Mallarmé scrisse che il mondo esiste per giustificare un libro. Ma quale libro potrà mai giustificare il mondo?
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Non usciremo mai dal nostro oblio. Incapaci di sapere chi siamo veramente, vaghiamo come sonnambuli nella notte del mondo.
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Quando scende la sera e si accendono i lumi dell’orizzonte, è possibile provare nostalgia di un’unità perduta ed irraggiungibile.
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Non c’è che un’unica notte che ritorna.
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Quando si è malati si è più veri. La malattia sorprende la nostra clandestinità.
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L’esilio è il destino dell’uomo.
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Il poeta è un abitatore di rovine.
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La poesia deriva non da ciò che si ha, ma da ciò che ci manca.
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La parola è sempre sola davanti al dolore e alla morte.
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Il mare conserva una forza primordiale che attrae e spaventa, un altro mondo buio e profondo sempre pronto a inghiottirci.
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Il poeta non è solo quando scrive. E’ tremendamente solo dopo.
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Kafka sapeva bene che l’unica sua aspirazione e vocazione era la scrittura, tuttavia dovette sperimentare che il potere di quest’ultima non era suo e che non aveva affatto la prova di scrivere veramente. I suoi testi lo ponevano in una condizione di esilio abissale ed egli era spesso costretto ad interrompere la scrittura, che così ritornava a quella misteriosa notte in cui era nata, il destino della frammentarietà e dell’incompiutezza lo perseguitava, avvertiva allora in sé il senso di un doppio fallimento: quello di uomo, estraneo agli altri uomini, e quello di scrittore, preso da una forza oscura e da una vertigine più grande di lui.
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I vivi sono rispetto ai morti un’esegua minoranza, ma fingono di non saperlo.
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Ci si accorge dell’amore soprattutto durante i saluti di commiato o nell’assenza.
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Non sappiamo niente di ciò che succede nel nostro corpo. Siamo l’estraneo che è in noi.
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Chi muore lascia il proprio corpo. Chi scrive lascia le proprie parole come spettri vaganti sulla terra.
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Non c’è alcun rimedio alla solitudine – è bene saperlo. Non ostante i nostri sforzi ed i nostri legami, saremo sempre lontani gli uni dagli altri.
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Credo che Pasolini sia stato l’ultimo grande artista intellettuale che abbiamo avuto. Ogni sua opera non lasciava indifferenti, faceva discutere, provocava, scandalizzava ed allo stesso tempo emozionava e coinvolgeva. L’artista Pasolini e l’intellettuale Pasolini erano tutt’uno, e sempre di alto livello.
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Quand’ero bambino e ragazzo, in chiesa trovavo il mistero, la morte, i riti, le parole potenti ed enigmatiche delle Scritture. Lì era normale non capire, abbandonare la ragione, sentirsi smarriti ed accolti nel medesimo tempo. Fuori, invece, c’era l’assurdità gratuita del mondo; lì, quella sacra, che mi chiamava e mi rapiva senza un perché.
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Una società che ha paura della povertà – così come della morte – è destinata prima o poi alla catastrofe.
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Come avrei voluto una Chiesa diversa, senza ipocrisie e false consolazioni, una Chiesa povera tra i poveri, ma anche solenne e misteriosa nella sua povertà; una Chiesa di domande e di ascolto, contro ogni forma di potere, tenace e coraggiosa, affrancata dall’atroce edonismo di massa e dall’aberrante società – spettacolo in cui viviamo; una Chiesa per tutti gli orfani e gli smarriti, per i senza fede, i senza destino; una Chiesa in opposizione a sé stessa…
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Non riesco più a sopportare i poeti e gli scrittori di oggi. Trovo spesso la loro scrittura mediocre, le loro autopromozioni sui social network e le presentazioni dei loro libri davvero intollerabili e disgustose.
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Che la poesia possa salvare la vita è una vergognosa ed imperdonabile menzogna che – per altro non ha nemmeno il minimo rispetto nei confronti di tutti i poeti morti suicidi.
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Maurice Blanchot ha scritto che “la poesia non è data al poeta come una verità e una certezza a cui accostarsi; egli non sa se è poeta, ma non sa neanche che cosa è la poesia, e neppure se essa è; essa dipende da lui, dalla sue ricerche, dipendenza che tuttavia non lo rende padrone di ciò che egli cerca, ma lo rende incerto di sé stesso e come inesistente”. Non ho trovato finora un pensiero sulla poesia più completo e convincente di questo.
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Una volta chi scriveva un libro appariva pochissimo. Oggi siamo assaliti da presentazioni, letture pubbliche, partecipazioni televisive, promozioni sui social network, festival culturali, in un carosello di indecoroso esibizionismo, che confonde e stordisce.
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Bisognerebbe abolire i premi letterari di poesia. I più affermati sono monopolizzati dai soliti nomi, i quali se li spartiscono tra loro, sempre ben remunerati. Gli altri sono ridicoli teatrini a pagamento per coloro che vi partecipano.
da: “La parola e l’abbandono”, Mauro Germani, L’arcolaio, 2019
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Mauro Germani è nato nel 1954 a Milano, vive a Bresso. In ambito poetico ha pubblicato: L’attesa dell’ombra (Schema, 1988), L’ultimo sguardo (La Corte, 1995), Luce del volto (Campanotto, 2002), Livorno (L’arcolaio, 2008, ristampa 2013), Terra estrema (L’arcolaio, 2011), Voce interrotta (Italic Pequod, 2016, finalista Premio Lorenzo Montano). Ha pubblicato saggi, poesie e recensioni su numerose riviste, tra le quali “Anterem”, “La clessidra”, “La Corte”, “Atelier”, “Capoverso”, “Poesia”, “QuiLibri”. Nel 1988 ha fondato la rivista letteraria “Margo”, che ha diretto fino al 1992. Di narrativa ha pubblicato Racconti segreti (Forum, 1985), Il prescelto (Perdisa, 2001). In ambito critico ha curato il volume L’attesa e l’ignoto. L’opera multiforme di Dino Buzzati (L’arcolaio, 2012). Nel 2013 ha pubblicato Giorgio Gaber. Il teatro del pensiero (Zona) e nel 2014 Margini della parola. Note di lettura su autori classici e contemporanei (La Vita Felice). Del 2019 è libro di aforismi La parola e l’abbandono (L’arcolaio).