Sono uscito veloce
per un momento
lo specchio ha guardato il bianco
le pieghe della camicia.
Mi è piaciuto
non incontrare gli occhi
non sapere quanto tempo è passato.
Potevo scendere
scrollare la terra dai tacchi
ma ho saputo scappare
come una lucertola
sull’orlo verde delle cose.
Se chiudo gli occhi
sono in quello specchio,
gli alberi splendidi
il mattino quasi finito,
strappato a qualcosa
che non saprei dire.
*
Com’è rapida l’estate,
queste foglie replicano
camminano verso di me.
Fuori dalla stanza vuota
lasciano un’impronta
scendono verso il confine.
Le ombre ingialliscono
come limoni,
parlano di piccole cose.
*
Versando nell’acqua
Verso le otto sono sceso
a Les Saintes Maries,
il vento è venuto meno
e così l’odore degli anni
questa polvere invisibile
che ogni mattina
scopre il mio guanciale
mentre una luce diffonde
chissà quali memorie,
quali amori vissuti, mai vissuti
oggi comunque irreversibili.
Fuori la gente, le spiagge
il freddo alle giunture.
Pure sono gentile verso il futuro
e sogno continuamente
continuamente saluto
di qua dai recinti,
indeciso tra il lutto
o una leggerezza improvvisa,
fermo su queste dune
dove sostano due sconosciuti
con le labbra morbide
come fosse mezzanotte.
*
La scontentezza delle dita
i nostri bei volti
senza segreti
ma eravamo pronti
nel disordine, nel brusio
e ancora un minuto, un altro
verso l’inizio
tra queste quinte mal illuminate
sfiorando parole
pagine su pagine, osando
versi incustoditi
– un giorno di strade aperte
i tuoi capelli di scintille.
*
Era poesia la tegola appuntita
la A storta di Anquetil
scritta sul muro,
il ronzio dei raggi
e quello scroscio
nel vuoto
della discesa,
la tregua
da cui scaturiva il fuoco.
Abbiamo detto i nomi
come una folla. Ora
siamo perduti.
*
Zoppicando tra le ringhiere
oggi eravamo contro il cielo,
il tetto uno svolìo
sbilenco come uno schizzo.
Abbiamo aperto le certezze dei cassetti,
abbiamo dondolato un Improvviso
fra rottami, rami e carte.
La quiete era il fresco spessore del mondo.
*
La mano scrive il suono
di ciò che la trascina, desiderio
o sperpero verde. Le ramaglie
si gettano contro il muro
per il poco ultimo che appare
nella misura dell’aria: scene
di falde celesti, il tepore dei nomi,
bordi dove la ruota ripassa
in continuazione.
Continuo a dondolare, seduto
girandomi verso una stella di rami,
le mani, le dita sporgendo
come un flagello nodoso.
*
Siamo tornati ad essere
ciò che eravamo, ma nascosti
in una sgargiante giornata
che non sbiadisce.
Fuori nevica.
La luce discende
spande il suo chiarore:
flutti fradici, esplosi – piccoli
labili desideri senza odori.
*
Tutti i tuoi paesaggi, questa casa
che dorme nell’acqua cupa
di un temporale. Sei quasi
più vicino all’orizzonte
al punto in cui affonda
anche il tuo blu. Devi restare.
Da questa parte restare
ai margini lasciare l’opera
aperta, un prato che brucia…
Non rispondere, non guardare.
Marco Conti, da “La mano scrive il suono”, (Archinto, 2021)
V
Sono fermo e questi fiori
fra le plastiche le pietre
questi fiori bruciano gli sguardi.
Vorrei essere un’altra volta
lontano, o solo, quando i colori
e l’aria sono obliqui
e io mi abbandono ai miei nomi
ai valichi delle correnti
dissolto in ceneri di vite non mie.
Ma non potrei essere altrove
oggi che il desiderio mi incontra
e i passi suonano
bianchi come ossa.
Più grido, più le felci
scuotono la luce.
Sono in piedi sul tetto di Cuma.
Gli alberi volano
come sposi di Chagall. Gli sguardi
non sono indispensabili,
ogni giorno è affidato
a questo silenzio
che la memoria ingrandisce.
*
IX
Come lo sguardo cambia
nel corso del tempo
così ho visto il tempo
guardandomi nei tuoi occhi,
queste immagini in cui uno scaltro obiettivo
raddoppia di sguincio la mia faccia
senza conoscermi davvero
ma lunare nelle risaie di Lucedio
come se un altro specchio più grande
ci liberasse dalle domande non fatte
dalle risposte non avute.
Qui la terra sembra godersi il suo abbandono
con colori d’acqua e verdi
violati appena dai pali
e dagli alti trampoli degli aironi.
Si direbbe un posto
dove ogni cosa è fatta
per la sua consumazione
e le parole non guardano lontano
ma sostano fra i canali
tenaci come le porte
di queste grange disabitate.
La sera la strada sale verso le montagne
i cipressi rinchiudono le voci degli uccelli.
L’ultima cosa è questo soffio
questa guancia
bucata dalla bellezza.
Dalla sequenza “Viaggio a Cuma” in La mano scrive il suono
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Marco Conti, giornalista e scrittore, vive nel Biellese. Ha esordito nel 1986 con la raccolta di poesia “Stellato Chiaro” (Crocetti Editore) a cui è seguito il volume “L’ospitalità dell’aria” (Campanotto, 1999) e il poemetto “Via delle fabbriche nel 2004” (Viennepierre). Nel 1999 ha curato per la rivista “Poesia” la prima traduzione italiana dell’opera di Joyce Mansour, confluita successivamente nel volume antologico della stessa autrice surrealista, “Blu come il deserto” (Terra d’ulivi, 2017). Come saggista ha scritto in opere collettanee di Samuel Beckett (Beckett sulla spiaggia in “Fallire ancora, fallire meglio”, Joker, 2009), di Augusto Blotto (Il presente e lo sconfinato nella poesia di Augusto Blotto in “Il clamoroso non incominciar neppure. Atti della giornata di studio”, Edizioni dell’Orso, 2010), e di Pierre Reverdy, Eric Sarner, Milo De Angelis, Amelia Rosselli, Alfredo De Palchi, Camillo Pennati, Eliza Macadan e altri autori. Nel 2017 ha pubblicato il pamphlet “Breviario di dissidenza”(Mimesis Edizioni). Ha pubblicato inoltre alcune opere di mitografia inerenti la tradizione orale: Una processione illuminata dai mignoli (Aemmepi, 2000) e Il volo della strega (Giovannacci, 2004). Racconti, poesie, e contributi sono apparsi su mensili e giornali tra cui La Gazzetta del Popolo, La Stampa, Stampa Sera, Historia, Risk e sulle riviste letterarie Scarto Minimo, Poesia, La Clessidra, La mosca di Milano, Bloc Notes.