E’ morto Philippe Jaccottet, poeta, traduttore e critico letterario, vincitore del Premio Goncourt per la Poesia nel 2003. Jaccottet, svizzero, aveva 95 anni.
Lo ha annunciato il figlio all’agenzia di stampa France Press. La casa editrice italiana, Marcos Y Marcos che ha molti suoi titoli in catalogo ha fatto sapere che il 17 marzo 2021 pubblicherà Passeggiata sotto gli alberi, opera inedita in Italia inclusa nella Pleiade di Gallimard.
Parler est facile, et tracer des mots sur la page,
en règle générale, est risquer peu de choses:
un ouvrage de dentellière, calfeutré,
paisible (on pourrait même demander
à la bougie une clarté plus douce, plus trompeuse),
tous les mots sont écrits de la même encre,
«fleur» et «peur» par exemple sont presque pareils,
et j’aurais beau répéter « sang » du haut en bas
de la age, elle n’en sera pas tachée,
ni moi blessé.
Aussi arrive-t-il qu’on prenne ce jeu en horreur,
qu’on ne comprenne plus ce qu’on a voulu faire
en y jouant, au lieu de se risquer dehors
et de faire meilleur usage de ses mains.
Cela,
c’est quand on ne peut plus se dérober à la douleur,
qu’elle ressemble à quelqu’un qui approche
en déchirant les brumes dont on s’enveloppe,
abattant un à un les obstacles, traversant
la distance de plus en plus faible – si près soudain
qu’on ne voit plus que son mufle plus largeque le ciel.
Parler alors semble mensonge, ou pire: lâche
insulte à la douleur, et gaspillage
du peu de temps et de forces qui nous reste.
Parler alors semble mensonge, ou pire: lâche
insulte à la douleur, et gaspillage
du peu de temps et de forces qui nous reste.
Parlare è facile, e tracciare parole sulla pagina
vuol dire, per lo più, rischiare poca cosa:
lavoro da merlettaia, ovattato,
tranquillo (perfino alla candela si potrebbe
domandare una luce più dolce, più ingannevole),
le parole sono tutte scritte con lo stesso inchiostro,
«fetore» e «fiore» per esempio sono quasi uguali,
e quando avrò ricoperto di «sangue» l’intera pagina,
lei non ne sarà macchiata,
o io ferito.
Capita dunque di provare orrore per questo gioco,
di non capire più cosa si voleva fare
giocandoci, invece di arrischiarsi fuori,
e di fare un uso migliore delle proprie mani.
Questo
è quando non ci si può più sottrarre al dolore,
quando il dolore somiglia a qualcuno che viene,
strappando il velo di fumo in cui ci si avvolge,
abbattendo uno per uno gli ostacoli, colmando
la distanza sempre più lieve – d’improvviso così vicino
che non si vede più che il suo muso più largo
del cielo.
Parlare allora sembra menzogna, o peggio: vigliacco
insulto al dolore, e inutile spreco
del poco di tempo e forze che ci resta.
La mer est de nouveau obscure. Tu comprends,
c’est la dernière nuit.Mais qui vais-je appelant?
Hors l’écho, je ne parle à personne, à personne.
Où s’écroulent les rocs, la mer est noire, et tonne
dans sa cloche de pluie. Une chauve-souris
cogne aux barreaux de l’air d’un vol comme surpris,
tous ces jours sont perdus, déchirés par ses ailes
noires, la majesté de ces eaux trop fidèles
me laisse froid, puisque je ne parle toujours
ni à toi, ni à rien. Qu’ils sombrent, ces «beaux jours»!
Je pars, je continue à vieillir, peu m’importe,
sur qui s’en va la mer saura claquer la porte.
Philippe Jaccottet (Moudon, 1925), dall’Effraie(Gallimard, 1953) – Traduzione italiana: P. Jaccottet, Il Barbagianni. L’Ignorant (con un saggio di Jean Starobinski, a c. di Fabio Pusterla, Einaudi, 1992)
Portovenere
Di nuovo cupo il mare. Tu capisci,
è l’ultima notte. Ma chi chiamo? A nessuno
parlo, all’infuori dell’eco, a nessuno.
Dove strapiomba la roccia il mare è nero, e rimbomba
in una campana di pioggia. Un pipistrello
urta come stupito sbarre d’aria,
e tutti questi giorni sono persi, lacerati
dalle sue ali nere, a questa gloria
d’acque fedeli resto indifferente,
se ancora non parlo né a te né a niente. Svaniscano
questi «bei giorni»! Parto, invecchio, che importa,
il mare dietro a chi va sbatte la porta.
Plus je vieillis et plus je croîs en ignorance,
plus j’ai vécu, moins je possède et moins je règne.
Tout ce que j’ai, c’est un espace tour à tour
Enneigé ou brillant, mais jamais habité.
Où est le donateur, le guide, le gardien?
Je me tiens dans ma chambre et d’abord je me tais
(le silence entre en serviteur mettre un peu d’ordre),
et j’attends qu’un à un les mensonges s’écartent:
que reste-t-il? que reste-t-il à ce mourant
qui l’empêche si bien de mourir ? Quelle force
le fait encore parler entre ses quatre murs?
Pourrais-je le savoir, moi l’ignare et l’inquiet?
Mais j’entends vraiment qui parle, et sa parole
pénètre avec le jour, encore que bien vague :
«Comme le feu, l’amour n’établit sa clarté
que sur la faute et la beauté des bois en cendres… »
Philippe Jacccottet (Moudon, 1925), L’Ignorant (Gallimard, 1958; traduzione italiana: Philippe P. Jaccottet, Il Barbagianni. L’Ignorante, con un saggio di Jean Starobinski, a c. di Fabio Pusterla, Einaudi, 1992)
L’ignorante
Più invecchio e più io cresco in ignoranza,
meno possiedo e regno più ho vissuto.
Quello che ho è uno spazio volta a volta
innevato o lucente, mai abitato. E il donatore
dov’è, la guida od il guardiano? Io rimango
nella mia stanza, e taccio (entra il silenzio
come un servo che venga a riordinare),
e attendo che a una a una le menzogne
scompaiano : cosa resta? Cosa rimane a questo moribondo
che gli impedisce ancora di morire? Quale forza
lo fa ancora parlare tra i suoi muri?
Potrei saperlo, io, l’ignaro e l’inquieto? Ma la sento
parlare veramente, e ciò che dice
penetra con il giorno, anche se è vago:
«Come il fuoco, l’amore splende solo
sulla mancanza, e sopra la beltà dei boschi in cenere…»
NOTA CRITICA DI ALBERTO FRACCACRETA
Ricordo di Philippe Jaccottet
Quando si legge un libro di Philippe Jaccottet, poeta svizzero di lingua francese scomparso qualche giorno fa a Grignan all’età di novantacinque anni, si prova un’esperienza che forse non è del tutto improprio definire mistica. Come accade nella silloge E, tuttavia (traduzione di Fabio Pusterla, Marcos y Marcos, 2006), un martin pescatore, un pettirosso, «insulse» e «infime» viole, la carota selvatica e i convolvoli sono capaci di «sgombrare la vista», cioè rendere evidente la cognizione di qualcosa d’altro («una via», «una traccia») sì da conoscere il mondo per come esso è veramente. I medesimi tentativi di purificazione del vedere — con uno stile personalissimo a metà tra il poème en prose, il carnet de voyage e l’ekphrasis — sono espressi con limpidezza pari a verginità espressiva negli scritti dedicati a Giorgio Morandi, nei diari della Semaison o nel cahier bleu del viaggio in Terrasanta.
Non è un caso allora che la critica (con Starobinski in cima) abbia univocamente appioppato a Jaccottet il titolo di «poeta dell’umiltà», sempre pronto a ritrarre l’io dalla materia d’ispirazione per accogliere la fiamma dell’alterità nel cuore dell’ordinario. Cantore delle ultime cose e delle cose ultime, egli ha seguito un percorso coerente e credibile che gli è valso il Prix Goncourt de la poésie nel 2003 e il prestigioso Prix mondial Cino del Duca nel 2018, nonché la perenne candidatura al Nobel.
Quegli ultimi rumori…, testo del 2008 che Crocetti porta meritoriamente alla nostra attenzione, prosegue la linea di E, tuttavia, radicalizzando l’ospitalità delle parole altrui non solo nei propri appunti diaristici, ma addirittura nella propria opera poetica: e non già in maniera trasfigurata o allusiva (riecheggiando, insomma), bensì nella concretezza (e nella fedeltà) della citazione che diviene totale assimilazione o impossibilità di dire altrimenti. Questa suprema accoglienza poetica — che ovviamente spariglia e sfarina la natura intima dell’essai littéraire all’interno della composizione in versi — ha a che fare con un’idea molto particolare di originalità: «Quello che dico non è veramente originale, ma non potrei, per essere originale, dire un’altra cosa», ci ricorda il poeta in una dichiarazione incastonata nella bella nota introduttiva di Ida Merello. La quale in maniera molto accorta pone in relazione Jaccottet con Rilke, Ponge, Baudelaire e soprattutto Claudel, e chiosa: «Come se alla fine non fosse tanto importante chi scrive, quanto il risultato, ossia la maggiore adesione dei sensi al mondo. Sembra non contare più di chi sono le parole, ma la capacità di farsi specchio, riflesso: la parola che ha raggiunto il mondo parla per tutti».
Quali sono gli ultimi rumori capaci di accomiatare il poeta dal mondo ma anche di disegnarne ancora l’immacolata percezione? «Varco aperto dentro l’oscurità trasparente/ vetro limpido come una lamina d’acqua, strato sottile di acqua pura». O anche: «Se fosse la luce a tenere la penna,/ l’aria a respirare fra le parole,/ tutto sarebbe meglio». Il canto dell’usignolo: «Una voce che non si rivolge a noi, che ci ignora, e perciò si mostra così pura, salendo come una fiamma liquida, un razzo liquido — un getto d’acqua». I sogni, le passeggiate, le letture. I gerani: «Il geranio di san Roberto con piccolissimi, quasi banali fiori rossi, sorretti da steli insieme fragili e diritti, ecco che, nonostante tutto, ha ancora voglia di parlarvi. Come se gli ultimi segni provenissero da ciò che è più insignificante». Le annotazioni di salmi, haiku. Pagine di Handke, Saigyō, Leopardi, Kafka. Sinché: «Mentre una gran massa di stelle svanisce lenta nell’arco del cielo,/ alla caviglia nuda fra l’erba d’estate/ solo quel filo di rugiada che il sole potente salendo ha appena sciolto». Il pacato enthusiasmos di Jaccottet sembra rivelarci la freschezza sensoriale di un luogo (un paesaggio, un monte, un bosco) dentro la sua semplice verità, abitata in un walseriano regnum Dei intra vos.
La recente monografia di Maurizio Nascimbene, Philippe Jaccottet, un poeta «qui creuse dans la brume», valuta con ampiezza critica tale percorso, provando a individuare le costanti del pensiero jaccottetiano, per il quale «il valore attribuito all’innocenza» appare strettamente connesso a un’«attività poetica volta a indagare il Tutto». Il tema della purità e della limpidezza rimanda dunque a una condizione ancestrale smarrita, presupponendo quella «separazione originaria» che in qualche modo l’attività lirica ha il dovere di ricomporre. In questo senso, pur non aderendo a una confessione precisa, «la poesia di Jaccottet si nutre di religione e di tutta una filosofia a essa legata». Nascimbene intuisce, infatti, che il problema della soggettività collima con un «sogno di innocenza preadamitica» e una presunta età dell’oro, ossia uno status naturae integrae in cui è possibile vivere il presente e la realtà nella loro effervescenza ontologica. Ecco allora che Jaccottet ammette di essere un ignorant che «ha compreso l’essenza del proprio esistere cercando di spogliarsi del superfluo; attendendo lo scomparire delle falsità di questo mondo sempre più sbagliato; scegliendo, in tal modo, di possedere e di regnare di meno per crescere in quella benefica ignoranza che sola può permettergli di ritrovare la semplicità perduta al fine d’armonizzarsi col creato». È bravo Nascimbene a sottolineare come tale poetica dell’humilitas sia in parte condivisa dai maestri che hanno informato l’arte di Jaccottet: Novalis e Hölderlin su tutti, ma anche Leopardi, l’amico Ungaretti e Montale (dei quali è stato attento traduttore).
Nella scrittura odeporica o nel frammento oracolare, nel nitore cilestrino o nei versi di Nerval e San Juan de la Cruz, la poesia degli ultimi rumori (pari ai primi istanti) rimane una maniera privilegiata di accesso alla schiettezza d’essere. L’obiettivo di questa — lato sensu — ecologia lirica integrale è di «risensibilizzare il prossimo verso una semplicità che si mostra, con sempre maggior intensità, come l’unica concreta strada percorribile per giungere alla felicità, alla beatitudine di dantesca memoria». E, aggiungiamo, a una piena umanità.
Philippe Jaccottet, Quegli ultimi rumori…, a cura di Ida Merello e Albino Crovetto, Crocetti Editore, pp. 109, € 12.
Maurizio Nascimbene, Philippe Jaccottet, un poeta «qui creuse dans la brume», Nulla Die, pp. 189, € 18.
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Philippe Jaccottet è nato nel 1925 a Moudon, nella Svizzera romanda. Dopo gli studi di filologia greca e tedesca all’Università di Losanna, dal 1946 al 1952 ha vissuto a Parigi, dove ha collaborato con l’editore Henry-Louis Mermod. Nel 1953, nel pieno della sua attività poetica ed editoriale, ha lasciato la capitale francese e si è stabilito con la moglie a Grignan, un borgo della Drôme, nel sud della Francia, immergendosi nella natura e dedicandosi alla scrittura. L’opera di Jaccottet è vastissima e comprende raccolte poetiche, volumi in prosa, saggi, diari e magnifiche traduzioni dal greco (Odissea), dal tedesco (Thomas Mann, Rainer Maria Rilke, Friedrich Hölderlin, Robert Musil), dall’italiano (tra gli altri, Giacomo Leopardi, Eugenio Montale, Giuseppe Ungaretti, Vittorio Sereni, Mario Luzi, Giorgio Caproni e diversi narratori) e dallo spagnolo (Luis de Góngora).