Il teatro di Mario Luzi

NOTA DI LETTURA DI ALBERTO FRACCACRETA

 

 

Il saggio critico che il giovane studioso Michele Cencio ha dedicato alla figura di Mario Luzi, Un luogo della mente. Teatro e tragico, prende in considerazione non soltanto l’opera drammaturgica del poeta fiorentino, ma più approfonditamente il suo itinerario esistenziale, segnato da una seria riflessione «sul senso del male e del tragico nell’uomo contemporaneo».

Luzi approda al teatro nel momento in cui si accorge dell’inesauribile dialettica dell’essere e dell’«incessante metamorfosi» che colma il mondo, sostanzia le cose. Complice la conoscenza degli scritti di Teilhard de Chardin (il «gesuita moderno» di Montale), la parola luziana si spoglia della purità dura e trasparente propria dell’ermetismo fiorentino degli anni ’30 e ’40 per entrare nel patibolare agone delle vicende umane, a partire grossomodo da Nel magma (1963), silloge di snodo, se non addirittura di ripensamento delle strutture formali e contenutistiche fino ad allora utilizzate.

Scrive Cencio: «Tutta la critica è unanime nel ritenere che dagli anni Sessanta in poi la produzione poetica luziana andrà di pari passo con quella teatrale in maniera quasi inscindibile favorendosi perfino l’innescare ulteriori prospettive. Non sussiste, perciò, l’idea di un Luzi poeta e uno drammaturgo come fossero due persone distinte, poiché la ricerca è la stessa così da poterla leggere in filigrana da entrambe le parti». Insomma, il teatro è un’altra morphé (un’altra faccia) della lirica. O meglio: il teatro, precipuamente in versi, permette di lasciar cogliere con maggiore precisione all’autore e al lettore la «strada tortuosa» del divenire, la sua capitale tensione all’Uno.

Con l’«uccisione del sacro» il poeta deve scovare il santo, ossia il ripristino del «giardino delle delizie» oltre il «cammino purgatoriale» della storia: esso va rintracciato dunque in quel «luogo della mente» grazie al quale si supera l’«appiattimento» e la «stasi» fornite dalla sofferenza, che è espressa artisticamente con la modulazione della tragedia (i modelli principali, in tale direzione, sono Shakespeare e Racine). Luzi incontra il genere impossibile par excellence della modernità, la tragedia appunto, per riannodarsi all’anelito divino che non può essere eluso dall’uomo, causa ed effetto dei suoi stessi desideri.

Come il poeta annota in Per una lettura di Andromaca, «se il tragico contemporaneo esiste risiede in questo indifferenziato che impedisce il confronto, e cioè il dramma e la sua rappresentazione emotiva, in questo negativo privato del paragone con il positivo, quasi a dimostrare che in una civiltà non più religiosa la concezione tragica permane ma ridotta all’impossibilità di una prova e quindi di un reale sentimento».

Dalla scrittura di opere quali Hystrio e Rosales, fortemente imperniate su quelli che Cencio definisce come il «problema dell’inquinamento del linguaggio» e il «blocco dell’incomunicabilità», si giunge al Luzi paradisiaco di Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini (1994) — tutto giocato sul «pensiero fluttuante della felicità» e sulla valenza salvifica della presenza femminile — ma, ancor di più, all’amore pieno delle poesie monologanti scritte su commissione di Giovanni Paolo II per la Via crucis al Colosseo del 1999: qui, meglio che in altri testi, si risolve tutta la drammaticità dell’umano in un grido di speranza, in una decisiva «svolta» della luce donata dal Cristo.

«Anche nel vuoto — sottolinea Cencio — l’uomo può trovare la via della guarigione e della salvezza se tende la sua “mano rattrappita”, cioè se sceglie la strada della condivisione e della “mano aperta”. Il vuoto, la morte di Dio, segna il deserto delle rappresentazioni, non è l’essenza che muore, ma l’immagine, l’idolo o la maschera, l’icona che la mente umana ha bisogno di cercare. Quando l’essenza, l’amore è puro e manifesto non c’è più bisogno di linguaggio, di iconografia, di metafora, perché la manifestazione sarà fusa con l’essere, “Ancora un poco e di nuovo mi vedrete”».

Il libro di Michele Cencio — scritto con vena appassionata e competente — ci ricorda che, dietro alla parabola letteraria di un autore alla «strenua ricerca» del vero, si cela sempre l’uomo, «l’uomo oltre la maschera», con i suoi crucci, le sue laceranti domande e talora, come nel bellissimo caso di Luzi, le più luminose risposte.

Michele Cencio, Un luogo della mente. Mario Luzi. Teatro e tragico, Fondazione Mario Luzi, pp. 140, € 22,90

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