di Alberto Bertoni
Una delle raccolte poetiche più riuscite di Franco Loi, Liber (Garzanti, 1988), ha un titolo dal significato duplice: in milanese vale infatti Libro e Libero. Non è un caso, perché entrambe le accezioni fissano due elementi importanti, per definire l’essenza profonda della scrittura di Loi. Autore di libri tutti ben strutturati e memorabili, dall’iniziale Stròlegh, Astrologo, del 1975, fino a l’Angel de aria (Nino Aragno, 2011), Loi è stato anche il cantore inesausto del diritto assoluto a quella libertà di pensiero, azione, percezione che oggi viene messa così tanto in pericolo. Naturalmente non è un caso che il veicolo simbolico di questo afflato alla libertà sia l’aria, alla quale è intitolata anche l’autoantologia che raccoglie il meglio della sua produzione poetica e che è oggi il suo libro più facilmente rintracciabile, Aria de la memoria. Poesie scelte 1973-2002 (Einaudi, 2005).
Poeta insieme popolare e cólto, com’è proprio di tutti i veri grandi (Dante e Leopardi in primis), Loi incarna per ora l’apice ultimo di una tradizione letteraria milanese che ha avuto nell’ottocentesco Carlo Porta e nel novecentesco Delio Tessa gli altri due vertici. Dire autore neodialettale sembra adesso del tutto naturale, ma non lo è stato fino al 1972, quando due poeti che erano anche importanti sceneggiatori cinematografici, Tonino Guerra e Cesare Zavattini, pubblicarono due libri – il primo in santarcangiolese, il secondo in luzzarese – che sdoganarono la poesia in dialetto, da lunghi decenni chiusa nel recinto ristretto di una produzione folklorica di basso profilo. Il fatto che tale rilancio sia venuto da due autori legati al cinema non è casuale, poiché i dialetti non hanno mai perduto la loro visionarietà anche onirica e quella risonanza felicemente o drammaticamente istintiva che ne hanno fatto lungo l’arco della storia d’Italia le lingue della comunicazione più intima e diretta.
Sulla scia di Guerra e Zavattini, hanno svelato a quel punto la loro presenza e la loro inventività poeti di alto o altissimo livello come i romagnoli Baldini e Baldassari, il ligure Bertolani, il friulano Giacomini, il marchigiano Scataglini, il siciliano De Vita, fino appunto a Franco Loi.
La vicenda di Loi, fra l’altro, è singolare, perché lui nasce a Genova nel ’30 da padre sardo e madre colornese, dunque emiliana. Giunge a Milano a sette anni e l’apprendimento del dialetto diventa una necessità comunicativa con i compagni di lavoro, prima di trasformarsi in lingua di poesia. Ciò dimostra una volta per tutte che il dialetto non è un codice sovrastorico o – peggio – trascendente ma è strumento invece storico e linguistico: tanto è vero che la produzione degli ottimi poeti appena nominati è di livello eccezionale tanto nella versione dialettale quanto nella traduzione in italiano. Proprio Loi e Baldini, in questa chiave, eccellono fra gli eccellenti, coinvolgendo il lettore non dialettofono prima in italiano, per attirarlo solo in un secondo tempo nell’originaria forma dialettale: ben lieti a questo punto i lettori di intonare fra sé e sé quella vera e propria partitura musicale che è il testo di partenza. Proprio qui risiede la ragione dell’attualità di Franco Loi poeta, straordinario performer di se stesso nelle letture pubbliche dei suoi versi, per affabilità innata e istinto comunicativo. Loi è stato infatti uno dei primi a fare dell’oralità, che oggi è la vera cifra costitutiva della poesia, un punto di forza e non di debolezza della sua fisionomia di autore.
E tutte le volte che ho avuto la fortuna di ascoltarlo sono uscito dalla sala stregato dalla sua capacità d’impartire una lezione di poesia senza farsene accorgere, ammaliando gli ascoltatori in una specie d’incanto emotivo. Non a caso, il secondo libro poetico di Loi – forse il suo più bello – si intitola Teàter (1978), mentre L’angel (Mondadori, 1993) è un poema-romanzo. Com’è facile intuire, sono opere del tutto antiliriche, dove non è protagonista un io, ma il noi e il loro di una società e dunque il punto di vista antropologico di un sentire condiviso.
Da un punto di vista ideologico, Loi è passato dall’adesione comunista dei primi tempi alla ricerca costante di Dio che gli è stata propria degli ultimi decenni, ma in primo piano egli ha collocato sempre l’esperienza della poesia in rapporto alla vita. Basta aprire la sua memorabile autobiografia, Da bambino il cielo (Garzanti, 2010), che oggi dev’essere assunta come un testamento spirituale. Lì Loi afferma senza tema di smentita che “i momenti di adesione totale alla vita rappresentano qualcosa che sfugge a ogni teoria, sia essa materialista o idealista o spiritualista, all’ideologia come alla teologia.” Certo, alla fine, tutto è instabile, nell’esperienza umana e tutto è destinato a sciogliersi nell’aria: “Quan’ ch’èm capî, nüm gh’èm avü paüra/ de l’aria che la sbatt nel nient di òmm.”, vale a dire “Quando abbiamo capito, abbiamo avuto paura/ dell’aria che sbatte nel niente degli uomini.”