Fabio Scotto, “A. L’abbandono”

Fabio Scotto

DALLA PREFAZIONE
DI STEFANO CARRAI

La poesia d’amore è la più difficile di tutte perché il rischio di scivolare nello stile da canzonetta o da bacio Perugina è sempre in agguato. Perciò questo nuovo libro di poesia di Fabio Scotto è sorprendente, perché la ferita straziante prodotta nell’anima dall’abbandono da parte della donna amata stilla dolore in gocce di poesia pura. Si potrebbe dire che esso rappresenta il versante disforico della raccolta In amore pubblicata qualche anno fa dallo stesso autore, ma bisogna avvertire subito che il testo ha una completa autonomia. Anzi, più che di una aggregazione di liriche, si tratta di un libro vero e proprio, strutturato come un lungo prologo costituito da una lettera in versi d’ispirazione dichiaratamente majakovskiana, seguito da una serie di più o meno brevi frammenti lirici, che penetrano nell’animo come una sequenza di punte tanto luminose quanto lancinanti.

 

Sai cos’è un volto senza più dentro te?
Una cornice vuota, l’assenza di ogni forma.
Il tempo si è fermato in quell’istante di gelo.
Hai voltato le spalle e sei uscita senza dire nulla.
Incredulo, in silenzio, ho fissato i passi che facevi
verso la macchina; ad ogni passo un tonfo,
una sincope, un arresto del cuore.

Non serve ricostruire, non voglio scrivere
la cronaca di uno sfacelo.
Voglio dire quel che resta
quando tutto è distrutto, quella polvere sul vuoto,
tracce azzurre di ciglia.
Mi guardo dentro
c’è una casa diroccata dove giocammo,
ed era infanzia.
La tua voce bambina mi cullava ogni notte
eri sorriso, ascolto, abbraccio,
riparo da ogni pioggia improvvisa,
caldo cuore, capanna.
Sentivo questo tepore avvolgente
contro tutto il niente che credevo d’essere,
ignaro della minaccia dell’abisso; ora la vedo,
crocifisso a queste otto e un quarto di nebbia e buio,
oltre i vetri.

Ottobre. Dove sei adesso?
Con chi parli ora? Che mani stringi di notte
quando tremi per il ventre contratto dal gonfiore?
A chi pensi dopo me, se più a me non pensi,
i piedi freddi tra i lenzuoli stesi come sudari?
Sai cos’è stringere un cuscino come fosse te?
Sai quando le parole respinte ti restano in gola
come rospi a piagarti l’ugola?
Sai l’insonnia feroce, fissare per settimane i muri
con gli occhi sbarrati fino all’alba?
Conosci i dieci nomi del dolore?
Attesa
Ansia
Ancòra
Adesso
Assenza
Atroce
Averti
Allarme
Arreso
Alessandra.
Neanche una sigaretta per sparire dentro il fumo
ormai sono nessuno
non ho più né corpo, né nome, né voce
respiro per procura, benevola, la natura
mi ha concesso momentanea estradizione
Vivo fuori di me, fisso il me che con te sono stato
qualcosa l’ha guastato per sempre
una carie ovunque ormai lo mina
fin dentro le ossa.

Cosa è stato?
Non bastavano due mani ad abbracciarti?
Non vedevi la mia gioia se arrivavi?
Eri tutto per me, la biondezza del mondo,
luce azzurra degli occhi, il calore di un amore
che si dice, ed è carne generosa,
seno turgido che accoglie, umidità di labbra,
gemiti da far tremare le pareti della stanza,
tenera carezza su ogni pelle salvata
dal martirio dell’assenza,
parola ogni sera prima di dormire,
il sempre, l’ora, il non-finire,
se nevica e guardiamo fuori
al riparo da ogni ghiaccio, da ogni insidia.
Mi proteggevi, ti proteggevo. Era noi due.

L’ho visto entrare quella sera a cena, a Bassano,
mentre parlavo con la collega polacca.
Sedersi al nostro tavolo,
tu accanto a me, già più con me.
La sua scenetta plurilingue da piazzista-predatore
per tender l’esca, come a ogni congresso
(a volte funziona, c’è chi abbocca:
recitare Carducci, sorrisucci…).
Vi ho visti a un metro da me
parlarvi fitto all’orecchio
come già io non ci fossi più.
Poi i passi verso l’uscita,
il gioco dei contatti, l’indomani.
Dicevi e non dicevi, ma ascoltavi
qualcosa che minava il nostro bene.
Così è stato, il resto lo sappiamo.

Di lui non dico,
mal ne capisco i subdoli intenti,
il narcisismo incurante del cuore altrui,
l’assenza di vergogna.
Vile, l’abbiano i cani,
rimane a me la rogna,
che di te mi fidavo, m’illudevo.
Chi così si conduce non merita perdono,
neppure una croce, solo di udire per sempre
l’eco della mia voce nell’orecchio
finché un giorno si ritrovi solo, come me,
abbandonato e vecchio
e si scopra, come tutti,
melma in fondo al secchio.

Ma di te, di com’eri e più non sei,
della gioia negli occhi sulla ciclabile,
mano nella mano, al sole,
dei gelati e delle granite di limone,
gustati al caldo, nostri luoghi (nostri dicevi),
di quando ansiosa mi aspettavi
a ogni aeroporto, a ogni stazione,
di questa nostra vita voglio parlare,
non so se a te, che più neanche ascolti,
ma a quel grigio muro di anestetica freddezza
che hai posto ora fra noi, come d’acciaio.
Sappi che quel muro,
(che non è te, ma già lui in te),
io lo vorrei sfondare,
che userei la dinamite, le bombe,
la forza di un’armata di zanzare
pronte a cercarti il sangue
che ora nascondi negli armadi
(ci troverai i miei doni,
a ogni viaggio,
i libri che ti ho dato,
forse anche qualche residuo panno
che mi hai lavato,
confuso a quelli di tua figlia,
o di tuo marito).

Sono qui adesso, sono qui lo stesso
smagrito, avvilito, perso, il cuore in sangue.
So che non mi senti più, sono lontano
e vuoi che sia per sempre.
Qualcosa nella tua mente ora dice no a me,
non c’è rimedio, tempo scaduto,
sono da buttare, escluso.
Qui sulle rive del San Lorenzo
fisso il fiume immenso e mi dico
che non basterebbe tutto a contenere
le lacrime che ho dentro.
Solo riuscissi a piangere
solo riuscissi a tagliarmi le vene
solo non amassi più la vita A.
e i doveri che contiene
solo potessi offrirti almeno
la mia morte in pegno.
Bastasse questo a sentirmi degno
di riguardare il sole
che per me sei e rimani.

Muore ora in me la morte
Queste parole te le porti il fiume alla sua foce
per seimila miglia di mare
Non dirò “addio”, né “lasciami stare”
Solo, fino allo sfinimento,
che sono ancòra
che amo ancòra
che spezzo le lancette a morsi
che inghiotto i torti e le offese
che affogo senz’alcol i rimorsi
che anche dopo morto
ci sarà un me sempre lì ancòra
ridicolo fantasma, ad aspettarti.
Il giorno sale, la piena del suo male.
Ora esci all’aria, libera, forse felice,
mentre io esco dal retro, senza voltarmi,
se riesci a non guardarmi.

                                           Abby

Trois Rivières, Québec/Canada, 2-5 ottobre 2018

 

Fabio Scotto da “A. L’abbandono”, Passigli, 2021

Fabio Scotto è nato a La Spezia nel 1959 e vive a Varese. Ha pubblicato le raccolte Il grido viola (Edizioni del Leone, 1988), Il bosco di Velate (Edizioni del Leone, 1991), La dolce ferita (Caramanica, 1999), Genetliaco (Passigli, 2000), L’intoccabile (Passigli, 2004), Bocca segreta (Passigli, 2008), La Grecia è morta e altre poesie (Passigli, 2013), In amore (Passigli, 2016), La nudità del vestito (Nuova Editrice Magenta, 2017), Storia di Emma C. e altre poesie (Puntoacapo editrice, 2020), La peau de l’eau. Poèmes français 1989-2019 (La Passe du vent, 2020), A. L’abbandono (Passigli, 2021) e le prose di A riva (Nuova Editrice Magenta, 2009), oltre a numerosi libri d’artista. Suoi testi e volumi sono tradotti in varie lingue e hanno ricevuto premi e riconoscimenti.
Critico letterario e saggista, è autore di vari studi sulla letteratura francese tra Settecento e Novecento, tra i quali La voce spezzata. Il frammento poetico nella modernità francese (Donzelli, 2012), Il senso del suono. Traduzione poetica e ritmo (Donzelli, 2013) e Le corps écrivant. Saggi sulla poesia francese contemporanea da Valéry a oggi (Rosenberg & Sellier, 2019).
Ha tradotto Hugo, Vigny, Villiers de l’Isle-Adam, Apollinaire, Bernard Noël, Pierre Autin-Grenier, Vénus-Khoury-Ghata, Habib Tengour, Jean Flaminien, Yves Bonnefoy, di cui ha tra l’altro curato per Mondadori il Meridiano L’opera poetica (2010); sua è l’edizione dell’antologia Nuovi poeti francesi (Einaudi, 2011).
È professore ordinario di Letteratura francese all’Università degli Studi di Bergamo.

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