzione, aprendo così lo storicismo classico agli orizzonti della preistoria. Sintetizzando drasticamente, si può affermare che l’obiettivo primario di questo approccio critico basato sulla biologia è quello di capire se l’attività artistica in generale può essere considerata tra i comportamenti che hanno dato un vantaggio evolutivo alla specie umana. Qui non è certo il caso di entrare in ulteriori dettagli, perciò faccio riferimento alle ottime, recenti sintesi di Michele Cometa sull’argomento[1].

Incrociando questo approccio biopoetico con gli importanti studi di metaforologia condotti intorno alla metà del Novecento da filosofi del calibro di Gaston Bachelard, Paul Ricoeur, Hans Blumenberg, Max Black ed altri, a me interessa soprattutto esplorare l’idea di una economia dell’immaginario e congetturarne le possibili mutazioni in una situazione di emergenza come quella attuale, dove la pressione dell’ambiente sul singolo si intensifica al punto di spostare le condizioni della selezione sociale verso quelle dell’esperimento eugenetico.

Nel quadro di riferimento qui sommariamente delineato, mi soffermerò in particolare sul topos della “penuria d’aria”, prendendo spunto da una antologia poetica appena uscita per i tipi di Samuele editore: Dal sottovuoto. Poesie assetate d’aria. Continua a leggere

Vittorio Sereni (1913 – 1983)

Vittorio Sereni

COMMENTO DI ALBERTO FRACCACRETA

A sette anni di distanza dalla pubblicazione sulla carta arancione degli «Oscar», le poesie e alcune prose scelte di Vittorio Sereni — con l’identica e puntuale curatela di Giulia Raboni — si ripresentano oggi nell’assetto raffinato degli «Oscar moderni Baobab», a sottolineare l’eccezionalità dell’aderenza lirica dell’autore luinese al panorama letterario italiano. Non soltanto un classico dunque, ma qualcosa di più: un poeta insradicabile dal paesaggio caducifoglie nella valle della letteratura contemporanea tra frutti ovoidali e semi reniformi. Poeta percorso da brucianti attese e da una reale quanto distillata urgenza comunicativa — sono quattro le sillogi edite, Frontiera (1941-1942), Diario d’Algeria (1947; 1965), Gli strumenti umani (1965; 1975) e Stella variabile (1981) —, Sereni è esattamente quello che ha dipinto Pier Vincenzo Mengaldo: personalità silenziosa ed estremamente consapevole in cui «l’uomo e il poeta facevano tutt’uno».

Noto per la sua «avara vena» («o quand’era in pantofole la sua stitichezza»), il luinese — almeno nella prima parte della sua carriera potentemente influenzato da Montale e dalle Occasioni — ha acquisito sempre di più un timbro riconoscibile di necessarietà compositiva da un lato (la cui «finitezza formale» è pari solo a Leopardi e Mallarmé) e di preponderante esercizio dell’incertezza dall’altro. Poeta del crogiuolo del dubbio non soltanto metafisico ma anche semplicemente pratico (nei riguardi del futuro, nelle incombenze della guerra o nell’umiltà della non partecipazione a troppo rigide posizioni), amante indiscusso del participio presente — e quindi legato all’asciuttezza dello stile nominale —, Sereni dà forse la prova più audace e tenace nell’intero Novecento di un io lirico definito proprio dai confini della sua indefinitezza: io quasi mai cangiante, per nulla istrionico e nemmeno iconoclasta (come il terzo Montale); altresì un io fedele alla propria povertà epistemologica, intriso d’improvvisi e transeunti lampi nella rivelazione del mondo esteriore, sempre elegante e generoso, eppure eroso dal senso di colpa della «vergogna della poesia». Peculiarità invero amabile di un «carattere evidentemente predisposto alla discussione di sé», come sottolinea Giulia Raboni, ci insegna il riserbo, il continuo ripensamento interiore dei propri fantasmi e la sublime arte (ascetica) di un perfezionamento soggettuale, sempre condotto in forme negative e antifrastiche («Ma ero/ io il trapassante, ero io,/ perplesso non propriamente amaro», In salita), e attraversato da lunghe discese infere (Un posto di vacanza). Scorrendo i titoli delle quattro sillogi sereniane si comprende questo progressivo indice di autoanalisi che va dalla frontiera dell’io alle puntute memorie diaristiche, dalla personalizzazione vivificante degli strumenti (oggetti di un’umanità desunta dal proprio imprevedibile passaggio epifanico) al barbugliare della stella variabile, emblema di un lucore apparente e mutabile nel tempo. Il cuore della poetica di Sereni — non esente da walseriane sirene uditive (Vaucluse, Luino-Luvinum) e martellanti iterazioni — risiede davvero in tale dislivello di conoscenza della caducità («non dire che la vita è carbonizzazione o divorzio», Lavori in corso) e flebile speranza d’altrove. Continua a leggere

La poeta gallese Gwyneth Lewis

Gwyneth Lewis

da Impronte, poesia gallese contemporanea, cura e traduzione di Giorgia Sensi, prefazione di Patrick McGuinness, Mobydick, 2007

A Poet’s Confession

“I did it. I killed my mother tongue.
I shouldn’t have left her
there on her own.
All I wanted was a bit of fun
with another body
but now that she’s gone –
it’s a terrible silence.

She was highly strung,
quite possibly jealous.
After all, I’m young
and she, the beauty,
had become a crone
despite all the surgery.

Could I have saved her?
made her feel at home?
Without her reproaches,
I feel so numb,
not free, as I’d thought…

Tell my lawyer to come.
Until he’s with me,
I’m keeping mum.”

Confessione di poeta

“L’ho fatto. Ho ucciso la mia lingua materna.
Non avrei dovuto lasciarla
là da sola.
Volevo solo divertirmi
con qualcun altro
ma ora che non c’è più –
è orribile il silenzio.

Era molto nervosa,
probabilmente gelosa.
Dopo tutto, io sono giovane
e lei, la bella,
era diventata una vecchia befana,
in barba ai ritocchi.

Avrei potuto salvarla?
metterla a suo agio?
Senza i suoi rimbrotti,
mi sento paralizzata,
non libera, come credevo…

Dite al mio avvocato di venire.
Finché non sarà qui, terrò
acqua in bocca.” Continua a leggere

Il poeta cileno Raúl Zurita

Raúl Zurita

Torturati

Niente non si sente niente se urlavano i torturati
dell’Unità 420 sotto il crepuscolo insanguinato nudi
tremando

Davanti ai moli che sembrano fluttuare nella sanguinante
aurora davanti alle stesse smantellate navi della baia
davanti allo stesso ferro di cavallo insanguinato
dell’oceano

Dove esistono solamente alcuni moli diroccati
e in fondo gli stessi detriti le stesse squadre
ammuffite gli stessi torturati nudi è che volevamo
sentirti dirigere le grandi mareggiate del Pacifico
dicevano quelli dell’Unità 420 a Ludwig Van Beethoven
che galleggiava allontanandosi immedesimato
estraneo verso la parte più inconfessabile del tramonto

(Traduzione di Alberto Marsala)

Torturados

Nada no se escucha nada se gritaban los torturados
de la Unidad 420 debajo del ensangrentado crepúsculo
desnudos temblando

Frente a los muelles que parecen flotar en la sangrante
aurora frente a los mismos desmantelados barcos de
la bahía frente a la misma herradura ensangrentada
del océano

Donde lo único que existe son unos derruidos molos y
al fondo los mismos escombros las mismas mohosas
escuadras los mismos torturados desnudos Es que
queríamos oírlo dirigir las grandes marejadas del
Pacífico le decían los de la Unidad 420 a Ludwig Van
Beethoven que flotaba alejándose ensimismado
extraño por la parte más inconfesable del atardecer

 

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Jackie Kay, “L’adozione”

Jackie Kay

A cura di Giorgia Sensi

Il tema del poemetto di Jackie Kay è autobiografico. Qui l’autrice rivive la sua esperienza attraverso una sequenza di monologhi intrecciati le cui voci principali sono quelle della madre naturale, della madre adottiva e della figlia di entrambe.

Ne L’adozione le tre voci sono distinte tipograficamente:
Figlia: corsivo
Madre adottiva: tondo
Madre naturale: grassetto

_______

I always wanted to give birth
do that incredible natural thing
that women do – I nearly broke down
when I heard I couldn’t,
and then my man said
well there’s always adoption
(we didn’t have test tubes and the rest then)
even in the earlysixties thre was
something scandalous about adopting,
telling the world your secret failure
bringing up an alien child,
who knew what it would turn out to be

I was pulled out with forceps
left a gash down my left cheek
four months inside a glass cot
but she came faithful
from Glasgow to Edinburgh
and peered through the glass
I must have felt somebody willing me to survive;
she would not pick another baby

I still have the baby photograph
I keep it in my bottom drawer

She is twenty-six today
my hair is grey

The skin around my neck is wrinkling
does she imagine me this way

Ho sempre voluto mettere al mondo un figlio
fare quella cosa naturale incredibile
che fanno le donne – ebbi quasi una crisi di nervi
quando seppi che non potevamo,
e allora il mio compagno disse
beh, c’è sempre l’adozione
(allora non c’erano bambini in provetta e tutto il resto)
persino nei primi anni Sessanta c’era
qualcosa di scandaloso nell’adozione,
dichiarare al mondo la tua segreta inadeguatezza
crescere il figlio di un altro,
chissà cosa sarebbe diventato

Fui estratta col forcipe
mi lasciò uno squarcio alla guancia sinistra
quatto mesi in un’incubatrice
ma lei venne regolarmente
da Glasgow a Edimburgo
e mi scrutava attraverso il verso
devo aver sentito una volontà che mi diceva di vivere;
non voleva saperne di un altro neonato

Ho ancora la fotografia della bambina
la tengo nell’ultimo cassetto

Oggi lei ha ventisei anni
io i capelli grigi

Il collo comincia as avvizzire
chissà se mi immagina così Continua a leggere

Jorge Luis Borges (1889 – 1986)

Jorge Luis Borges

El desierto

Antes de entrar en el desierto
los soldados bebieron largamente el agua de la cisterna.
Hierocles derramó en la tierra
el agua de su cántaro y dijo:
Si hemos de entrar en el desierto,
ya estoy en el desierto.
Si la sed va a abrasarme,
que ya me abrase.
Ésta es una parábola.
Antes de hundirme en el infierno
los lictores del dios me permitieron que mirara una rosa.
Esa rosa es ahora mi tormento
en el oscuro reino.
A un hombre lo dejó una mujer.
Resolvieron mentir un último encuentro.
El hombre dijo:
Si debo entrar en la soledad
ya estoy solo.
Si la sed va a abrasarme,
que ya me abrase.
Ésta es otra parábola.
Nadie en la tierra
tiene el valor de ser aquel hombre. Continua a leggere

Il mare e la scrittura

Giuseppe Conte

Note in margine a Non finirò di scrivere sul mare, Mondadori, Milano, 2019, di Giuseppe Conte)

di Marco Marangoni

Mentre stendo queste note, i giorni sono questi della pandemia 2020. Ci sentiamo improvvisamente più fragili. Ed è presa di coscienza, questa, tragica anche se necessaria, dal momento che ci costringe seriamente a considerare quel fondo senza fondo che è la natura e che come tale avevamo troppo facilmente adombrato o rimosso.

E mentre così una forza imponderabile ci sovviene, quasi tornasse a farsi presente l’antico e lo straniante, sono proprio le parole dei poeti, solitamente neglette, che ci possono offrire un orientamento. Viene però da domandarsi, con Hölderlin, se questo non accada per il fatto che è sempre difronte al pericolo che sopravviene ciò che salva.

Certo è che, in un tale orizzonte di considerazioni, la poesia di Giuseppe Conte si mostra ospitale e necessaria, e tanto più in questo ultimo libro. E converrà leggerlo, data la sua stilistica consistenza, in rapporto al background che lo sostiene. Si dovrà partire almeno da un sentimento abbandonato dell’esserci, che ha nutrito i suoi versi fin dagli inizi; e da lì comprendere quello sbocco a “fonti romantiche e simboliste” (Marco Forti) per cui nel ‘76 Luciano Anceschi ebbe a parlare di “un fluire autre nella riconquista del desiderio”, nonché del “diritto di essere deboli con gioia”. Continua a leggere

Jericho Brown, Premio Pulitzer 2020

Jericho Brown, ritratto a Civitella Ranieri

di Alberto Fraccacreta

Il Premio Pulitzer 2020 per la poesia quest’anno va all’autore afroamericano Jericho Brown, classe 1976, originario del Louisiana, per la silloge The Tradition (Copper Canyon Press 2019), terzo lavoro dopo Please (New Issues Poetry & Prose 2009) e The New Testament (Copper Canyon Press 2014).

La motivazione presentata dagli accademici della Columbia University è la seguente: «Una raccolta di testi magistrali che uniscono delicatezza a urgenza storica nella loro amorevole evocazione di corpi vulnerabili all’ostilità e alla violenza».

The Tradition è infatti un libro che tenta di scovare la bellezza nonostante la velenosità del male, illustrato da Brown nei suoi aspetti più minuti, privi di autocompiacimento e seccamente scolpiti sulla pagina: una poesia civile, senza rinunciare per questo a lancinanti quanto astuti slanci emotivi (è stato definito «poeta dell’eros»), legata all’assurda assuefazione della nostra epoca al terrore tra omicidi, sparatorie, soprusi e abusi. Continua a leggere

Forrest Gander e l’ecopoesia

Forrest Gander

Forrest Gander, nato in California nel 1956, ha ricevuto il Premio Pulitzer per la poesia nel 2019 con la silloge Be With (New Directions 2018), dedicata alla recente scomparsa della moglie, [n.d.r. la poeta Carolyn D. Wright]. Traduttore, saggista e professore emerito di Letterature comparate alla Brown University, Gander è tra i massimi esponenti della cosiddetta ecopoetry, una delle più recenti frontiere della ricerca poetica legata ai problemi ecologici e ambientali, e contraddistinta da una solida teoresi filosofica e da un forte impegno politico. Il saggio che qui si presenta in anteprima per il lettore italiano è tratto dal libro Redstart: An Ecological Poetics, a cura di Forrest Gander e John Kinsella, Iowa University Press. Oggi, in serata, saranno annunciati i vincitori dei Pulitzer Prizes 2020.

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Introduzione all’ecopoesia

di Forrest Gander

 

Il termine ecopoesia ha assunto una vasta gamma di connotazioni. Tra queste: un insieme variabile di strategie tecniche e concettuali per la scrittura durante un periodo di crisi ecologica. Tali strategie (che assomigliano molto alle innovative strategie poetiche sostenute negli ultimi cento anni) spesso affermano di aver dato inizio:

 

  1. a una disarticolazione dell’agire egocentrato;
  2. a una posizione di autoriflessività (in modo che, ad esempio, si dice che la poesia abbia origine non all’interno del sé ma all’interno del paesaggio cui appartiene);
  3. a un rifiuto, come scrive il poeta australiano Stuart Cooke, di qualsiasi tentativo di «radunare il mondo in una sorta di unità e permanenza» a favore di un «incontro» segnato da «fluttuazioni entropiche». I testi ecopoetici sono talvolta descritti come «testi aperti»;
  4. a una rigorosa attenzione nei confronti del pattern;
  5. a un riorientamento dell’oggettività verso l’intersoggettività.

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La materia frangibile del ricordo

Stefano Pini

Su MANDATO A MEMORIA di Stefano Pini
Nota di lettura di Alessandro Bellasio

Sospeso tra rievocazione e divieto, tra reviviscenza e perdita, il nuovo libro di Stefano Pini ci conduce in quel luogo impraticabile e familiare, vicinissimo eppure inaccessibile, che è il ricordo. Mandato a memoria (Interlinea, 2019) imbastisce un fitto dialogo con le ombre, ombre delle persone ma anche ombre dei luoghi, delle cose, una lunga incursione nei territori del passato la cui prerogativa – come vuole la citazione di Faulkner posta dall’autore in esergo alla silloge – è quella di non essere mai davvero tale. Esso alimenta e configura il nostro presente, ma lo fa anzitutto sottraendovisi: ellissi repentine, vicoli senza uscita e strade improvvisamente sbarrate si susseguono nella raccolta di Pini, in cui il non detto svolge un ruolo forse ancor più determinante di ciò che invece perviene alla parola.

Qui il silenzio è decisivo, permea di sé uomini e vie, attraversa le esistenze e guida segretamente gli incontri. Un silenzio da non intendersi, tuttavia, come reticenza o omissione, bensì come confine invalicabile dietro il quale sta l’essenza inviolabile delle cose, e della parola stessa. Un confine che non può, non deve essere oltrepassato, perché è proprio il suo perimetro a proteggere la memoria e la fragile sostanza di cui si compone: un solo ulteriore tentativo di precisarne i contorni farebbe svanire tutto come per eccesso di luce. Il libro di Stefano Pini è un libro di penombra, di chiaroscuro, sorretto da una peculiare oculatezza del vedere e del dire, che sa riconoscere l’interdetto e circoscrivere il sottratto. Proprio da questo moto di sottrazione provengono le ingiunzioni a «non chiamare», a «non parlare», di uno dei testi iniziali: ogni gesto scomposto potrebbe compromettere la materia infinitamente perturbabile, frangibile della memoria. Proprio tale eccesso costituirebbe l’infrazione, la colpa da riscattare, qualora avvenisse. «Proviamo insieme | la memoria chiusa da perdonare | nel livido per tutto questo tempo». «Ogni corsa dovrebbe essere muta | tra i rami, non eludere, non sapere».

Attenzione e ascolto, silenzio e attesa: sono queste le dimensioni entro cui esplorare l’edificio interiore, nel raccoglimento. Dal quale guizza poi d’un tratto il particolare decisivo, la frase indelebile, il gesto irreparabile o prodigioso cui ciascuno è vincolato per sempre: sarà il lettore a ricostruire l’accadimento, la situazione d’insieme, in base alle poche pennellate suggerite dall’autore.

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Simon Armitage, poesia sul Covid-19

Simon Armitage on August 9, 2014 in Edinburgh, Scotland.

Luca Guerneri traduce e commenta una poesia del poeta inglese Simon Armitage uscita sul quotidiano The Guardian il 21 Marzo 2020.

 

Lockdown, Simon Armitage

And I couldn’t escape the waking dream
of infected fleas

in the warp and weft of soggy cloth
by the tailor’s hearth

in ye olde Eyam.
Then couldn’t un-see

the Boundary Stone,
that cock-eyed dice with its six dark holes,

thimbles brimming with vinegar wine
purging the plagued coins.

Which brought to mind the sorry story
of Emmott Syddall and Rowland Torre,

star-crossed lovers on either side
of the quarantine line

whose wordless courtship spanned the river
till she came no longer.

But slept again,
and dreamt this time

of the exiled yaksha sending word
to his lost wife on a passing cloud,

a cloud that followed an earthly map
of camel trails and cattle tracks,

streams like necklaces,
fan-tailed peacocks, painted elephants,

embroidered bedspreads
of meadows and hedges,

bamboo forests and snow-hatted peaks,
waterfalls, creeks,

the hieroglyphs of wide-winged cranes
and the glistening lotus flower after rain,

the air
hypnotically see-through, rare,

the journey a ponderous one at times, long and slow
but necessarily so.

 

 

Lockdown, Simon Armitage

 

E fu impossibile sfuggire il sogno in veglia
di pulci infettate

tra la trama e l’ordito della stoffa pregna
accanto al focolare del sarto

nella cara vecchia Eyam.
Poi fu impossibile non vedere

La Pietra di Confine,
un dado sghembo con sei fori bui,

ditali ricolmi di aceto di vino
per purificare le monete appestate. Continua a leggere