La donna continuava a cadere.
Cadeva nell’aria come una luna.
Azzurra. Fosforescente.
Ora toccava una nuvola, ora
la cima di una montagna. Goccia
a goccia, il tempo luccicava lontano,
senza accadere. Una nave,
con l’ancora che pendeva sul fianco,
muoveva lo sfondo. La donna
guardava l’incanto del viaggio.
Il prodigio le entrava dagli occhi.
Non c’era direzione, né intento se non
lo stare nel passo dell’aria come uno stormo.
Non c’erano suoni, né chiavi.
Niente da rivelare. Eppure
ogni cosa avveniva, con commozione,
come sa fare la luce.
*
Per l’altra – di più – la mai
numerata l’innumerevole
vista la bella invisibile
che fa le cose diverse – aperte e chiuse
dove si spinge e non si spinge
il desiderio dentro le canne
dopo lo sparo e dopo
che l’urlo ha scoperto il passaggio.
Per l’altra – senza terra – proprio qui
densa e battente
che fiore e non fiore
che alba e nel buio
quando non passando passa
smisurata la dolcezza
intanto che muore sboccia
la rigogliosa pira che spoglia la rosa
e arretra e resta rotta.
Così imperfetta
e poca e minuta e tutta di meraviglia piena.
*
Più dei fiori
essere il grano nel becco della luce,
entrare nella spina della rosa,
stare tonda nella vena, scoprirmi cosa
d’aria, levare dalle spighe l’ala
della luna, tenere in bocca il buio,
vivere di distanza piena, il nome
che avanza vicinissimo
al vuoto toccato a tutto palmo
quando la carezza sa farsi bosco;
più dei fiori posso essere muschio,
stelo minimo nel colpo della falce
levata volo nello spasmo
di un bacio scampato alla calura,
poi neve nelle grotte della pelle
quando l’orma del pensiero
tocca il battito dello stare fermi.
Mentre cado faccio terra
sul pioppo levigato dalla pioggia.
Poco è detto, meno il fatto
di essere solo mani,
tensione muscolare che teme il nulla
della carne, e duole sola e sente
nello strappo l’altissimo mai colto
grido conducimi o lasciami
terra in terra, volto appagante intero.
*
Nella terra che aprì maggio
un canto si levò dalle vene di pietra
la pioggia eresse l’intenzione del giglio
la luce tese la lancia che aprì la festa.
E gridò il pesco, gridò il croco e la rondine,
gridarono i pioppi e le sterpaglie;
a bracciate il grano accese il campo.
Esaudita la gioia dell’erba,
esaudite le solitudini dei tordi,
il silenzio infiammò le rotte dei venti
che stesero le mani ai tetti, ai fili tesi
fra le case, alle strade ai tram alle navi.
Infine i fiori.
*
Quando il cielo si avvicina forte da far male,
tutto il mio peso si muove in una quiete che fa guerra
alla bocca, al seno. Mi porta nel corpo
del fiore, giù, fino a urlare di non avere
i piedi ficcati nel prato, di non essere
terra da concimare, letame.
L’orto mi pascola con le sue braccia gloriose;
Invidio quel restare in attesa che ha il prato,
la luce che sprofonda nel verde mentre avviene.
L’erba di sicuro non è cosa più piccola del paradiso.
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Iole Toini 1965. Vive sul lago d’Iseo. Pubblicazioni: “Spaccassangue”, Le Voci della Luna, 2009; “Dei colori dei luoghi”, Terra d’Ulivi, 2014.
Iole, che fai delle parole una magia, un incanto..