NOTA DI LETTURA DI GIUSEPPE MARTELLA
Parto per una breve vacanza e mi porto appresso I Quarantanove Gradini, di Roberto Calasso, un libro uscito nel 1991 presso Adelphi ma che contiene saggi scritti durante il ventennio precedente. Dunque alcuni di essi risalgono a una cinquantina di anni fa. Eppure sono veggenti oggi come lo erano allora, cioè perfettamente “inattuali”. Come mai? Perché Calasso appartiene a quella schiera esigua di pensatori (Kraus, Benjamin, Borges) che hanno disegnato e percorso le più esoteriche e veraci costellazioni del Novecento. “Costellazione”, si sa, è un termine caro a Walter Benjamin che di quei pensatori è il sommo (non per nulla fa la parte del leone in questi saggi di Calasso). Un termine che designa un ente di ambiguo statuto tra il concetto e l’immagine, e tra la verità e l’opinione. Di costellazioni è formata la mappa del cielo e la sua storia per tracce. La mappa e la storia sono due modi antitetici e complementari di ordinare il mondo, dal micro al macrocosmo: dalla mappa del genoma umano alla teoria del big bang. Stanno fra loro come spazio e tempo, sincronia e diacronia. La prima si rivolge al colpo d’occhio, alla visione d’insieme; la seconda all’attenzione paziente di chi voglia indagare i nessi fra dettaglio e disegno, nonché la concatenazione delle cause e delle colpe. La costellazione è l’ologramma cifrato di mappa e storia, la fata morgana del cielo che ne raccoglie la storia in figure illusorie eppure capaci di farci orientare nel mondo dalla notte dei tempi. Il Grande e il Piccolo Carro, la Vergine, Orione, il “cacciatore celeste”. Ciascuna composta di astri che distano fra di loro migliaia di anni luce e la cui nascita risale spesso a epoche diverse della galassia.
Benjamin, come ogni altro autentico saggista, indaga sempre l’elusivo rapporto tra verità e opinione, nonché tra banale e fatale. Egli legge nelle tracce sparse del passato i profili esatti degli eventi futuri ma come rovesciati in uno specchio: in questo, come Calasso, risulta sempre sorprendentemente inattuale. Di Benjamin, scrive Calasso che piuttosto che un filosofo era un esegeta, un “commentatore perverso”, dedito a materiali sempre più alieni alla sua vocazione teologica. E cita da una sua lettera: “Io non ho mai potuto studiare e pensare se non in senso teologico, se così posso dire, cioè in accordo con la dottrina talmudica dei quarantanove gradini di significato di ogni passo della Torah.” (126) Come Benjamin, suo nume tutelare, Calasso è un glossatore perverso e veggente, uno capace di nascondersi in quel labirinto di citazioni che sono per la scrittura ciò che le costellazioni sono per gli eventi.
Calasso appartiene a quella rara genia di sommi glossatori che hanno interrogato le costellazioni di senso del Novecento. A questo proposito egli evoca ancora Benjamin, “i suoi imperi di citazioni, le sue sentenze enigmatiche e ultimative, la sua capacità di allacciare l’infimo e l’enorme” (343), e di riconoscere “il quotidiano come impenetrabile e l’impenetrabile come quotidiano.” (347) Parole che varrebbero altrettanto bene per l’opera dello stesso Calasso. Che a proposito di Karl Kraus, un altro dei suoi scrittori prediletti, scrive: “La storia dell’ovvio è la storia più oscura. Niente di più ovvio dell’opinione…Eppure è cosa temibile, che ha seguito vicende tortuose, beffarde, fino al suo trionfo, il presente…quando i fatti diventano notizie prima di essere fatti.” (103-105)
Come Kraus, come Benjamin, come Borges, Calasso è un glossatore esoterico di testi “sacri”, uno capace di decostruirli dai margini e poi colpirli al cuore con una serie di rapinose incursioni, di rapidi affondi e prelievi che prendono poi forma di un impero di citazioni, un residuo ancora praticabile del Grande Stile nell’epoca dell’equivoco e della chiacchiera mediatiche. E di trasportarci con la magia delle favole nel terribile regno di Ananke. Anch’io sono stato catturato da questo “cannibale celeste”, “fanatico soltanto della forma, e vorace divoratore di teologie non per fede ma per sovrano parassitismo letterario” (287) – così egli scrive a proposito di Borges – capace di cogliere “la storia cifrata, la prefigurazione dei destini nei gesti” perché “siamo tutti profeti senza saperlo e…tutti i nostri atti, buoni o cattivi, sono delle profezie.” (288) Così non ho letto soltanto i saggi che avevo tralasciato trent’anni fa ma anche quelli che avevo già letto e annotato. Li ho divorati tutti d’un fiato, senza annoiarmi. Perché in questi cacciatori celesti c’è sempre qualcosa di nuovo: essi non sono mai appartenuti per intero al loro presente e si sottraggono pertanto miracolosamente all’usura del tempo. Roberto Calasso è scomparso da poco: lascerà a lungo un vuoto incolmabile, anche perché di grandi libri, in grado di costituire centri gravitazionali di nuove costellazioni dello Spirito, non si riesce proprio di scorgerne nell’attuale orizzonte culturale.
Grazie a Giuseppe Martella per aver sollecitato una lettura di questo lavoro di Calasso che sinceramente non ho mai letto. Mi interessa soprattutto l’indagine su Benjamin a me caro e su cui mi sono formato.