La poesia di Gabriele Galloni

Gabriele Galloni

L’arte del montaggio: Gabriele Galloni, Creatura breve, Ensemble, 2018
di Giuseppe Martella

 

Per comprendere a fondo la poesia di Gabriele Galloni, è bene tenere a mente le preziose indicazioni che egli ci ha offerto in diverse occasioni, a partire dall’intervista concessa a Michele Paoletti su Laboratori di poesia, dove, alla domanda su come nascano le sue poesie, risponde: “Di solito parto da un’immagine, un fotogramma di vicenda, una situazione – la narrativa non mi abbandona mai. Cerco di misurare e limare quello che voglio dire; lo costringo nella melodia della metrica, che mi permette di consumare il consumabile nel modo migliore possibile – cioè puntando all’essenziale e senza sprechi linguistici. Altre volte invece mi visita improvviso un verso, undici sillabe perfette, e da lì continuo sviluppando o riducendo, mutilando.” Questa bipolarità caratteristica della inventio di Gabriele è un indizio di un più decisivo dualismo che caratterizza la sua poetica: quello fra immagine e parola, che si manifesta poi con diverse modalità e a diversi livelli nei suoi vari testi. Come se fra l’ordine verbale (più pacato e tradizionale) e quello iconico (più convulso e sovversivo) corresse una continua tensione, irriducibile all’unità di un solo codice. Si tratta di un dialogismo radicale che non riguarda solo o tanto l’ambito dei generi letterari, coinvolgendo invece i vari media della espressione artistica, come se i suoi versi costituissero nel contempo gli appunti di una sceneggiatura cinematografica in fieri.

Le sue poesie nascono dunque da una istantanea che contiene un nucleo narrativo che poi si sgrana nel rosario dei versi da cui attinge da un lato la misura e dall’altro la possibilità della messa a fuoco di qualche dettaglio, nel gioco degli stacchi e dei controcampi, proprio come nell’esercizio del montaggio cinematografico. In questo duplice movimento si realizza in senso tecnico quella tensione fra discorso e figura, o fra vita e forma, che anima da un lato il testo artistico e dall’altro la creatura vivente, per quanto breve sia il tempo della sua esposizione allo sguardo altrui. E’ ciò che io chiamo poetica del foto-gramma intendendo con ciò la resa (o l’arrendersi) dell’istantanea nella traccia chirografica e nella gabbia del verso. Non si tratta dunque solo della traduzione dell’immagine viva in segni inerti, didascalie della vita, ma anche della tensione irrisolta fra due tipi di segno, l’icona e il simbolo, come se fossero entrati in un vortice gravitazionale che conduce a uno stravolgimento dello spazio-tempo del discorso: come nel vertice di una clessidra, o spirale di un passaggio epocale, doppia elica che segna il fissarsi di una traccia (treccia) nel DNA dell’esserci qui ed ora della “creatura breve”. Del Fanciullo Divino, il poeta millennial, scrittore ed editor di immagini, che si cala nella sua cesura epocale, giocando ai limiti della trasparenza dove ogni ritocco è a rischio di cancellazione.

Poetica del fotogramma, intesa poi anche nel senso proprio della istantanea predisposta al montaggio cinematografico o digitale, ma pertanto sempre esposta al rischio di essere scartata dalla versione finale del film, per diventare appunto un out take, come recita il titolo della prima lirica di questa silloge che ci dà la chiave per l’interpretazione di tutta la produzione di Galloni, che obbedisce a una poetica del ritaglio e del prelievo, del ritocco e della cancellazione, operando sulla soglia che distingue l’epoca della rappresentazione da quella della simulazione e la civiltà letteraria da quella digitale, fondendo l’ontologia dell’icona con quella del simbolo. Perché qui si tratta di un montaggio anomalo, spurio, che coniuga immagini e parole senza risolverne il dissidio, mantenendole in una esitazione prolungata che complica di fatto quella canonica fra suono e senso, caratteristica di tutta la poesia. La complica assumendola come un’eredità defunta, da un lato, e dall’altro consegnandola all’interazione con l’immagine-movimento, così come i nostri trapassati sono “le didascalie del mondo” e “l’indicibile/ della conversazione” e la loro musica “il contrappunto/ dei passi sulla terra”, per usare immagini tratte dalla silloge precedente che pone tra l’altro anche una domanda cruciale sul destino della creatura breve e della sua traccia, del singolo e della specie umana.

I due testi sono infatti intimamente connessi nella loro struttura radicale, al di qua della tematica stessa. Se insieme a Slittamenti e a In che luce cadranno questa Creatura breve è infatti terza di una trilogia, bisogna precisare però che si tratta della costola di una costola, dal momento che Slittamenti costituisce il repertorio tematico-strutturale da cui viene poi estratta ed espansa la pantomima dei morti viventi, di cui a sua volta Creatura breve costituisce un ritaglio che ne espande certi dettagli, mostrando scorci inediti e sorprendenti. Si tratta dunque a mio avviso di un’opera cruciale nella breve carriera di Galloni, come uno spasma rivelatore del “poco tempo concesso all’autore”[1], perché qui raggiungiamo il massimo della contrazione del discorso e le sue figure raggiungono la massa critica, scomponendosi in gesti spasmodici che preparano il Big Bang, quella loro dissoluzione in atmosfera che si attuerà mirabilmente nell’Estate del mondo. Se è vero infatti che qui si interroga la natura della brevitas letteraria in quanto tale, sondando i limiti dell’aforisma e dell’epigramma in quanto forme di chiusura del senso nello spazio chirografico, tali limiti si sfumano e sfrangiano poi nel rinvio all’immagine, nel passaggio di genere dal racconto alla sceneggiatura, nella mutazione funzionale della scrittura dal momento che è divenuta un pretesto di quel racconto per immagini che è il film e più in generale di tutte le composizioni audiovisive che gli hanno fatto seguito. Di queste mutazioni Creatura a breve reca una traccia da non sottovalutare perché, se in una prospettiva puramente letteraria questa silloge è probabilmente la meno riuscita della triade, nella dimensione intermediale in cui effettivamente opera essa è assolutamente rivelatrice della poetica di Galloni, in quanto nuovo paradigma in cui comprendere la poesia dei millennials. In questa prospettiva essa dischiude anche la bellezza e il valore di una serie di gemme in sottotraccia, perché il terreno di questo discorso porta le crepe, i segni di un terremoto metafisico. Si osservi infatti la struttura frattale dell’opera intera di Galloni, di cui ogni parte riprende il disegno dell’intero come in un effetto zoom in cui affiorano particolari imprevisti, veri e propri annunci angelici icasticamente e perversamente condensati per esempio nello sperma che l’angelo pazzo e muto depone in bocca alla Vergine o alla Beatrice di turno (8.) Messaggio in codice genetico (16), fenotipica torsione di ogni progetto esistenziale o storico, nonché dell’intero genere della profezia biblica, mutazione della parola incarnata (poetica o evangelica) in quanto testimonianza dell’offerta del Creatore che si fa creatura, e più in generale del sacrificio del capro espiatorio di turno (parte maledetta e pietra angolare di ogni comunità immaginabile) e della sua trasfigurazione nel Dio di un popolo. O si prenda per l’appunto il tema dei “morti viventi”, prelevato di peso dalla raccolta precedente e messo subito a fuoco e a soqquadro all’inizio di questa silloge, come scarto di montaggio, Outtake recuperato, messo in rilievo e riassunto in una immagine folgorante che coniuga il destino della eredità culturale con quello della speculazione, affondando nel medesimo naufragio il retaggio della civiltà letteraria e l’atto della sua rappresentazione: “I morti naufragano negli specchi.” (7) Da cui emergono poi, nello spazio della simulazione intermediale, squisiti e blasfemi, osceni e perversi, gli ologrammi della nuda vita. Naufragio epocale alla presenza di una divinità interdetta e ammutolita, nel vortice di angeli ed annunci che segna il nuovo gioco del mondo: “Giocammo a ciò che ci sembrava/ essere il gioco giocato dagli angeli -/ ma Lui non potrebbe mai dirvelo.” (9)

E qui si innesta il tema nuovo del gioco innocente e letale del Fanciullo Divino, Dioniso che si guarda allo specchio che una nutrice gli regge, assistendo al proprio smembramento rituale da parte dei Titani (numi di una generazione precedente), figura del sorgere della coscienza primigenia dal distacco traumatico dell’essere tutt’uno con la propria madre. Mentre tra le righe si svolge una sorta di nuova escatologia del sottotraccia, della pantomima e della cancellazione (“Su questa terra secca che si sbriciola/ a ogni minima impronta di passaggio/ vivente; a dirci che un nuovo passaggio/ (sia pure lontanissimo) è possibile”: 11), che assume poi tutta una serie di pose e di profili diabolici in una vera e propria perversione della storia sacra nel suo blasfemo riassunto catechistico. Così il dio giovane, servo e signore, appare nella sua impronta fetale, insensatamente gettato nell’aperto (“vivo senza soluzione”: 10), sovraesposto (“fotografia sovraesposta di Dio”: 36), intento ai propri giochi “infantili” di collezionista ed editor dell’ipertesto del mondo (“Colleziona le foto dei suoi amici./ Le nasconde tra i giochi o nei quaderni/ scarabocchiati della primavera./ Oltre seicento polaroid e tutto/ il suo mistero è nel modo in cui dorme.”: 12). Dove il tema del gioco si innesta su quello del sonno/sogno della raccolta precedente a caratterizzare la figura del poeta, fanciullo divino che giocando sogna il mondo. Rinviandoci all’archetipo di Dioniso bambino, circondato dai suoi giocattoli: trottola, palla, dadi, marionette, tutti riflessi nello specchio in cui egli si vede circondato dai Titani, pronto al sacrificio dell’essere nella coscienza incipiente. Perché Dioniso è il poeta del mondo, il dio avvenire, il capro espiatorio, sempre in attesa di smembramento e ricomposizione, nei cicli di morte e rinascita, nei passaggi epocali. E’ la muta carne i cui tormenti sottendono le belle immagini di sogno apollinee. E’ il corpo del martire eletto che incarna la coscienza di un’epoca: “Volle provare la dissoluzione/ della carne. Provarla con coscienza./ Rendersi terra fertile, ma senza/ morire; vivo senza soluzione.” (10)

Il dramma di Dioniso allo specchio è la scena madre di ogni teatro del mondo, la superficie senza fondo, lo schermo dell’iniziazione, il limite della rappresentazione che, come il primo dei giochi a perdere, nel rilancio infinito del dono e dello spreco, istituisce ogni comunità come una ferita inferta al sé infantile, al corpo unico di madre e figlio. Così lo specchio fa tutt’uno con la lama che trae la coscienza dall’essere, il molteplice dall’uno. Il gioco di Dioniso esprime l’indicibile violenza di ogni inizio e suoi giocattoli sono simboli di ogni tipo di gioco del mondo: di competizione e cooperazione, vertigine e azzardo, raccolti nella cornice del rispecchiamento. Così il dio giovane, poeta cosmico, si rappresenta all’alba della nuova creazione. Solo che nel nostro caso, allo specchio andrebbe quantomeno aggiunto uno smartphone, che piuttosto che restituire l’immagine, la produce, ritocca o cancella, nel reticolo mediale (nuova rete di Ananche), nella comunità virtuale dei social: per segnare il passaggio dall’epoca della rappresentazione a quella della simulazione. In Creatura breve infatti a partire dal titolo e poi da quello della prima lirica “Outtake”, Galloni mette a punto e a tema la propria poetica del prelievo e del montaggio, e definisce il proprio spazio artistico come spazio trans letterario e intermediale. Si getta alle spalle la “tradizione lirica” come qualcosa di acquisito e dislocato, proiettando la bidimensionalità della scrittura nello spazio tridimensionale dell’editing cinematografico o digitale. Infine, come accennato, sottopone la stessa nozione di brevitas a una torsione radicale, aprendo la concisione dell’aforisma e dell’epigramma agli effetti speciali del videogioco e del videoclip. Stana così i fantasmi parentali dell’inconscio culturale e li getta sotto la luce cruda dei riflettori e lo sguardo osceno delle “videocamere di servizio”, sottoponendo a uno stress psicotecnico ogni tipo di filiazione, come nella scena in cui il Fanciullo Divino appare oscenamente come l’ultimo degli ultimi, il paria, “il bambino moro/ scopato in bocca e in culo da due uomini/ in un fiorito giardino andaluso./       Tuo padre, dietro il portone socchiuso.” (38) Si consuma così definitivamente, in un cocktail di pedofilia, oscenità e voyerismo, l’eredità della lirica.                                                                                                                                                      Se non si coglie questo risvolto tecno-archetipico dell’arte di Galloni, la ricezione di questa sua Creatura breve può risultare anch’essa oscenamente violentata, perché questa è la meno coesa delle raccolte del poeta e le vicende evocate nelle singole liriche, specie quelle della parte centrale (Ritratti di comunità in sei giorni), possono senz’altro apparire, da un punto di vista meramente letterario, gratuitamente sconce o grottesche. Ma proprio qui si attua l’estrema contrazione della sua arte del prelievo e del montaggio, dello scarto e del recupero, quasi uno spasmo nella “creatura breve”, che prelude alla dissoluzione di qualsiasi dettaglio in atmosfera, all’esplosione improvvisa e luminosa de L’estate del mondo.

[1] Come recita la chiusa della seconda sezione, “Ritratti di comunità in sei giorni” (31)

Da Creatura breve di Gabriele Galloni

OUTTAKE

I morti naufragano negli specchi.
Ma quanta ne raccolgono, di luna,
prima di visitarti come vecchi
amici. Luna a porgerti la scusa
del cielo.

FABULA

L’angelo è pazzo.
                           L’angelo ci tocca.
L’angelo vuole;
                           l’angelo non dice.
Sul sofà newyorchese una Beatrice
velata.
           L’angelo ci viene in bocca.

FABULA

Sognò intera la Rosa dei Beati.

Era l’insieme di tutti gli oggetti
(lampade, guanti, lame, scendiletti)
che ci portiamo dietro da una vita
e che dimentichiamo puntualmente
lungo la strada; in discesa o in salita.

RITRATTI DI COMUNITA’ IN SEI GIORNI

III

Padre Claudio disseppellisce i corpi
dei suoi fedeli prediletti e solo
per loro recita l’Apocalisse

di san Giovanni. Le pupille fisse
dei morti lo ringraziano. Il suo ruolo
è questo. Padre Claudio è poco più

che adolescente – poca è l’esperienza.

FABULA

Solo la terra deve farsi terra –
così spogliamo il corpo di ogni cosa.
Cuciamo i tagli, ripuliamo il viso
dal seme. Raccogliamo i pezzi sparsi
per il salone; li bruciamo insieme
tutti per il falò di fine maggio.

 

 

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