Luigia Sorrentino /credits ph. Fabrizio Fantoni
Naufragio con spettatore: Luigia Sorrentino, Piazzale senza nome, Pordenonelegge-Samuele Editore, 2021.
di Giuseppe Martella
Piazzale senza nome segna una svolta nella poesia di Luigia Sorrentino, offrendoci al contempo una spassionata testimonianza della condizione umana e una riflessione in sottotraccia sulla parola poetica, nella sua duplice funzione, inaugurale e testimoniale, nell’attuale tempo del disamore e del disincanto del mondo, del narcisismo e della solitudine di massa ormai giunti a un punto di non ritorno. Il dettato secco, febbrile, verticale procede per affondi e frammenti, scoprendo i vari livelli di lettura possibili e mimando l’esplosione della forma (d’arte e di vita) nell’attuale spazio dei flussi di informazioni, capitali e merci, in questa nostra tarda modernità liquida. Il testo possiede dunque una implicita valenza politica ed ecologica, mettendo in scena in modo solidale il declino dell’autorità e della fiducia, insieme alla sofferenza della madre terra sulla soglia del disastro ambientale.
Questo tema della sofferenza tellurica, è stato peraltro una costante della poesia di Sorrentino da La Nascita, solo la nascita (2009) a Olimpia (2013), richiamandosi al mito cosmogonico di Rea cui lo sposo, Crono, ingoiava i figli lasciandola in uno stato di lutto permanente. Tale mito ci riporta dunque anche alla situazione di tempo fermo, passato che non passa, chiusura d’orizzonte che caratterizza il presente allargato dell’attuale globalizzazione e il “tempo reale” degli scambi su internet, che appare così come la odierna incarnazione della rete di Ananke. Perché la poesia di Sorrentino si è da sempre mossa in uno spazio intermedio fra la cronaca e il mito, solo che ora qui avviene una sorta di ribaltamento gestaltico, sicché il mito recede sullo sfondo mentre la cronaca balza in primo piano. Si tratta di una cronaca scheletrica, a forti tinte e contrasti, in bianco e nero, come fosse una radiografia impietosa delle malattie del nostro tempo.
La dedica al padre e l’epigrafe da Plutarco (“La morte dei vecchi è come un approdare al porto, ma la morte dei giovani è una perdita, un naufragio.”) ci offrono dall’inizio le coordinate di lettura del testo, introducendo il suo topos fondante: quello del “naufragio con spettatore”, tratto dalla ben nota immagine lucreziana dell’uomo che da sopra una roccia guarda con distacco e quasi con compiacimento una nave che sta per affondare al largo nei flutti, fungendo da metafora dell’atarassia del saggio epicureo a fronte delle tempeste della vita. La storia di questa metafora ha segnato le varie epoche della letteratura occidentale, assumendo sempre nuove connotazioni, fino al ribaltamento secco che subisce ad opera di Pascal, il quale afferma che ci troviamo tutti sulla stessa nave e che perciò nessuno può chiamarsi fuori dal suo possibile naufragio, sicché occorre accettare l’infinita scommessa della fede e della compassione. Questa storia è stata esplorata egregiamente nel secondo Novecento da Hans Blumenberg, dove però a quanto mi consta non figura la tappa precoce ivi segnata da Plutarco, che assegna, tra i morenti, ai vecchi il ruolo di spettatori e ai giovani quello di naufraghi. Non più dunque il saggio epicureo ma il vecchio navigato riassume la prospettiva teoretica, il ruolo di spettatore (theoros) a fronte dei giovani naufraghi, attori della tragedia dell’esistenza. Si tratta perciò di una declinazione importante di questa figura epocale, che nel nostro testo viene evocata e messa a frutto come seme generativo, a fondamento dell’intera fenomenologia della violenza che ne innerva forme e contenuti.
Un altro topos letterario avito qui richiamato con profitto è quello del “giardino”, hortus conclusus, spazio chiuso e ordinato, contrapposto ai luoghi aperti e anonimi che verranno visitati in seguito. E il padre, in punto di essere seppellito, apparirà infatti alla fine del poema in guisa di Giardiniere, custode dello spazio familiare (Oikos), dell’ordine e della bellezza che fanno scudo all’anomia generale. Il padre morente, figura dell’autorità in dissolvenza, viene però già dall’inizio connotato come “capra sgozzata” (13), evocando così la terza grande figura che presiede all’ordinamento poetico del testo, quella del capro espiatorio su cui si scaricano la violenza e il conflitto delle comunità umane. Questo ruolo di capro espiatorio tocca indifferentemente a vecchi e giovani, così come appare subito nella prima parte in prosa del nostro testo, nell’alternanza di campo e controcampo che caratterizza le loro morti parallele.
Questo testo è infatti un prosimetro dove le sezioni in prosa fungono da vere e proprie sceneggiature preparatorie della drammaturgia in versi che seguirà, ossia da scenari per gli atti di questa tragedia degli anonimi e dei perdenti. Come ci avverte il titolo infatti, quello dell’anonimato è il tema centrale della silloge ed è connesso alla remota possibilità della donazione dei nomi. Funzione squisitamente poetica che si profila man mano nel corso del testo, specialmente a partire dalla lirica intitolata “Nunzia”, “la ragazza dal volto antico” (52) vittima di uno stupro, che reca nel nome la speranza di un annuncio salvifico che andrà di qui in avanti concretizzandosi in figure successive come quella dell’Eroina (martire della droga) dai capelli biondi che ha “ceduto la vita alla gioia”. (61) Sono figure che si possono tutte ricondurre a quella mitica della fanciulla divina (Kore), la cui prima incarnazione è quella di Persefone rapita da Ade e fatta regina degli inferi, mentre la seconda è quella di Euridice che ivi sprofonda nel ben noto mito di Orfeo. Entrambe sono state figure centrali di Olimpia, a conferma della continuità dell’opera di Sorrentino, pure nella svolta netta che assume in Piazzale senza nome. Continua a leggere→