De Angelis, “La parola che fa esodo”

Milo De Angelis, Credits ph. Viviana Nicodemo

Note in margine a Linea intera, Linea spezzata di Milo De Angelis

di Marco Marangoni  

 

Come si dice nella presentazione della quarta di copertina, questo nuovo libro di De Angelis ha per protagonista la memoria, in cui sembrano affiorare, da un tempo remoto e arcano, fantasmi dalla voce straniante. La tessitura lirica appare quella di un colloquio con le ombre, da sottosuolo; e il linguaggio si bilancia tra realtà e stati di drammatico pathos. E comunque in questo lavoro –dall’intenzione narrativa che articola una galleria di incontri emblematici-  De Angelis ha messo in opera, ancora una volta, forse il suo unico e vero tema: lo spazio inaugurale della parola poetica. Infatti, come già altrove, Linea intera, linea spezzata mette in luce proprio il prodigio dell’ispirazione; ed è quanto emerge direttamente attraverso una delle tante voci-demoni che affiorano in questo libro: “Io ho creduto/ nella tua poesia, Milo, sono stato il primo e ora/ ti dico

vieni qui, presto, prima dell’ultimo volo.”

La voce-demone, voce d’oltre confine -confine “sottile”, “tremendo”-  ha la legittimità del numinoso-oracolare e si fa segnale della poetica che è propria dell’autore, sottolineandone la specifica determinazione drammatica, e proprio a partire dal simbolismo inquietante di quell’ ”ultimo volo”.

 

Se l’itinerario poetico procede dallo spezzarsi del tempo lineare e dell’azzeramento di  ogni accumulazione di significati, la scena cui la memoria ritorna -ma non come a qualcosa di semplicemente antecedente- è questa: “sei destinato a scendere/ in un tempo che hai misurato mille volte/ ma non conosci veramente”; oppure: “l’asfalto che riceve la pioggia e chiama dal profondo,/ci raccoglie in un respiro che non è di questa terra, e tu allora/guardi l’orologio”.

 

Il poeta ci dice che la poesia non si allinea col discorso che discorre di questo e di quello; non è una variazione comunicativa; essa, piuttosto, è prima o dopo la comunicazione in quanto tale: “giungono da un’altra mente,/ le parole, una mente lontana”; la poesia insomma comincia dal punto in cui il discorso comunicativo entra in crisi, non tiene.  E’ questo il punto in cui il senso di una totale contingenza viene avvertito come insostenibile, folle corsa: “Qui tutto diventa veloce, troppo veloce,/ la strada si allontana, ogni casa sembra una freccia/ che moltiplica porte e scale mobili e allora hai paura”. “Nulla ci appartiene” allora, tranne l’evento di questo confronto linguistico-poetico col nulla: “trasalimento di rime contro il nulla”. Il linguaggio poetico si presenta sciolto da ogni funzione ancillare, fino al limite di una identità tra significante e significato, cosa e parola.

 

Di qui la distanza netta che separa la poesia del poeta milanese da ogni altra che non sia radicalmente ispirata, e tanto più da ogni poetica strumentale o ideologica. In quest’ultimo caso è utile ricordare che De Angelis, con altri importanti poeti della sua generazione, si è impegnato, sul finire degli anni ’70, in una militanza poetica per restituire alla parola la sua autonoma dignità espressiva. E tanto quella militanza, diversa da quella dei movimenti ideologici, ha segnato il perimetro della sua poesia, che tra le tante voci-demoni di questo libro ne troviamo una proprio risalente allo “slancio delle assemblee antiche e dei cortei”, mentre chiede al poeta “da che parte stai?”; domanda rispetto alla quale c’è un’unica, categorica risposta: “la poesia non sta dalla nostra parte/ma in un luogo tremendo e solitario, dove nessuno/resta intatto.”

 

E proprio da quel luogo “tremendo e solitario” -abisso che circonda la “gente frettolosa” che “guarda gli scontrini e trova il nulla” – procede in effetti tutta quella potenza di negazione e insieme di affermazione timbrica e ritmica che è propria di De Angelis: quel senso di esordio che ci colpisce in una parola “prossima al nulla”. Sembra che nel cuore di questo linguaggio agisca una forza quieta e vertiginosa: “forza centripeta” che suscita la voce e insieme la disperde. Il linguaggio ruota intorno a un tempo/ “evento”, “solo punto illuminato”: “dove troverai le stagioni/perdute che rinascono stasera”.

 

Di qui il senso di uscita che pervade il gesto poetico, gesto, che come abbiamo già detto, spezza la linearità del tempo quotidiano, ma anche opera una congiunzione: “Oh congiungere il respiro/al tuo segno zodiacale,/ appoggiare la tua storia/a una cittadinanza, vivere per sempre/la notte silenziosa!”

E si può ben comprendere allora come in Linea intera, linea spezzata possa pervenire a espressione il motivo tematico dell’ ”Exodos”, che è il titolo non casuale di ben due liriche contenute nell’ultima sezione del libro.

 

Più precisamente e facendo un passo avanti: solo difronte al disperare di ogni costruzione, nel sentimento più radicale di esilio, il poeta giunge a una risonanza libera da ogni significare , quella che si libera nel silenzio e  nella quieta, appropriante, sempre angosciosa anticipazione della morte: “La serietà della morte ci ha accompagnati per tanti anni”, “ l’abbiamo portata con noi nei supermercati e negli uffici postali”; e,  secondo una linea che va almeno da Heidegger a Blanchot, il poeta dice ancora: “cammineremo da soli nel buio fino al luogo cruciale”, “ costringeremo il nulla a svelarsi”.  Negando i contorni, apparentemente forti dell’esistenza data, la vita, viene tutta convocata, si capovolge nel suo contrario e oltrepassa infine la logica binaria degli opposti, giungendo a una effrazione del senso, analoga a quella di un “leggero zen/ senza dio”.

 

Un tale capovolgimento della sequenza logico-semantica si ridurrebbe banalmente a un atto di dissoluzione se non fosse che la negazione operata dal lavoro poetico è ad un tempo apertura inaudita del linguaggio, eccedenza di senso che la metafora sportiva, tanto caratteristica nel registro di De Angelis ben dice: “morire così, ragazzi miei,/ sospeso nella rovesciata che onorò tutta la squadra/fece grandinare gli applausi”.

 

Si potrebbe a questo punto cadere nell’equivoco di interpretare in modo estetizzante questa poesia, come se si avesse a che fare con una parola chiusa nel suo artificiale assoluto, al di là dei riferimenti realistici che pure appaiono copiosi nel testo. L’equivoco è subito tolto, in realtà, a partire dalla considerazione che per De Angelis vale lo status ontologico del linguaggio. L’arcaico, l’arcano sono richiami presenti e ineludibili nei suoi motivi, come il richiamo alla lingua e alla cultura greca classica nella sua aderenza all’eroico e al tragico.

E si intende così come siano connaturati al lessico di De Angelis certi termini che evocano il senso del limite. Al limite solo dei confini umani, dei confini mortali, un’altra luce si accende, abbandonata ed eroica. La parola si muove sempre cercando quel limite, quella misura in cui il quotidiano e l’eroico si differenziano e si toccano.

 

Ecco davvero illuminarsi il senso dell’intero coincidente con la linea spezzata. Si tratta di un movimento simbolico e stilistico: l’interezza si esplica come ritmo dell’annullamento e insieme del tornare: “Grande /è la scuola dell’esilio e del ritorno/ di ogni amore”, “dove mille voci che credevi disperse ritornano vive/ ed escono dalla prima dimora”.

L’insistenza, nel testo di De Angelis, di termini negativi, sinistri, inquietanti, luttuosi, sono solo in apparenza nichilisti. Al centro di questa poesia c’è piuttosto un’energia che è propria del tragico.

 

Ma torniamo alla tematica forte del presente libro, cioè l’esodo. L’esistenza anzitutto viene a chiarirsi, nella sua forma più radicale, come uscita (exitus) o come esodo (exodos), in un “fuori luogo” – dentro questa dimensione di uscita, si può leggere tra l’altro, molto produttivamente, l’intera fascinazione in De Angelis delle periferie cittadine.

L’esodo aderisce certo a una chiamata, a un destino, costi quel che costi, ritualizzando per questa via ancora un tempo. Ma si tratta di un tempo in cui “il bambino e la morte / si congiungono in un solo cerchio”, e il viandante che in esso va, va “nomade tra i nomadi”.

***

ESTRATTI

Sali sul tram numero quattordici e sei destinato a scendere
in un tempo che hai misurato mille volte
ma non conosci veramente,
osservi in alto lo scorrere dei fili e in basso l’asfalto bagnato,
l’asfalto che riceve la pioggia e chiama dal profondo,
ci raccoglie in un respiro che non è di questa terra, e tu allora
guardi l’orologio, saluti il guidatore. Tutto è come sempre
ma non è di questa terra e con il palmo della mano
pulisci il vetro dal vapore, scruti gli spettri che corrono
sulle rotaie e quando sorridi a lei vestita di amaranto
che scende in fretta i due scalini, fai con la mano un gesto
che sembrava un saluto ma è un addio.

 

***

Qui tutto diventa veloce, troppo veloce,
la strada si allontana, ogni casa sembra una freccia
che moltiplica porte e scale mobili e allora hai paura.
Senti i tuoi passi in migrazione,
vuoi rallentare, hai paura
e allora entri in questa sala di via Cadomastro,
saluti gli ultimi giocatori di biliardo,
pronunci lentamente un commento preciso sulle sponde
o sull’angolo di entrata, fai una piccola scommessa
e sorridi e ti acquieta il panno verde
come un prato dell’infanzia, ti acquietano i bordi
di legno che ora contengono il tuo evento
e la forza centripeta conduce l’universo
in un solo punto illuminato.

 

***

 

Piazza cavalleggeri 2

 

     a Piero Bigongiari

 

 

Amico mio, ti vedo, ti vedo
in una spiaggia toscana,
mentre passa un treno locale con tutti
i passeggeri affacciati al finestrino,
tu mi offri sorridendo il bicchiere illuminato
e l’agenda oggi torna viva
e il tempo scolpisce il nostro incontro,
trasalimento di rime contro il nulla,
e noi vediamo i nostri versi,
in un cumulo di sassi, portiamo
il destino in un esametro.
Da te ritorniamo ogni estate,
pietra rimasta tra quelle migranti,
e tu silenzioso ci additi
la grande finestra delle ore.
Si è fatto giorno. Grande
è la scuola dell’esilio e del ritorno
di ogni amore.

 

                                                             ***

 

EXODOS (II)

 

Morire giovane, questo l’ho sempre voluto, morire
in primavera, anticipare il lento disfarsi del pensiero,
il ginocchio marcio, morire come il tuffatore russo
che batte la nuca sul trampolino, come un poeta
che ha dato tutto al primo libro, leggero zen
senza dio né estrema unzione, morire così, ragazzi miei,
sospeso nella rovesciata che onorò tutta la squadra
e fece grandinare gli applausi, morire giovane
e sdraiato nel punto chiaro della stanza, annegare
nel sangue che esce sempre più forte, correre nelle vene
che si spalancano, fare con loro un giro di campo.

 

 

da: Linea intera, Linea spezzata (Mondadori, 2020)

 

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