ANTEPRIMA EDITORIALE
In occasione del centenario della nascita di Andrea Zanzotto si propone l’introduzione di Alberto Russo Previtali al volume Pasolini e Zanzotto: due poeti per il terzo millennio, Franco Cesati Editore, 2021.
PASOLINI E ZANZOTTO NEL TEMPO DELL’ANTROPOCENE
di Alberto Russo Previtali
«I poeti, che non sanno quel che dicono, è ben noto, dicono però sempre le cose prima degli altri»[1] . Questo aforisma di Jacques Lacan potrebbe essere eletto a criterio supremo per stabilire chi può essere definito “poeta”. Se pensiamo a Pasolini e Zanzotto in base ad esso, non possiamo che vedere in loro dei poeti nel senso più profondo della parola. La loro fedeltà radicata ai valori più propri della poesia, al suo «fertilissimo stupore»[2], alla vocazione della sua parola sorgiva, ha permesso a questi poeti di sentire in anticipo gli aspetti negativi dei cambiamenti irrevocabili avvenuti nel dopoguerra, denunciandoli, e producendo su di essi una conoscenza poetica singolare e insostituibile. Zanzotto è nato il 10 ottobre 1921, Pasolini il 5 marzo 1922: a un secolo dalla loro nascita sono incontestabilmente due delle figure maggiori della letteratura italiana del secondo Novecento. La loro influenza letteraria e artistica è crescente, così come l’interesse che i critici e gli studiosi di altre discipline portano sulle loro opere. È dunque doveroso chiedersi, oggi, cogliendo il tempo propizio delle ricorrenze e delle date: a che cosa è dovuta la prossimità particolare di questi poeti con noi, lettori del XXI secolo? Che cosa rende così essenziale, così intima, la loro presenza? Le risposte potrebbero essere molte, e di diverse appartenenze prospettiche. Ma ce n’è una che, probabilmente, è all’origine di tutte le possibilità interpretative: Pasolini e Zanzotto sono stati i testimoni poetici di un’epoca di profondissimi cambiamenti culturali, quelli determinati dalla trasformazione dell’Italia in un paese industriale con una moderna società dei consumi.
Gli intellettuali italiani nati nei primi decenni del Novecento si sono ritrovati negli anni della maturità a vivere i rivolgimenti rutilanti del miracolo economico. Come Pasolini ha ripetuto più volte, la radicalità delle mutazioni della società, il passaggio folgorante da un’economia prevalentemente agricola a un’economia industriale, fanno dell’Italia un caso esemplare di questa fase storica. Ed è proprio la velocità bruciante del cambiamento ad avere moltiplicato gli effetti negativi e traumatici dell’avvento della modernità, che si sono imposti come oggetto delle opere di numerosi scrittori, poeti, cineasti e artisti appartenenti a quella che Alfonso Berardinelli ha chiamato «l’ultima generazione cresciuta in un’Italia ancora premoderna», ovvero l’ultima generazione «che abbia vissuto nella sua maturità, fra i trenta e i quarant’anni, il trauma di un mondo noto e amato che si trasformava fino a scomparire»[3] . A partire dagli anni Sessanta, anche Pasolini e Zanzotto si confrontano apertamente nelle loro opere con il cambiamento in atto. Le mutazioni degli elementi essenziali del loro rapporto artistico con la realtà sono vissute come dei traumi che determinano delle rotture nei loro percorsi poetici e letterari. Si tratta di cambiamenti di direzione irreversibili, che saranno esplorati fino alla fine dei loro itinerari. In queste dinamiche, le esperienze di questi due poeti appaiono oggi più che mai caratterizzate da numerosi e rilevantissimi punti in comune, che trovano riscontro negli interventi critici che si sono dedicati l’un l’altro nel corso dei decenni. Esplorare e ricostruire i rapporti tra le opere di Pasolini e Zanzotto è quindi certamente il primo fine del presente saggio, che si propone di offrire un ritratto critico “allo specchio” dei due poeti: per ricostruire le loro convergenze, ma anche per dare risalto ai rispettivi tratti singolari. La conferma più densa del buon orientamento di questo progetto ci viene da una poesia in dialetto di Zanzotto, Ti tu magnéa la tó ciòpa de pan, scritta in memoria di Pasolini e inserita nella raccolta Idioma del 1986:
Ti tu magnéa la tó ciòpa de pan
sul treno par andar a scola
a Sazhil e Conejan;
mi ere póch lontan, ma a quei tènp là
diese chilometri i era ’na imensità.
Cussita é stat che ’lora
do tosatéi no i se à mai cognossést.
[…]
Se se à parlà, pi avanti, se se à ledést;
zherte òlte ’von tasést o se a sticà,
la vita ne à parà sote straségne
e ciapà-dentro par tamài diversi,
mi fermo, inpetolà ’nte i versi
ti dapartut co la tó passion de tut;
ma pur ghe n’era ’n fil che ’l ne tegnéa:
de quel che val se ’véa l’istessa idea.
[Tu mangiavi il tuo pane
sul treno per andare a scuola
tra Sacile e Conegliano;
io ero poco lontano, ma a quei tempi
dieci chilometri erano un’immensità.
Così avvenne che allora
due ragazzetti non si sono conosciuti.
[…]
Più avanti, ci siamo parlati, ci siamo letti;
certe volte abbiamo taciuto o abbiamo litigato,
la vita ci ha spinti sotto sgocciolamenti di acqua fredda (colpi)
e presi in trappole diverse,
io fermo, impiastricciato nei versi,
tu dappertutto con la tua passione di tutto;
ma pur c’era un filo che sempre ci legava:
di ciò che vale avevamo la stessa idea][4]
Questa poesia ricorda in apertura la condivisione di una vicinanza geografica, che l’uso del dialetto rafforza e inserisce in un orizzonte più vasto e profondo, quello a cui si fa allusione nei due versi finali della seconda strofa, in uno dei punti più intensi del componimento: «ma pur c’era un filo che sempre ci legava / di ciò che vale avevamo la stessa idea». Dedicheremo nella seconda parte del volume un’attenzione specifica alla comprensione del filo comune tra Pasolini e Zanzotto, a questo «ciò che vale» in cui sembra essere racchiuso il segreto ultimo delle loro esperienze. Ma questi versi, scritti poco tempo dopo la morte di Pasolini, si pongono fin d’ora come la stella da seguire per orientare la nostra esplorazione. Poiché è in nome della «stessa idea» di questo «ciò che vale» che Pasolini e Zanzotto ci appaiono uniti nelle loro testimonianze poetiche di fronte agli «stravolgimenti dell’umano»[5] . Il senso di queste testimonianze, così legate al contesto particolare dell’Italia, assume oggi una rilevanza che ne oltrepassa le frontiere. Il valore delle loro opere, da un lato, e, dall’altro, l’esemplarità dello sviluppo economico italiano, hanno reso le loro esperienze altamente significative in una prospettiva europea e mondiale. È dunque possibile guardare oggi a Zanzotto e Pasolini come a due testimoni altissimi di quel fenomeno globale che alcuni storici e climatologi hanno ribattezzato, a posteriori, «Grande accelerazione»:
La progressiva crescita a cui si è assistito dal 1945 è stata tanto rapida da prendere il nome di Grande accelerazione. L’accumulo di anidride carbonica nell’atmosfera dovuto ad attività umane si è verificato per tre quarti della sua entità nel corso delle ultime tre generazioni. Il numero di veicoli a motore presenti sulla Terra è cresciuto da 40 milioni a 850 milioni. Gli abitanti del pianeta sono triplicati e il numero di quanti vivono in città è passato da circa 700 milioni a 3,7 miliardi. Nel 1950 la produzione mondiale di plastica ammontava all’incirca a un milione di tonnellate, ma nel 2015 si è arrivati a 300 milioni. Nello stesso arco temporale la quantità di azoto sintetizzato (principalmente per ottenere fertilizzanti) è passata da meno di 4 milioni di tonnellate a più di 85. La Grande accelerazione è ancora tale sotto alcuni aspetti, mentre altri – raccolta ittica marina, costruzione di maxi dighe e rarefazione dello strato di ozono – hanno cominciato a rallentare[6].
Come vedremo, Pasolini e Zanzotto non si sono limitati a descrivere, scrivere e decostruire le dinamiche profonde del “miracolo economico”, svelando fin dall’inizio la falsità ingannevole delle sue meraviglie. Partendo dai loro traumi personali, provocati da uno sconvolgimento delle norme secolari percepito come oltraggioso, hanno reagito attraverso un’interpretazione critica della nuova realtà, rileggendo il passato e costruendo nuove proiezioni verso il futuro. È, la loro, una critica profondamente poetica, che interroga il senso dell’azione dell’uomo occidentale e occidentalizzato, gli effetti che questa ha sull’ecosistema, mettendo in evidenza, con forza e senza reticenza, la vocazione distruttiva che essa ha assunto nel mondo contemporaneo. Pasolini ha insistito sulla dimensione totalitaria della società dei consumi, sulla sua capacità di produrre una “mutazione antropologica” irreversibile, di trasformare i corpi e le mentalità degli individui dell’Italia rurale in quelli di consumatori globalizzati, votati a un edonismo artificiale e coatto. Zanzotto invece si è focalizzato piuttosto sugli effetti che le nuove forme di dominio producono sulla natura e sul paesaggio, sostenendo a più riprese l’impossibilità di rimanere nella visione storica classica (la “storia mediterranea”) e affermando la necessità di confrontarsi con un nuovo tipo di temporalità, una temporalità geologica che sconvolge la prospettiva antropocentrica. La lucidità che anima queste interpretazioni critiche, provenendo dalla verticalità noetica e passionale della parola poetica, ha permesso a Zanzotto e Pasolini di affrontare, in autonomia e in anticipo, certi problemi cruciali dell’Antropocene, l’“età geologica dell’uomo”, la nostra epoca. Per comprendere a che punto le loro esperienze poetiche si iscrivano nella prospettiva dell’Antropocene, e come esse possano contribuire alla comprensione di certi problemi che la caratterizzano, è necessario partire da una presentazione semplice di questo concetto:
Antropocene è un neologismo costituito da due termini greci: anthropos che significa “essere umano”, et kainos “nuovo”. Rimanda a una nuova epoca geologica segnata dai comportamenti umani. […] Il pianeta nell’Antropocene ha un clima che si riscalda, è composto sempre meno da terra e sempre più da oceani, e è dominato da una parte dell’umanità. L’attività degli uomini ha modificato la superficie della terra, la costituzione chimica dell’atmosfera e quella degli oceani, venendo così a riorganizzare la vita sulla terra, sia essa umana, animale o vegetale[7].
Questa definizione divulgativa ha il merito di provare a sfuggire al difetto più importante che ha segnato il concetto di Antropocene fin dalla sua nascita, che ebbe luogo nel febbraio del 2000 in un convegno in Messico, quando il geochimico e Premio Nobel Paul Crutzen lo nominò pubblicamente in un suo intervento[8]. Questo difetto consiste nel proporre, per l’ennesima volta, una concezione non sufficientemente problematizzata dell’umano e della natura, ponendola alla base di una narrazione superficiale e limitata degli effetti distruttivi del sistema di produzione-consumo nato circa 250 anni fa in Europa. Non è forse la prima interpretazione che si presenta quando si concentra lo sguardo sui cambiamenti del pianeta? Come per riflesso, si dice “l’uomo distrugge l’ambiente”, perpetuando un’ingenua e idealizzata visione dell’uomo, presente perfino quando si parla di “specie umana”. È una rappresentazione inevitabile? Non è forse vero che se sono “degli uomini” i responsabili dell’alterazione degli equilibri del pianeta, è anche “l’uomo”, “l’umanità” ad esserlo? Induzioni di questo tipo non possono che produrre una visione di superficie, semplicistica e insufficiente di fronte ai problemi etici che sono influenzati da una buona o da una cattiva narrazione dell’Antropocene. Si sa, affidarsi all’idea dell’uomo è un modo rassicurante di difendersi dalla complessità di tutto ciò che riguarda l’umano, il suo spazio ingovernabile attraversato dalla non-coincidenza di sé con sé. Com’è noto, nell’idea dell’uomo risuonano le narrazioni fondanti della caduta nel peccato (visione adamitica), del desiderio della conquista dell’autodeterminazione divina (visione prometeica). Com’è noto, in essa si sente anche l’eco mortale delle avventure coloniali, fondate sull’imposizione del modello sociale e culturale del conquistatore a norma antropologica universale. Una Norma che ricorda come nell’idea dell’uomo si annidi l’onnipotenza narcisistica dell’infanzia, con il suo sottofondo emozionale di vulnerabilità e di colpevolezza. Sembra paradossale dover ripercorrere queste riflessioni dopo che pensatori come Heidegger, Nietzsche, Freud, Lacan, Foucault, Lévi-Strauss, Derrida, Barthes hanno sovvertito e dilatato il campo della filosofia e delle scienze umane, sforzandosi di liberare il pensiero da ogni residuo di umanesimo ingenuo e idealizzante. Perché dunque siamo costretti a rievocarle in questo contesto? È necessario ricordare che i problemi che riguardano l’Antropocene sono stati descritti e annunciati nell’ambito delle scienze definite “dure”, a partire da un certo numero di dati da esse prodotte. Ora, questi dati scientifici sono molto preziosi, poiché permettono di confermare delle constatazioni e delle ipotesi su un piano di certezza garantito dalla misura e dal calcolo. Tuttavia, se è vero che i dati permettono la definizione dei fenomeni dell’Antropocene come problemi reali, essi non costituiscono sic et simpliciter delle interpretazioni di quei problemi, i quali, per la loro complessità, necessitano per essere affrontati del concorso di diversi tipi di razionalità e di diversi saperi. Lo stesso vale per la narrazione dell’avvento e della comprensione dell’Antropocene, nella quale troppo spesso la scienza assegna a sé stessa un ruolo prioritario e neutrale:
Una storia ufficiale dell’Antropocene esiste già: “noi”, la specie umana avremmo in passato distrutto inconsapevolmente la natura fino ad alterare il sistema Terra. Verso la fine del XX secolo, un gruppo ristretto di “scienziati del sistema Terra”, climatologi ed ecologi, ci ha finalmente aperto gli occhi: adesso sappiamo, adesso abbiamo preso coscienza delle conseguenze globali dell’agire umano. Questo racconto del risveglio non è credibile. La contrapposizione fra un passato cieco e un presente lungimirante, oltre a essere storicamente falsa, spoliticizza la lunga storia dell’Antropocene. È più che altro una valorizzazione dei nostri meriti. Il suo lato rassicurante favorisce la smobilitazione. Sono vent’anni, da quando questo discorso è in voga, che ci congratuliamo con noi stessi, mentre la Terra sprofonda sempre di più nei disordini ecologici[9].
Nel descrivere il modo in cui l’Antropocene si è imposta all’attenzione collettiva non si deve correre il rischio di scambiare l’inevitabile aumento (di anno in anno, di decennio in decennio) dell’impatto dei problemi che la costituiscono con l’esistenza di una presa di coscienza. Se è innegabile una crescente diffusione dei contenuti di quei problemi a livello collettivo (ma sulla qualità di questa diffusione molto ci sarebbe da dire), è altrettanto innegabile che essi sono conosciuti e dibattuti da tempo, e che non sono mancati, già dalla metà del XVIII secolo e poi durante il XIX e tutto il XX, dei lanceurs d’alerte lucidissimi e massimamente consapevoli[10]. Pasolini e Zanzotto sono due esempi di questa realtà.
Emerge quindi finalmente la seconda finalità di questo saggio: condurre una lettura incrociata delle opere di Pasolini e Zanzotto per cercare di capire meglio il loro rapporto con la radice profonda dei mutamenti epocali a cui hanno risposto, in modo da contribuire alla costruzione di un’interpretazione più penetrante e complessa delle cause e degli effetti di quella galassia di fenomeni sconvolgenti che si è imposta con il nome ambiguo, ma irrefutabile, di Antropocene. Questa lettura sarà condotta a partire da una profonda fiducia nel valore conoscitivo della parola di questi poeti, quindi, con la viva e ferma convinzione che la critica letteraria, come disciplina di frontiera tra arte, scienze umane e filosofia possa giocare un ruolo di primo piano nella crescita, oggi più che mai necessaria, delle «nuove scienze umanistiche ambientali»[11].
Note
[1] Jacques Lacan, Il seminario. Libro II. L’io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicoanalisi (1954-1955) [1977], a cura di Giacomo B. Contri, Torino, Einaudi, 1991, p. 10.
[2] «Ricordo, inoltre, la profondità di certi stati d’animo così ricchi che ancora oggi quando il mio pensiero si avvicina ad essi può attingervi qualcosa, stati di fertilissimo stupore nei confronti di quella che è la natura, il paesaggio, il vivente, tutto ciò che mi circondava», Andrea Zanzotto, Autoritratto, in Id., Le poesie e prose scelte, a cura di Stefano Dal Bianco-Gian Mario Villalta, Milano, Mondadori, 1999, p. 1206.
[3] Alfonso Berardinelli, La poesia come messaggio sullo stato del mondo, in Nel caldo cuore del mondo. Lettere sull’Italia, a cura di Alfonso Berardinelli, Firenze, Liberal libri, 1999, pp. 76-77.
[4] Andrea Zanzotto, Ti tu magnéa la tó ciòpa de pan, in Idioma, Pps, pp. 768-769.
[5] Id., Qualcosa al di fuori e al di là dello scrivere, Pps, p. 1229.
[6] R. Mcneill-Peter Engelke, La Grande accelerazione. Una storia ambientale dell’Antropocene dopo il 1945 [2016], Torino, Einaudi, 2018, p. 4.
[7] Nathanaël Wallenhorst, L’Anthropocène décodé pour les humains, Paris, Le Pommier, 2019, pp. 24-25 (traduzione nostra).
[8] Cfr. ivi, p. 31. Cfr. Christophe Bonneuil-Jean-Baptiste Fressoz, L’événement Anthropocène. La terre, l’histoire et nous [2013], Paris, Seuil, p. 17.
[9] Ivi, pp. 12-13 (traduzione nostra).
[10] Cfr. ivi, capitolo 11.
[11] Ivi, p. 59 (traduzione nostra).
Alberto Russo Previtali è critico letterario, membro associato del Centro di ricerche LIS “Littératures, Imaginaire, Sociétés” dell’Université de Lorraine e docente a contratto in Italianistica all’Université “Savoie Mont Blanc”. Tra le sue pubblicazioni: Pasolini e Zanzotto: due poeti per il terzo millennio (Cesati, 2021), Zanzotto/Lacan. L’impossibile e il dire (Mimesis, 2019), Il destinatario nascosto. Lettore e paratesto nell’opera di Andrea Zanzotto (Cesati 2018), L’avventura della permanenza. La poesia di Milo De Angelis (a cura di, con J. Nimis, Mimesis 2020).