Avevamo pubblicato in Anteprima Editoriale, il 10 giugno 2020 all’interno del progetto Catena Umana/ Human Chain la poesia inedita di Milo De Angelis, Nemini, che apre la sua nuova raccolta di versi, Linea intera, linea spezzata (Mondadori, 2021) uscita oggi, 26 gennaio in tutte le librerie italiane.
Ci sembra giusto proporre adesso la poesia che chiude il libro, Il penultimo discorso di Daniele Zanin, un canto a una sola voce, una monodia, sul senso della vita e sulla decisione di abbandonarla.
(Luigia Sorrentino)
IL PENULTIMO DISCORSO DI DANIELE ZANIN Le antenne si muovono nel vento il corpo ondeggia ma è deciso a pronunciare ad alta voce le sue accuse. E tutto il quartiere, con il fiato sospeso, scruta quel ragazzo alto e magro in piedi sul tetto, con il golf bianco e le dita coperte di farina. Ognuno attende la sentenza. Ognuno affonda nel mistero di se stesso e guarda in alto, non sa dove si trova esattamente ma sa che quelle parole sono per lui e lui, mentre ascolta, le sta pronunciando. “Mi chiamo Daniele e ho pensato seriamente alla vita. La vita ed io siamo state due creature che si accusavano a vicenda, finché un’energia furiosa ci ha spinti l’una contro l’altro e ho cominciato a vedere l’altra faccia di ogni foglio, ho cominciato a nuotare nei laghi del tramonto e ora sono qui con gli occhi forati e le lacrime di piombo e vi ho chiamati ogni mattina, vi ho chiamati uno per uno per nome e per cognome finché non vi ho più visti e cominciò questo mio sempre di ore deserte e istanti morti.” “State attenti, tutti voi, perché non parlerò due volte. Sono nato alla fine di una festa, al Gallaratese, quando la bocciofila restò senza luce e tutti se ne andarono. Gridai che era tardi, ed era tardi. La musica delle sfere precipitò in una zattera, il mio pianto ammutolì e allagò tutta la vita, mi divisi per sempre da me stesso, persi la mano della fata e a tutti voi scagliai in faccia il mio sacchetto di canditi.” “Nella vasca dove entrai un pomeriggio vidi la fine separata dal suo inizio, vidi le prime crepe del sorriso e divenni un istante ossidato, una mezza notizia che nessuno raccoglie, vidi la follia disegnata sulle mie unghie, vidi per la prima volta i miei amati cavalli fermi in una giostra di pietra, mi aggiravo tra spigoli di buio, avevo un piede immerso nella calce, studiavo i libri degli antichi e dei moderni, riempivo la cucina di appunti e foglietti. Poi l’artiglio di un gattino grigio lacerò tutto il pensiero di Hegel.” “Cominciai a vedere nelle lampadine spente il viso di mio padre, cominciai con la mia cannuccia a succhiare veleno, mi immersi nell’acqua passata e apparve l’ombra dei lupi, entrò come un arpione nella bocca, mi tolse la parola: sentivo le urla dei pazzi in una culla di catrame finché di colpo appassì l’ibisco e mi accorsi che ormai da sette giorni sotto il mio cuscino dormiva la morte.”
DALLA QUARTA DI COPERTINA
Figura tra le più rilevanti e apprezzate nella poesia, non solo italiana, di questi decenni, Milo De Angelis torna con un’opera che ne conferma e ne accresce il carattere specifico e l’imprescindibile valore.
Il poeta ci conduce attraverso la pervasiva tensione delle sue esplorazioni, ci racconta dei fantasmi che affiorano dalla memoria, a volte ingannevolmente dolci ma ben più spesso sinistri. Fantasmi provenienti da zone remote, a partire dall’«oceano dell’infanzia», assorbiti in un presente che ne rispecchia un forte senso inquieto di solitudine e silenzio.
Prevale l’ambientazione in una realtà urbana con i suoi concreti dettagli, dove l’io lirico compie viaggi notturni, tra autobus, supermercati o sale cinematografiche, «nel dedalo/delle piccole convulsioni» di una quotidianità opaca. La narrazione che ne scaturisce è ricca di figure e personaggi, nello squallore di «un male senza origine»; l’atmosfera è quella di un perenne esilio, pur con improvvisi, rapidi squarci di una luce viva per quanto molto effimera, in quadri di sapore a volte onirico.
Circola dunque, in Linea intera, linea spezzata, la presenza costante del ricordo, sempre attivo e formicolante nelle sue briciole più indelebili, nelle sue molteplici immagini, misteriosamente capaci di oltrepassare se stesse. E insieme si manifesta con vibrazioni inattese tanta “prosa”, qui opportunamente giostrata in una versificazione aperta, duttile, che ne modifica i contorni con una capacità immediata di coinvolgimento comunicativo.
Un percorso, quello di questo libro, articolato e insieme unitario, che si impone nella sobrietà cupamente orizzontale delle emozionanti parti che precedono – spesso anticipandola nei toni – quella verticalità vibrante e tagliente in profondo che si delinea nel decisivo capitolo finale.
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