Arte contemporanea e spiritualità, Benedetta Tagliabue e Enzo Cucchi

A  N  T  E  P  R  I  M  A

L’EDIFICAZIONE DELLA CHIESA DI SAN GIACOMO IN FERRARA 

Sono durati dieci anni i lavori per l’edificazione del complesso monumentale di San Giacomo Apostolo in Ferrara. Ci troviamo di fronte a un lavoro straordinario: un’opera di architettura e di arte contemporanea, frutto dell’incontro fra un grande architetto, Benedetta Tagliabue  e un artista internazionale, Enzo Cucchi.

Un umile capanna di pescatori fatta di canne e cemento grezzo. Così appare a prima vista la Chiesa di San Giacomo che verrà inaugurata a Ferrara il 16 ottobre 2021. Uno spazio circolare, avvolgente e solenne che ci riporta a un origine, a una forma archetipica e spirituale. Questa opera d’arte nata dalla sinergia dell’architettura di Benedetta Tagliabue con l’arte figurativa di Enzo Cucchi, plasma le superfici ruvide delle pareti del tempio con croci e ceramiche che evocano un’idea di creazione, di rinnovamento dell’essere umano che parte dallo spirito.

In Anteprima vi mostriamo le immagini della riflessione architettonica di Benedetta Tagliabue e alcune opere di Enzo Cucchi in essa contenute.

Prendendo le mosse dall’osservazione delle opere di Cucchi che si fondono nelle strutture architettoniche di Benedetta Tagliabue, don Roberto Tagliaferri, liturgista della chiesa, consegna a questo blog, un’intensa riflessione sul legame tra arte contemporanea e spiritualità.

La Dedicazione della chiesa da parte dell’Arcivescovo Monsignor Gian Carlo Perego, avrà luogo il prossimo 16 ottobre alle ore 15.00. Da quel momento la chiesa sarà aperta al culto e liberamente alle visite. La diretta streaming dell’evento verrà trasmessa sul sito dell’arcidiocesi di Ferrara.

(Fabrizio FantoniLuigia Sorrentino)

LA CHIESA DI SAN GIACOMO A FERRARA

DI ROBERTO TAGLIAFERRI

 

L’inaugurazione della nuova chiesa di S. Giacomo a Ferrara offre l’occasione per fare il punto sul rapporto tra religione e linguaggi estetici, nella fattispecie con il progetto di Benedetta Tagliabue e di Enzo Cucchi.

Da quando le neuroscienze hanno corroborato la riflessione fenomenologica sul valore della percezione nella conoscenza a scapito dello “errore di Cartesio”, tutto concentrato sulla ragione concettuale, si è registrato un grande interesse sull’estetica, sull’epistemologia delle emozioni, che ha coinvolto anche la teologia e la pastorale della Chiesa. Specialmente nelle discipline come la scienza liturgica, si è affermato un approccio pragmatico, meno interessato alla semantica dei testi e delle dottrine e più attento alla performance rituale dei sacramenti della fede. L’efficacia performativa dei riti riguarda sia Dio sia l’uomo, cosicché risulta sorpassata una visione quasi miracolistica e si fa strada un’interpretazione attenta ai molteplici codici simbolici del rito. Tra questi vi sono l’architettura dello spazio sacro e il programma iconografico che l’accompagna. Essi non sono linguaggi indipendenti, ma devono risultare sinergici con la multiformità dell’azione liturgica e questo comporta un’enorme attenzione alla complessità sinestesica. Come nel teatro, a maggior ragione in un rito, spazi, tempi, attori, musiche, canti, danze, profumi, travestimenti, immagini, parole proclamate, assemblea, devono trovare sintesi in una regia con competenze plurime per ottenere il massimo di performatività.

La chiesa di S. Giacomo ha comportato questo sforzo empatico di tante competenze per rendere efficace il progetto architettonico. Mi limiterò ad offrire alcuni spunti su spazio architettonico e programma iconografico, perché solo la celebrazione liturgica in atto potrà verificare la bontà degli intendimenti dei progettisti.

L’idea dell’architetto Benedetta Tagliabue era di creare un luogo di sogno, come una mongolfiera che dal cielo plana sulla terra. Subito si è sentita l’esigenza di trovare gli elementi simbolici per una chiesa. Innanzitutto un vettore longitudinale ed iniziatico dal punto zero della soglia d’ingresso doveva produrre un cambiamento nei fedeli in un cammino verso l’eschaton, ovvero verso il futuro, il definitivo nello sfondamento spaziale dell’abside, segnata da una grande croce gemmata, simbolo di morte e risurrezione. Il percorso, guidato da una grande croce lignea sospesa al soffitto, dall’ingresso accompagna i fedeli fino al presbiterio e all’abside. Nell’intersezione dei due bracci un vettore verticale virtuale congiunge l’altare con lo sfondamento del tetto con la cupola come un “axis mundi”, che congiunge cielo e terra.

Su questi spunti architettonici sono intervenuti il teologo e l’artista, che hanno assecondato l’idea iniziale immettendo sulle pareti di cemento armato, lasciato crudo, grandi croci di pietra su cui si appoggiano ceramiche nere come fazzoletti con scene della storia della salvezza. Le grandi croci segnalano e ritmano il pellegrinaggio del cristiano, ricordando che “solo passando attraverso la passione si giunge alla gloria della risurrezione”. I riquadri, opera di E. Cucchi, da un lato rievocano gli eventi dell’Antico e del Nuovo Testamento secondo il metodo tipologico antico di promessa e adempimento. Sulla destra, entrando, sono evocati gli articoli della fede d’ Israele: creazione, patriarchi, esodo dall’Egitto, pellegrinaggio nel deserto, dono della Legge, dono della terra, promessa di un Messia. Sul lato sinistro il compimento della promessa con il mistero dell’Incarnazione del Messia e con le leggi per il cristiano in cammino nel tempo: “Se non diventerete come bambini non entrerete nel Regno dei Cieli” e “Se il chicco di grano caduto in terra non muore, non produce frutto”. Sull’ultima parte attigua al presbiterio il passaggio dalla missione di Gesù alla missione della Chiesa, con il simbolo antico della nave-Chiesa sballottata dai flutti e tenuta a galla dall’albero della croce. Da ultimo, va segnalato all’ingresso lo spazio battesimale con l’invito iniziatico a passare per la porta stretta e con scene battesimali dell’Antico e del Nuovo Testamento.

Se dal punto di vista contenutistico non vi sono novità nell’ideazione della chiesa di S. Giacomo, invece dal punto di vista iconografico le innovazioni sono profonde, perché non hanno riscontro nella storia dell’arte ecclesiale. I soggetti di Cucchi, infatti, si staccano dai modelli tradizionali e tendono non a descrivere, a rappresentare, ma ad alludere, attraverso indizi che costringono a pensare. Lo spettatore poco rassicurato nelle sue credenze sapute, è costretto a riflettere e ad attivare l’immaginazione simbolica.

 

L’organicità di arte e architettura si avverte nel dialogo tra cemento armato delle pareti con il marmo delle grandi croci e dell’altare, un grande masso cubico estratto da una cava in Puglia. Il tutto ha l’aspetto del non finito, ma è un effetto voluto per percepire nella potenza della materia l’afflato dello Spirito. L’inevitabile fastidio dei fedeli è un rischio calcolato dall’arte contemporanea, che intende produrre uno shock nello spettatore per creare emozioni ed esperienze profonde, non solo rappresentazioni legate alle credenze ricevute per “epidemiologia” sull’autorità di chi ce le ha trasmesse. Luogo architettonico e icone, insomma, intendono attivare insieme un’esperienza religiosa genetica e innovativa.

Su questo fronte si apre un capitolo inedito del rapporto tra religione e linguaggi estetici. È risaputo che da molto tempo si è rotto il patto che legava arte e fede per tanti motivi che non si possono qui rievocare. Tuttavia la nuova sensibilità epistemologica sulla fondamentale dimensione estetica della conoscenza, corroborata dalla fine delle credenze per contagio di idee, hanno riavvicinato Chiesa e arte. L’arte stessa, infatti, lamenta un impoverimento della sua ispirazione, lasciata troppo spesso in balia delle trovate estemporanee e accetta volentieri le nuove sfide della committenza ecclesiastica. D. Freedberg sostiene con vigore la fine della potenza dell’arte, che nel mondo antico creava presenze soprannaturali e che oggi è solo comunicativa e frivola. L’antropologo Carlo Severi descrive la “mnemotecnica” della “Bibbia dakota”, che con i suoi pittogrammi mette relazione percezione e memoria per tramandare il modello culturale.

La chiesa di San Giacomo a Ferrara è un esempio da tenere in considerazione per le ragioni più profonde attivate nella progettazione, che ha inteso riattivare il “genius loci” dove non ci sono solo uomini, ma si respira la presenza del Sacro nello stormire delle fronde dei grandi alberi che circondano la chiesa all’Arginone di Ferrara.

Salsomaggiore Terme, 11 ottobre 2021

LE OPERE DI ENZO CUCCHI

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Laudatio Funebris per Andrea Zanzotto

Andrea Zanzotto

In questi giorni abbiamo celebrato il centenario della nascita e il decennale della morte di Andrea Zanzotto, il poeta di Pieve di Soligo Versato nel 2000 del quale ci hanno parlato Andrea Cortellessa con la sua monografia, Zanzotto. Il canto nella terra (Editori Laterza, 2021), Alberto Russo Previtali con  Le estreme tracce del sublime. Studi sull’ultimo Zanzotto (Mimesis, 2021) e Pasolini e Zanzotto. Due poeti per il terzo millennio (Franco Cesati Editore, 2021) con saggi di Giorgia Bongiorno, Matteo Giancotti, Massimo Natale, Jean Nimis, Giuliana Nuvoli, Alberto Russo Previtali, Luca Stefanelli, Luigi Tassoni, dei quali libri hanno scritto su questo blog, Giovanna Frene e Chiara Fattorini. Non poteva mancare l’appuntamento in memoria di uno dei maggiori poeti del Secondo Novecento, la  Laudatio funebris che Stefano Dal Bianco ha tenuto nel giorno del funerale di  Zanzotto nel Duomo di Pieve di Soligo, il 21 ottobre 2011.

(Luigia Sorrentino)

 LAUDATIO FUNEBRIS  PER ANDREA ZANZOTTO

DI STEFANO DAL BIANCO

Andrea Zanzotto era uno che ti metteva di fronte al fatto evidente, incontrovertibile, che noi non siamo tutti uguali. Non siamo uguali nella vita, perché ognuno ha ricevuto i suoi talenti specifici, in quantità e in qualità, e non lo siamo davanti alla morte, perché qualcuno si è impegnato più di altri per farli fruttare, i suoi talenti. A fronte di un corredo straordinario di talenti, Andrea Zanzotto si era assunto in pieno la responsabilità di farlo fruttare, questo corredo. Ed è evidente che la sua non è stata una passeggiata, e quanto abbia dovuto pagare quotidianamente il suo impegno in questo senso.

Non era uno che si assecondava. Non era uno che si dava credito. Era uno che in tutti i giorni della sua vita – in quello che ha fatto, in quello che ha detto, in quello che ha scritto – si è posto sempre, prima di tutto, contro se stesso.

Non so se sia mai esistito un grande poeta che non abbia questa disposizione come fondamento della sua grandezza.

Ci chiediamo tutti dove possa essere Andrea Zanzotto in questo momento, e la risposta forse non è tanto complicata: credo che sia dove è sempre stato, e cioè un po’ qui e un po’ non qui.

Quelli che l’hanno conosciuto, o anche solo incontrato una volta, sanno bene a che cosa mi riferisco: Andrea è sempre stato un po’ «non qui». Non potevi mai averlo «tutto per te», né lui né la sua poesia. Era impossibile. Perché lui, come la sua poesia, doveva fare i conti con tutto, doveva inglobare tutto, doveva costantemente misurarsi con le cause prime. E il messaggio che ti mandava, il messaggio che emanava dalla sua persona era sempre qualcosa come: «Ricorda che chi non ha capito tutto non ha capito niente».

Che cosa aveva capito, Andrea Zanzotto. Lui che fino agli ultimi giorni insisteva nell’annettersi alla schiera di coloro che non hanno capito niente, come tutti noi.

Negli ultimi dieci anni aveva trovato una sua serenità di fondo, e negli ultimi due libri che ha scritto (Sovrimpressioni e Conglomerati) questo si vede bene perché lui passa di là, passa dall’altra parte. Dà del tu agli dèi che sono nel paesaggio. Parla dell’esistenza di un’altra razionalità, parla di «altre ragioni» in seno alla Natura.

A un certo punto, nelle poesie (siamo nel 2001), il suo ‘personaggio’ si dà per morto, assieme alla Natura. Cioè: il soggetto che scrive e la Natura si trovano assunti in una stessa morte reciproca.

Poi – in Conglomerati – qualcun altro si trova a girare per i versi e in una Natura ormai del tutto plastificata.

Questo personaggio si presenta come il Doppio di se stesso redivivo, come un perispirito, come un corpo lunare, o anche come un «povero cristo» risorto e plastificato a sua volta.

Poi, sempre in Conglomerati, ancora succede che questo Doppio muore di nuovo, incontra il suo Inferno specifico. Ma comunque continua a esistere: come dice lui stesso: si mette «tre volte invano sul chi vive». Attraversa anche il Purgatorio nelle sue fasi, il Paradiso Terrestre, il Paradiso con tutti i cieli ed esce fuori. Esce fuori dal Paradiso: quindi è al cospetto di Dio – del Dio dei poeti, che è lo stesso Dio degli scienziati – e gli dice: «Ci siamo ehi! pari pari».

È così che si apre l’ultima sezione di Conglomerati, che si intitola Versi casalinghi.

Cioè: questo uscire fuori, dopo tutte queste avventure trascendenti, questo trovarsi al cospetto di Dio, è chiamato casa. E infatti questo uscire fuori non è altro che trovarsi a passeggiare nel solito sentiero di Solighetto. È un essere qui, fra di noi, come non mai. È anche finalmente quindi un abitare la Terra… Continua a leggere

“Zanzotto. Il canto nella terra”

Andrea Zanzotto

Nel 2021 ricorre il centenario della nascita di Andrea Zanzotto, unanimemente considerato uno dei grandi maestri della poesia italiana del secondo Novecento.

Uno dei più attivi critici e studiosi della sua generazione, Andrea Cortellessa, sintetizza in questo volume i termini della sua già lunga fedeltà al poeta. La critica ha per lo più indagato, sinora, il tessuto linguistico e stilistico di quello che è stato definito «il Signore dei Significanti», facendo così perdere di vista che si tratta anche di una poesia densissima di ‘significati’, personali e collettivi, di traumatica urgenza, sebbene psichicamente schermati e ‘cancellati’ (come i temi dell’ambiente e del paesaggio, nella loro stratificazione storico-culturale).

La monografia di Cortellessa risponde all’esigenza di una lettura che si rivolga anche a un pubblico più vasto di quello specialistico, come quello degli studenti universitari.

Pubblichiamo il primo testo integrale di Andrea Cortellessa da “Zanzotto, Il canto nella terra” (Editori Laterza, 2021).

L’oltranza (Possibili prefazi)

di Andrea Cortellessa

Nulla vi è di più umano che oltrepassare ciò che è
Bloch

  1. Versato nel Duemila

Negli interventi e nelle conversazioni dei suoi ultimi anni Zanzotto ricordava spesso, con un sorriso, una poesia breve di Montale (nel cui «stile tardo», nell’estrema diversità delle rispettive pronunce, si riconosceva abbastanza)[1]: sono i versi che concludono il Diario del ’71 (e che, c’è da scommettere, ripetevano una battuta frequente nelle conversazioni con Eusebio):

 

La mia valedizione su voi scenda

Chiliasti, amici! Amo la terra, amo

 

Chi me l’ha data

 

Chi se la riprende.[2]

 

Senz’altro lo incuriosivano quei due lessemi rari, quasi misterici, che occhieggiano nella dizione en pantoufles del maestro, nei suoi Versi casalinghi insomma (come battezzerà i propri, Zanzotto, nell’ultima raccolta Conglomerati ➣ 288). Se valedizione ricalco un termine raro anche in inglese, che in quella lingua vale «saluto estremo» (c’è una poesia celebre, con la quale John Donne s’accomiata dalla moglie, che s’intitola appunto A Valediction; Giovanni Giudici semplificava in «Addio»[3], ma di sicuro Montale lo prende da lì), quella dei chiliasti è una setta religiosa davvero esistita, fondata a fine Ottocento da un certo Charles Taze Russel, che predicava il prossimo avvento sulla Terra del Regno Millenario di Cristo (dal greco khìlioi, «mille», prendeva il nome la setta). Colui che per antonomasia «rimane a terra» quasi in extremis ribadiva il proprio appartenere solo a questa terra, appunto, senza tentazioni millenaristiche: proprio lui che, nella poesia ‘alta’ della sua prima vita, Bufera e altro, tante memorabili immagini apocalittiche aveva sciorinato[4]. Con ogni probabilità memore del whimper, anziché del bang, col quale un suo maestro aveva profetizzato che il mondo si sarebbe spento[5], a questa sua polemica Montale dedica non pochi episodi della sua (troppo) generosa vena tarda. Se «Il tempo non conclude / perché non è neppure incominciato», come aveva scritto in Satura contro Teilhard de Chardin[6], non si dà Apocalisse – che almeno avrebbe il pregio di portare con sé la Rivelazione – bensì Apocatastasi, una fine che non smette mai di finire: «l’escatologia […] è un fatto di tutti i giorni. / Si tratta delle briciole che se ne vanno / senza essere sostituite»[7].

Zanzotto riprende questa posizione proprio quando nei suoi interventi ‘civili’ più pressante si fa l’allarme riguardo allo scempio ambientale; come un controveleno ironico, ma quanto mai amaro, ai toni apocalittici dei chiliasti del suo tempo – a partire da se stesso. Più in generale ironizza sulla sostanza propriamente apocalittica del millenarismo: cioè sulla Rivelazione che il futuro dovrebbe riservarci. In una conferenza del 1989 – annata abbastanza millenaristica, in effetti – sbotta a un certo punto: «Che cosa mai ci succederà, avvicinandoci al duemila? Precisamente niente! È un tempo del tutto convenzionale, il duemila»[8] (ma «convenzionale», nel suo idioletto, si connota d’un significato particolare ➣ 59).

Eppure, come nel caso di Montale, questa sua impazienza era rivolta anzitutto al se stesso d’antan. Intervistato qualche anno prima da Alberto Sinigaglia in un volume dal titolo Vent’anni al Duemila, ironizzava sull’«atmosfera chiliastica» di allora[9]:

 

Bisogna soffermarsi un po’ su questo numero: 2000. Io scrivevo quasi con tremore, già nel 1952-53 (ai tempi della mia opera Vocativo), «Ah, ripeto io, versato nel 2000». Mi sentivo come catapultato verso il 2000 o vicino a uno strapiombo chiamato 2000. Ora che il tempo, la scadenza è così vicina, mi sembra che tutto sommato non esista un gran baratro tra quegli anni ’50 e gli anni ’80, nonostante la quantità enorme di tensioni e di eventi che sono apparsi in questo trentennio, e così sono portato a pensare anche ai prossimi vent’anni come a tempi non dissimili dagli attuali, soprattutto per quanto riguarda l’andirivieni di certe dinamiche tipiche dei fantasmi della poesia.[10]

 

In realtà nelle pagine seguenti, non solo circa la poesia del Duemila o comunque degli anni a venire, Zanzotto si mostrava buon profeta; ma qui a interessarci è lo sguardo ‘retrotopico’, per dirla con Zygmunt Bauman[11], rivolto alle proprie passate profezie. Niente di più chiliastico dell’immagine di Vocativo ricordata con un sorriso da questo Zanzotto, cioè Fuisse: dove prende la parola da morto e sepolto, cioè letteralmente da sottoterra, «chiuso […] nel regno della rovere e del faggio» (M 188, P 154 ➣ 172-174). La prospettiva straniantemente ‘postuma’ (simile a quella della voce narrante di un film di quegli anni, Sunset Boulevard di Billy Wilder, 1950) ci proietta in una dimensione infinitamente passata (del verbo «essere», in latino, il titolo riprende appunto l’infinito passato), che trascende i tempi umani giungendo a rapportarsi con quelli geologici (come insisterà a dire nella citata intervista futurologica: «ci soffermiamo troppo poco sulla megastoria, ragioniamo per così dire tolemaicamente, in termini di microstoria antropocentrica»)[12]: in Fuisse «ogni smorto desìo della vita» si sedimenta negli «strati della terra», sprofonda in «abissi di carbone» e prefigura il momento in cui si «confonderà in marmo».

Ma è appunto la prefigurazione a colpire in questi versi, riletti a posteriori: il sognare una «futura età» di chi è «versato nel duemila». Il soggetto è versato anche perché si esprime in ‘versi’ – il componimento è stato finora letto soprattutto per il suo aspetto metaletterario, che anticipa il manierismo di IX Ecloghe e oltre – ma soprattutto per la sua postura: per il suo essere versato, o ‘gettato’, nella dispersione del tempo. Fuisse ‘traduce’ così, in termini paradossali, le ritornanti crisi depressive del suo autore (violenta, in specie, quella sofferta nel ’50 ➣ 86) alludendo più in generale a quella «gettatezza», la «deiezione» come «modo esistenziale dell’essere-nel-mondo», a suo tempo codificata dal fosco maestro di una generazione, il Martin Heidegger di Essere e tempo (ma di recente rilanciata dalla sua Lettera sull’«umanismo»)[13]: che al fondamentale convegno di San Pellegrino del ’54 l’esistenzialista Zanzotto aveva opposto agli ottimismi ai realismi alle magnifiche sorti e progressive degli engagés del suo tempo (➣ 87-88).

Nel primo testo di poetica che abbia conservato, e che a quegli anni risale, Situazione della letteratura (additando in Kafka il suo testimone più esemplare)[14], non a caso Zanzotto impiega metafore geologiche («oggi noi siamo sulla stessa ‘frana’ della generazione che ci precedette» e, con un pensiero all’amato Rimbaud, «la rugosa realtà preme d’intorno, e può imporre il silenzio massiccio, minerale della devastazione»: M 1088 e 1094)[15]: le stesse che splendono nel primo grande saggio da lui dedicato alla poesia altrui, quello su Montale del ’53, L’inno nel fango («la terminologia geologica s’impone come la più adatta per parlare dello spirito divenuto oggetto, dell’uomo fatto in definiva solo di terra»: SL I 16) che, come e più degli altri del suo autore, si deve leggere anzitutto come autoritratto in cifra[16] (➣ 42-48; sulla lignée ‘geologica’ della poesia europea, da lui ipostatizzata in Montale ➣ 214-215).

In Situazione della letteratura giunge a dire, Zanzotto, che l’unico «senso umano sufficiente a giustificare […] una ricerca letteraria» è «vicino al consummatum est» (M 1091): cioè appunto a una condizione trapassata, estinta come quella della voce sepolta di Fuisse. Proprio la condizione psicologica della «depressione» menziona Heidegger come esempio di «gettatezza», in cui «l’Esserci diviene cieco nei confronti di se stesso»[17] («pieghe tra pieghe della terra / cieca ad ogni tentazione d’alba») e tende «a imprigionarsi in se stesso»[18] («Chiuso io giaccio […] / Lontana ogni opera ogni umano / o sovrumano moto […]. / Nel silenzio ricado»; per l’imagery claustrofobo-claustrofila che ossessiona un po’ tutto il corpus ➣ 130-135, 210-211). E certo Zanzotto qui pensa anzitutto all’ambigua prospettiva dell’«Essere-per-la-morte»: «imminenza che incombe» in cui secondo Essere e tempo «si rivelano l’esistenza, l’effettività e la deiezione dell’Esserci»[19], ma che nella sua anticipazione-prefigurazione e nella sua «angoscia»[20] rappresenta altresì, per Heidegger, l’unica «possibilità dell’esistenza autentica»[21] e, addirittura, l’unica «libertà»[22].

Ma la pagina che segue (nella serie degli scritti di ‘poetica’ che nel «Meridiano» recano l’etichetta di «Prospezioni e consuntivi» ➣ 166-167), del 1959, date tali premesse reca un titolo sorprendente: Una poesia ostinata a sperare. È il primo di una lunga serie di gesti, che si riveleranno tipici di Zanzotto, per cui è al fondo del ‘negativo’ che si trovano i resti più coriacei di vitalità: il carburante col quale «muoversi in avanti, superare la durissima impasse attuale» (M 1097) e muovere «dalla poesia alfa […] alla poesia omega, ma sempre su una stessa linea di sviluppo e anche di reversibilità». Lì dov’è il pericolo omega si trova pure la salvezza alfa: così gli ha insegnato il più decisivo dei maestri (del quale fa infatti risuonare le parole), Hölderlin[23].

Alfa e Omega, del resto, se li porta nel nome: A e Z. E se tante sono le immagini di fine (e dopo la fine) che incontreremo nel corpus, almeno altrettante sono quelle che ci offre, Zanzotto, di momenti iniziali, esordiali, inaugurali[24]. In un intervento dell’82 (giocando a rovesciare una nota nozione freudiana)[25] definisce «piacere del principio» quel «piacere intrinseco alla vita nel suo autoporsi, che sta al di qua del principio del piacere» e che della poesia come deflagrante «donazione» è il primo dei moventi (Una poesia, una visione onirica?, M 1293 ➣ 21).

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Ritratto di Andrea Zanzotto

In occasione del centenario dalla nascita, vi proponiamo il ritratto del grande poeta italiano, Andrea Zanzotto, (Pieve di Soligo, 10 ottobre 1921 – Conegliano, 18 ottobre 2011), realizzato da Carlo Mazzacurati e Marco Paolini poco prima della scomparsa del poeta.

Zanzotto, il poeta del terzo millennio

Andrea Zanzotto

ANDREA ZANZOTTO: LE ESTREME TRACCE DEL SUBLIME

DI CHIARA FATTORINI

L’imminenza del centenario della nascita di Andrea Zanzotto è un tempo prezioso, che ci permette di vedere in una luce nuova e più viva l’importanza di questo poeta nel panorama della letteratura europea del secondo Novecento e di inizio millennio. La fecondità di questo tempo è testimoniata dal lavoro di alcuni studiosi, che hanno sentito questa ricorrenza come l’occasione propizia per una ricerca unitaria sull’ultima produzione del poeta – quella iniziata con Meteo (1996), proseguita con Sovrimpressioni (2001) e culminata nell’“exit opus” Conglomerati (2009). Alla base di questo progetto c’è innanzitutto l’idea che di questi ultimi libri, per ragioni cronologiche, molto sia ancora da indagare, analizzare e comprendere. Come scrive nell’Introduzione il curatore del volume, Alberto Russo Previtali, in quest’ultima fase Zanzotto non solo ha confermato e approfondito “le conquiste conoscitive più mature della sua poesia”, ma è andato anche oltre, “spingendo il proprio dire dentro le tensioni e le dinamiche profonde degli albori del millennio, in un superamento interno della propria posizione di soggetto e di poeta”.

L’anniversario è quindi l’occasione “per tornare ai testi con un nuovo sguardo, con nuove domande e con nuove esigenze”, per dialogare con Zanzotto, per interrogarlo sui problemi di oggi a dieci anni dalla sua scomparsa, per cercare di capire i modi della sua presenza nella contemporaneità. Così è nata la monografia collettiva intitolata Le estreme tracce del sublime. Studi sull’ultimo Zanzotto, in cui otto studiosi riconosciuti della critica zanzottiana si confrontano con “il carattere estremo, in tutti i sensi del termine’ della fase finale dell’itinerario del poeta di Pieve di Soligo.

Le voci che si susseguono in questa monografia si addentrano negli aspetti più importanti della seconda “pseudo-trilogia” zanzottiana (che viene dopo quella rappresentata da Il Galateo in bosco, Fosfeni e Idioma), per capire ciò che questa poesia estrema può dirci riguardo alle grandi problematiche del XXI secolo, dal cambiamento climatico alla distruzione del paesaggio. La visione privilegiata di Zanzotto, testimone dei grandi cambiamenti avvenuti tra i due secoli, gli ha permesso, infatti, di avere una prospettiva lungimirante sulla condizione dell’uomo contemporaneo, e di assistere – come dice Russo Previtali – “alla perdita sempre più radicale, per il soggetto, della possibilità di orientare il proprio essere nel mondo attraverso la fascinazione erotica e il sentimento del sublime”.

La monografia è suddivisa idealmente in due parti: nella prima troviamo dei saggi panoramici, che presentano le grandi tematiche della pseudo-trilogia in maniera trasversale, mentre nella seconda si passa alla lettura e all’analisi delle singole opere. I saggi di questa seconda parte prendono spesso le mosse dall’approfondimento di concetti-figure e di linee guida presentati nei saggi della prima. Continua a leggere

Pasolini e Zanzotto, poeti della contemporaneità

Pier Paolo Pasolini

Andrea Zanzotto

UN SECOLO, E IL FUTUROCON PASOLINI E ZANZOTTO

di Giovanna Frene

 

Dopo i recenti volumi Il destinatario nascosto. Lettore e paratesto nell’opera di Andrea Zanzotto (Franco Cesati Editore 2018) e Zanzotto/Lacan. L’impossibile e il dire (Mimesis Edizioni 2019) – nei quali da un lato veniva ricostruita la concezione zanzottiana di destinatario mediante le traiettorie delle prose di poetica e dei paratesti nella poesia, dall’altro veniva tracciata la poliedricità dell’influsso lacaniano nell’opera del poeta –, lo studioso e critico Alberto Russo Previtali con questo suo nuovo lavoro si afferma ormai come uno dei più sicuri esperti dell’opera poetica di Andrea Zanzotto, avendo curato quest’anno anche il volume Le estreme tracce del sublime. Studi sull’ultimo Zanzotto (Mimesis Edizioni 2021), parimenti edito in concomitanza con le celebrazioni per il Centenario della nascita del poeta di Pieve di Soligo.

 

Come scrive l’autore nell’introduzione, a legare Pasolini (di cui ricorre il centenario della nascita il prossimo anno) e Zanzotto non è solo il fatto di essere praticamente coetanei, ma di condividere, oltre alla solida centralità nella poesia del Secondo Novecento, la fedeltà ai valori più intrinseci e sorgivi della poesia, fattore che ha permesso loro di misurare con la parola poetica, in anticipo sui tempi, tutti gli scalini del degrado etico-ecologico che ha portato all’attuale crisi italiana e globale. Tutti ricorderanno la celebre poesia in dialetto di Zanzotto, inserita in Idioma (1986), dove egli ricorda la sua infanzia, parallela a quella di Pasolini, ma lontana, seppur non distante geograficamente: i due poeti da adulti avranno invece molte occasioni per confrontarsi sui cambiamenti in atto nel nostro paese a partire dagli anni Sessanta, vissuti da entrambi come cambiamenti traumatici che si riflettono nella loro opera. È su questo terreno comune che Russo Previtali va a rilevare i punti di similitudine (d’altro canto già definiti da Zanzotto nella citata poesia con il verso “di ciò che vale avevamo la stessa idea”) e le diversità tra i due autori, oltretutto avvallati dalla reciproca attenzione critica durata praticamente fino all’ultimo.

Sulla falsariga di questa testimonianza autoriale parallela e intrecciata, dunque, lo studioso formula e dimostra la sua ipotesi critica, ossia che i due si possano guardare oggi come altissimi e precoci testimoni, se non profeti, di quella che viene definita la “Grande accelerazione” dell’Antropocene. Iniziando con il grattare sotto la patina dorata delle dinamiche del “miracolo economico” italiano, da Pasolini e Zanzotto descritte e decostruite, i due poeti hanno saputo leggere sotto le insidie di un falso progresso i guasti che ne sarebbero conseguiti, fino al terribile oltraggio etico e fisico perpetrato ai danni all’ecosistema. Questa parabola discendente che porta alle degenerazioni del mondo (globale) contemporaneo assume però anche connotazioni diverse nei due poeti: “Pasolini ha insistito sulla dimensione totalitaria della società dei consumi, sulla sua capacità di produrre una “mutazione antropologica” irreversibile, di trasformare i corpi e le mentalità degli individui dell’Italia rurale in quelli di consumatori globalizzati, votati a un edonismo artificiale e coatto. Zanzotto invece si è focalizzato piuttosto sugli effetti che le nuove forme di dominio producono sulla natura e sul paesaggio, sostenendo a più riprese l’impossibilità di rimanere nella visione storica classica (la “storia mediterranea”) e affermando la necessità di confrontarsi con un nuovo tipo di temporalità, una temporalità geologica che sconvolge la prospettiva antropocentrica”.

È dunque nel nodo della definizione complessa, e non riduttiva, di “Antropocene” – quindi nella piena coscienza che l’attività umana ha modificato forse irreversibilmente la vita sull’intero pianeta, come le sua superficie –, che Pasolini e Zanzotto hanno proiettato (forse Zanzotto, per motivi biografici, in maniera più lancinante) le loro profezie che ben oltrepassano la semplice idea di distruzione dell’ambiente, legata ancora a una visione rassicurante e idealizzante. Ed è su questa base, la complessità dei fatti e la conseguente complessità delle interpretazioni, che Russo imposta la seconda parte del suo lavoro: “condurre una lettura incrociata delle opere di Pasolini e Zanzotto per cercare di capire meglio il loro rapporto con la radice profonda dei mutamenti epocali a cui hanno risposto, in modo da contribuire alla costruzione di un’interpretazione più penetrante e complessa delle cause e degli effetti di quella galassia di fenomeni sconvolgenti che si è imposta con il nome ambiguo, ma irrefutabile, di Antropocene. Questa lettura sarà condotta a partire da una profonda fiducia nel valore conoscitivo della parola di questi poeti, quindi con la viva e ferma convinzione che la critica letteraria, come disciplina di frontiera tra arte, scienze umane e filosofia possa giocare un ruolo di primo piano nella crescita, oggi più che mai necessaria, delle «nuove scienze umanistiche ambientali»”.

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Pasolini e Zanzotto, due grandi figure della letteratura del secondo Novecento

ANTEPRIMA EDITORIALE 

In occasione del centenario della nascita di Andrea Zanzotto si propone l’introduzione di Alberto Russo Previtali al volume Pasolini e Zanzotto: due poeti per il terzo millennio, Franco Cesati Editore, 2021.  

 

PASOLINI E ZANZOTTO NEL TEMPO DELL’ANTROPOCENE

di Alberto Russo Previtali

 

«I poeti, che non sanno quel che dicono, è ben noto, dicono però sempre le cose prima degli altri»[1] . Questo aforisma di Jacques Lacan potrebbe essere eletto a criterio supremo per stabilire chi può essere definito “poeta”. Se pensiamo a Pasolini e Zanzotto in base ad esso, non possiamo che vedere in loro dei poeti nel senso più profondo della parola. La loro fedeltà radicata ai valori più propri della poesia, al suo «fertilissimo stupore»[2], alla vocazione della sua parola sorgiva, ha permesso a questi poeti di sentire in anticipo gli aspetti negativi dei cambiamenti irrevocabili avvenuti nel dopoguerra, denunciandoli, e producendo su di essi una conoscenza poetica singolare e insostituibile. Zanzotto è nato il 10 ottobre 1921, Pasolini il 5 marzo 1922: a un secolo dalla loro nascita sono incontestabilmente due delle figure maggiori della letteratura italiana del secondo Novecento. La loro influenza letteraria e artistica è crescente, così come l’interesse che i critici e gli studiosi di altre discipline portano sulle loro opere. È dunque doveroso chiedersi, oggi, cogliendo il tempo propizio delle ricorrenze e delle date: a che cosa è dovuta la prossimità particolare di questi poeti con noi, lettori del XXI secolo? Che cosa rende così essenziale, così intima, la loro presenza? Le risposte potrebbero essere molte, e di diverse appartenenze prospettiche. Ma ce n’è una che, probabilmente, è all’origine di tutte le possibilità interpretative: Pasolini e Zanzotto sono stati i testimoni poetici di un’epoca di profondissimi cambiamenti culturali, quelli determinati dalla trasformazione dell’Italia in un paese industriale con una moderna società dei consumi.

Gli intellettuali italiani nati nei primi decenni del Novecento si sono ritrovati negli anni della maturità a vivere i rivolgimenti rutilanti del miracolo economico. Come Pasolini ha ripetuto più volte, la radicalità delle mutazioni della società, il passaggio folgorante da un’economia prevalentemente agricola a un’economia industriale, fanno dell’Italia un caso esemplare di questa fase storica. Ed è proprio la velocità bruciante del cambiamento ad avere moltiplicato gli effetti negativi e traumatici dell’avvento della modernità, che si sono imposti come oggetto delle opere di numerosi scrittori, poeti, cineasti e artisti appartenenti a quella che Alfonso Berardinelli ha chiamato «l’ultima generazione cresciuta in un’Italia ancora premoderna», ovvero l’ultima generazione «che abbia vissuto nella sua maturità, fra i trenta e i quarant’anni, il trauma di un mondo noto e amato che si trasformava fino a scomparire»[3] . A partire dagli anni Sessanta, anche Pasolini e Zanzotto si confrontano apertamente nelle loro opere con il cambiamento in atto. Le mutazioni degli elementi essenziali del loro rapporto artistico con la realtà sono vissute come dei traumi che determinano delle rotture nei loro percorsi poetici e letterari. Si tratta di cambiamenti di direzione irreversibili, che saranno esplorati fino alla fine dei loro itinerari. In queste dinamiche, le esperienze di questi due poeti appaiono oggi più che mai caratterizzate da numerosi e rilevantissimi punti in comune, che trovano riscontro negli interventi critici che si sono dedicati l’un l’altro nel corso dei decenni. Esplorare e ricostruire i rapporti tra le opere di Pasolini e Zanzotto è quindi certamente il primo fine del presente saggio, che si propone di offrire un ritratto critico “allo specchio” dei due poeti: per ricostruire le loro convergenze, ma anche per dare risalto ai rispettivi tratti singolari. La conferma più densa del buon orientamento di questo progetto ci viene da una poesia in dialetto di Zanzotto, Ti tu magnéa la tó ciòpa de pan, scritta in memoria di Pasolini e inserita nella raccolta Idioma del 1986:

Ti tu magnéa la tó ciòpa de pan
sul treno par andar a scola
a Sazhil e Conejan;
mi ere póch lontan, ma a quei tènp là
diese chilometri i era ’na imensità.
Cussita é stat che ’lora
do tosatéi no i se à mai cognossést.
[…]
Se se à parlà, pi avanti, se se à ledést;
zherte òlte ’von tasést o se a sticà,
la vita ne à parà sote straségne
e ciapà-dentro par tamài diversi,
mi fermo, inpetolà ’nte i versi
ti dapartut co la tó passion de tut;
ma pur ghe n’era ’n fil che ’l ne tegnéa:
de quel che val se ’véa l’istessa idea.

[Tu mangiavi il tuo pane
sul treno per andare a scuola
tra Sacile e Conegliano;
io ero poco lontano, ma a quei tempi
dieci chilometri erano un’immensità.
Così avvenne che allora
due ragazzetti non si sono conosciuti.
[…]
Più avanti, ci siamo parlati, ci siamo letti;
certe volte abbiamo taciuto o abbiamo litigato,
la vita ci ha spinti sotto sgocciolamenti di acqua fredda (colpi)
e presi in trappole diverse,
io fermo, impiastricciato nei versi,
tu dappertutto con la tua passione di tutto;
ma pur c’era un filo che sempre ci legava:
di ciò che vale avevamo la stessa idea][4]

 

Questa poesia ricorda in apertura la condivisione di una vicinanza geografica, che l’uso del dialetto rafforza e inserisce in un orizzonte più vasto e profondo, quello a cui si fa allusione nei due versi finali della seconda strofa, in uno dei punti più intensi del componimento: «ma pur c’era un filo che sempre ci legava / di ciò che vale avevamo la stessa idea». Dedicheremo nella seconda parte del volume un’attenzione specifica alla comprensione del filo comune tra Pasolini e Zanzotto, a questo «ciò che vale» in cui sembra essere racchiuso il segreto ultimo delle loro esperienze. Ma questi versi, scritti poco tempo dopo la morte di Pasolini, si pongono fin d’ora come la stella da seguire per orientare la nostra esplorazione. Poiché è in nome della «stessa idea» di questo «ciò che vale» che Pasolini e Zanzotto ci appaiono uniti nelle loro testimonianze poetiche di fronte agli «stravolgimenti dell’umano»[5] . Il senso di queste testimonianze, così legate al contesto particolare dell’Italia, assume oggi una rilevanza che ne oltrepassa le frontiere. Il valore delle loro opere, da un lato, e, dall’altro, l’esemplarità dello sviluppo economico italiano, hanno reso le loro esperienze altamente significative in una prospettiva europea e mondiale. È dunque possibile guardare oggi a Zanzotto e Pasolini come a due testimoni altissimi di quel fenomeno globale che alcuni storici e climatologi hanno ribattezzato, a posteriori, «Grande accelerazione»:

La progressiva crescita a cui si è assistito dal 1945 è stata tanto rapida da prendere il nome di Grande accelerazione. L’accumulo di anidride carbonica nell’atmosfera dovuto ad attività umane si è verificato per tre quarti della sua entità nel corso delle ultime tre generazioni. Il numero di veicoli a motore presenti sulla Terra è cresciuto da 40 milioni a 850 milioni. Gli abitanti del pianeta sono triplicati e il numero di quanti vivono in città è passato da circa 700 milioni a 3,7 miliardi. Nel 1950 la produzione mondiale di plastica ammontava all’incirca a un milione di tonnellate, ma nel 2015 si è arrivati a 300 milioni. Nello stesso arco temporale la quantità di azoto sintetizzato (principalmente per ottenere fertilizzanti) è passata da meno di 4 milioni di tonnellate a più di 85. La Grande accelerazione è ancora tale sotto alcuni aspetti, mentre altri – raccolta ittica marina, costruzione di maxi dighe e rarefazione dello strato di ozono – hanno cominciato a rallentare[6]. Continua a leggere

Alberto Russo Previtali, l’ultimo Zanzotto

ANTEPRIMA EDITORIALE 

 

Il centenario della nascita di Andrea Zanzotto si pone come un tempo propizio per capire la sua presenza nella contemporaneità. Da qui il progetto di una raccolta di saggi, Le estreme tracce del sublime, Studi sull’ultimo Zanzotto a cura di Alberto Russo Previtali, (Mimesis, 2021) offre una descrizione e un’interpretazione degli aspetti più rilevanti degli ultimi libri, nel tentativo di cogliere la preziosa eredità poetica ed etica di cui sono portatori.

Studi sull’ultimo Zanzotto
Giorgia Bongiorno, Matteo Giancotti, Massimo Natale, Jean Nimis, Giuliana Nuvoli, Alberto Russo Previtali, Luca Stefanelli, Luigi Tassoni.

 

INTRODUZIONE
di Alberto Russo Previtali

Nella sua ultima produzione poetica, iniziata con la pubblicazione di Meteo nel 1996, e sviluppatasi compiutamente con Sovrimpressioni nel 2001 e Conglomerati nel 2009 (senza dimenticare gli Haiku for a season del 2012), Andrea Zanzotto ha confermato e approfondito le conquiste stilistiche e conoscitive più mature della sua poesia, quelle che gli hanno assegnato una centralità indiscussa nella letteratura italiana ed europea del Novecento. Ma in quest’ultima fase del suo percorso Zanzotto è andato oltre quelle conquiste, spingendo il proprio dire dentro le tensioni e le dinamiche profonde degli albori del millennio, in un superamento interno della propria posizione di soggetto e di poeta. Oggi, a dieci anni dalla sua scomparsa, il lettore “versato nel duemila” (Zanzotto) sente tutta la prossimità di questa seconda pseudo-trilogia, in cui pulsa un senso prezioso e veritiero sulla condizione dell’uomo contemporaneo, immerso in una realtà sempre più pletorica, attraversata dall’insensatezza e dalla minaccia di forze autodistruttive fuori controllo.

Negli ultimi anni sono fioriti numerosi studi importanti e approfonditi su quest’ultima parte del percorso zanzottiano, ma il sapere critico prodotto su di essa non è ancora comparabile a quello che interessa le fasi precedenti. Inoltre, l’edizione delle Poesie e prose scelte nella collana “I Meridiani” di Mondadori ha fissato in anticipo l’opera di Zanzotto, escludendo dalla sistemazione organica e dal commento capillare gli ultimi libri. Ciò ha reso a posteriori parziale la collocazione di Meteo, la cui lettura critica può dispiegarsi in modo fecondo soltanto in seno alla prospettiva unitaria della pseudo-trilogia. La pubblicazione dell’edizione Tutte le poesie negli Oscar ha colmato solo in parte queste lacune, offrendo una ricostruzione soltanto introduttiva dell’ultima produzione, della quale molto resta da esplorare, comprendere, analizzare, interpretare. Ecco perché il presentarsi all’orizzonte del centenario della nascita di Zanzotto, che coincide con il decennale della sua scomparsa, è stato sentito da alcuni studiosi come un tempo propizio per uno studio approfondito della fase finale del suo itinerario. Da questo comune sentire, da questa condivisa passione critica, è nato il progetto di questa monografia collettiva, in cui delle voci riconosciute della critica zanzottiana si misurano con la vivissima densità e con la profonda attualità degli ultimi libri del poeta.

Dire “centenario della nascita”, “decennale della morte”, insistere su questi ritorni di date, non significa, non deve significare, scadere nell’ufficialità delle celebrazioni, farsi aspirare dalla logica burocratica delle rimemorazioni retoriche, quelle di cui Zanzotto si è fatto beffe in modo insuperabile ne Il Galateo in Bosco. Farsi coinvolgere nel circolo delle date è un modo di entrare nello spazio più proprio della poesia, la quale è sempre impegnata nella scrittura impossibile di ciò che accade una sola volta. È la data che Paul Celan fa risuonare ne Il Meridiano, quel “20 gennaio” ripreso dall’incipit del Lenz di Büchner (“Il 20 gennaio Lenz attraversò la montagna”) e portato nella singolarità di ogni testo poetico: “Forse si può dire che in ogni testo poetico rimane inscritto il suo 20 gennaio?”[1]. La data del “20 gennaio” è per Celan un nome del trauma, della sua innominabilità, poiché fu il 20 gennaio del 1942 che Hitler e i suoi collaboratori, nella conferenza di Wannsee, programmarono definitivamente “la soluzione finale della questione ebraica”, in cui persero la vita i genitori del poeta. Di questo modo di ritornare della data, Jacques Derrida, come lettore di Celan, ha messo in luce il carattere ambivalente, singolare e universale, legato alla sua doppiezza strutturale e inconciliabile: da un lato l’unicità dell’evento, la sua insostituibilità, e dall’altro l’anello della ripetizione che la minaccia[2].

L’accoglienza di questo ritorno della data come traccia di un’unicità traumatica emerge in diversi punti dell’itinerario di Zanzotto, e nel modo più intenso in quel testo-ómphalos che è Microfilm, in cui le cifre del dieci ottobre, 10 10, compleanno del poeta e giorno in cui, nel 1963, egli venne a conoscenza dei tragici fatti della strage del Vajont, si trasfigurano negli elementi elementari della scrittura (I O), combinandosi in significanti in cui la tensione tra particolarità del trauma e spinta alla comunicatività universale raggiunge la sua massima apertura. Particolarmente significativi e istruttivi sono anche i componimenti che esplorano poeticamente la ricorrenza del 25 aprile, Verso il 25 aprile in Idioma e Altro 25 aprile in Conglomerati. Nella loro diversità essi mostrano un modo poetico comune di confrontarsi con un anniversario: porsi in ascolto delle istanze sepolte che giacciono in esso, far rivivere il desiderio di uomini scomparsi che si è cristallizzato nell’unicità della data, e che in essa continua a pulsare come segreto, parola muta e sacra, alla quale solo un lettore, ovvero colui che raccoglie, può ancora dare voce.

È dunque a partire dall’insegnamento stesso del poeta, dal suo modo di abitare l’anniversario, che gli interpreti qui riuniti hanno voluto onorare il centenario della sua nascita, cercando di raccogliere nel modo più consono e fecondo la parola dei suoi ultimi libri. Il primo effetto di questo posizionamento è l’emersione del carattere estremo, in tutti i sensi del termine, dell’esperienza dell’ultimo Zanzotto rispetto alle fasi precedenti del suo percorso esistenziale e poetico. Gli aspetti apocalittici e testamentari di questa produzione, sempre sospesi tra l’esperienza privatissima e la spinta insopprimibile della passione civile, non possono che far pensare all’intero percorso poetico-biografico del poeta, al quale, per “privilegio d’anagrafe” – come suggerisce il Benandante Pasolini[3] – è toccato di assistere alla fine di un tempo storico, alla distruzione del paesaggio, alla perdita sempre più radicale, per il soggetto, della possibilità di orientare il proprio essere nel mondo attraverso la fascinazione erotica e il sentimento del sublime. Continua a leggere

A Abdulrazak Gurnah il Nobel per la Letteratura

Abdulrazak Gurnah ph. ANSA RIPRODUZIONE RISERVATA

L’Accademia di Svezia ha conferito per il 2021 il Nobel per la Letteratura allo scrittore africano Abdulrazak Gurnah con la seguente motivazione:  “per la sua appassionata e risoluta narrazione degli effetti del colonialismo e del destino dei rifugiati tra culture e continenti”.

Nato nel 1948 e cresciuto nell’isola di Zanzibar, Abdulrazak Gurnah è arrivato in Inghilterra come rifugiato alla fine degli anni Sessanta.

Ha pubblicato numerose opere di narrativa fra le quali ricordiamo: Paradise (1994), selezionato sia per il Booker Prize sia per il Whitbread Prize, Desertion (2005) e By the Sea (2001), a sua volta selezionato per il Booker Prize e poi finalista al Los Angeles Times Book Award.

Il romanzo  Il disertore, è stato pubblicato in Italia nel 2006 dall’editore Garzanti.
Il suo principale interesse accademico riguarda la scrittura postcoloniale e i discorsi associati al colonialismo, in particolare concernenti l’Africa, i Caraibi e l’India. Ha curato due volumi di saggistica sulla scrittura africana e pubblicato articoli su numerosi scrittori postcoloniali contemporanei, tra cui V. S. Naipaul, Salman Rushdie e Zoe Wicomb.
A oggi, è il quinto autore africano a vincere il Premio Nobel per la Letteratura, dopo Wole Soyinka (Nigeria, 1986), Naguib Mahfouz (Egitto, 1988), Nadine Gordimer (Sudafrica, 1991) e John Maxwell Coetzee (Sudafrica, 2003).

L’albero della cultura

A Roma, domenica 10 ottobre all’Orto Botanico, nell’ambito di URBAN NATURE, si terrà la Prima Edizione de L’ALBERO DELLA CULTURA, il progetto che promuove, nello stesso tempo, Ambiente e Cultura.

Presenta la manifestazione, Max Laudadio. Testimonial Raphael Gualazzi.

Nel corso della giornata all’Orto Botanico di Roma dedicata a Ambiente e Cultura saranno premiati Piero Angela, (per la parte scientifica) e Umberto Piersanti (per la parte umanistica).

La manifestazione avrà inizio alle ore 12.00 e terminerà alle 18.00.

Il progetto è promosso dall’Accademia Mondiale della Poesia con il patrocinio di WWF, ANCI, Confassociazioni, e inoltre in collaborazione con il Raggruppamento Carabinieri Biodiversità, Pandion Editore, Sinapsi Group e Tallone Editore, nell’ambito della manifestazione Urban Nature.

LA GIORNATA DELL’ALBERO

Alle 12.00 si terrà la messa a dimora dell’Albero della Cultura cui seguiranno letture poetiche di alcuni poeti italiani contemporanei: Nicola Bultrini, Claudio Damiani, Mariella De Santis, Simone Di Biasio, Nina Maroccolo, Vincenzo Mascolo, Plinio Perilli, Gabriella Sica, Luigia Sorrentino, Sara Ventroni, Isabella Vincentini, Zingonia Zingone.

Alle 16.30, poi, presso la Sala Conferenze del Museo Orto Botanico, si svolgerà la cerimonia di consegna del Premio Albero della Cultura a due personalità di spicco del panorama italiano, Piero Angela, divulgatore scientifico e Umberto Piersanti, umanista e poeta.

Nel pomeriggio si terrà il concorso di poesia sul tema “Lo spirito degli alberi”, presentato da Paolo Lagazzi, presidente della giuria del concorso.

Seguirà una lettura di poesie sulla natura di Marcia Theophilo, poetessa brasiliana più volte candidata al Nobel per la letteratura accompagnata al pianoforte dal Maestro Christian Deliso, Direttore d’Orchestra, e dalle immagini di Giuliano Grittini, artista e fotografo ufficiale di Alda Merini. Oscar di Montigny, manager, scrittore e divulgatore internazionale, invierà per l’occasione un video messaggio sul tema della gratitudine quale rivoluzione necessaria.

Concluderà la cerimonia Raphael Gualazzi, Testimonial del progetto.

Altri Testimonial del progetto sono artisti e personaggi del mondo dello spettacolo quali Fabio Armiliato, Enzo Decaro, nonché personalità del mondo della finanza e dell’impresa come Angelo Deiana Presidente di Confassociazioni che sarà ugualmente presente alla cerimonia di premiazione.

IL PROGETTO 

Nato nel 2020 da un’ idea di Christian Deliso, il progetto L’Albero della Cultura è una risposta alla pandemia che ha colpito in modo particolare il mondo culturale e artistico.

L’ Italia è il Paese per eccellenza della cultura e un modello culturale per tutte le altre nazioni del mondo. Purtroppo a causa della pandemia il nostro paese sta vivendo un momento di grande difficoltà soprattutto in questo ambito.

Si è pensato dunque di ripartire dalla Cultura, come simbolo di rinascita e segno di speranza per tutti coloro che sentono la necessità e che credono che la cultura vada coltivata, custodita e protetta affinché ci si vita sul pianeta.

La manifestazione prevede l’assegnazione, ogni anno, di un premio a due personalità che in ambito umanistico e scientifico hanno contribuito alla promozione dei temi legati alla difesa e alla valorizzazione dell’ambiente e della cultura in un senso ampio.

La Giuria di esperti nell’ambito dell’Arte e della Scienza include scienziati, giornalisti, artisti, e letterati quali Paolo Lagazzi, Paolo Ruffilli e Claudio Damiani.

Il premio che verrà consegnato è una scultura realizzata dal Maestro Mauro Olivotto alias Lampo, artista e artigiano, in collaborazione con Sinapsi Group di Davide Battistini.

Saranno coinvolte le scuole di vario grado e verrà studiato un percorso con le maestre che avvicini gli studenti al tema dell’ecologia della difesa dell’ambiente e dell’importanza che riveste la cultura a tutti i livelli. Tale progetto sarà presentato da Anna Lisa Tiberio assieme al Raggruppamento Carabinieri Biodiversità.

La regia della cerimonia inaugurale è di Alfonso de Filippis, attore e regista.

L’organizzazione generale é affidata all’Accademia Mondiale della Poesia, diretta da Laura Troisi manager culturale.

Per informazioni e prenotazioni: accademiamondialepoesia@gmail.com

IL PROGRAMMA Continua a leggere

Giuseppe Conte, “Dante in love”

Giuseppe Conte

COMMENTO DI ALBERTO FRACCACRETA

Shakespeare in love? No, Dante. «Ai piedi del Battistero», tornato dall’aldilà. Gli capita una volta all’anno, per volere di Dio, a causa delle sue pene d’amor perdute per Beatrice: questa è la sua settecentesima notte («Alighieri viene da aliger, che significa “alato”. Ho volato alto, è vero. E ora come ombra volo ogni anno, una sera come questa, dal cielo alla terra e dalla terra al cielo. Migro come le gru e le rondini. Ma non in cerca della primavera e del sole»). E incontra una ragazza con capelli castani, «un paio di occhiali dalla montatura verde alzati sulla fronte», di nome Grace. Una studentessa straniera in Erasmus. Questa ragazza in qualche modo lo sente, ne avverte la fantasmagorica possanza («Io per la prima volta ho la sensazione che qualcuno sia pur confusamente mi veda, percepisca la mia presenza come qualcosa di immateriale tra tutte le cose materiali che mi stanno intorno»). Incomincia così un dialogo misterioso e serrato, in cui Dante le racconta la sua esperienza terrena tra i Fedeli d’Amore — una confraternita iniziatica sul modello dell’Ordine dei Templari — e l’umanissimo sentimento provato per la «gentilissima».


Dante in love è un saggio narrativo di Giuseppe Conte che intende mettere in luce, nel paradossale intarsio dei nostri giorni, la contemporaneità del poeta fiorentino e, ugualmente, la sua vocazione di uomo, oltre che di scrittore. La storia si svolge in prima persona (narratore omodiegetico) e ambientata per le vie di Firenze, dove l’autore della Divina Commedia incontra la sua nuova «Beatrice di strada». Con il guizzo del prosatore esperto e la lucidità del moralista (si ricordino i diversi romanzi, da La casa delle onde, finalista al Premio Strega, a L’ adultera, Premio Manzoni), Conte ci propone un Dante forse a noi più congeniale, meno ingessato certamente, scrostato da ogni alone di sterile accademismo. Ecco un esempio, in cui l’impasto linguistico fa scintille tra teologia allegorica e slang giovanile: «Beatrice… lo hai capito, Grace?… era più di una giova¬ne donna per me, era quella cui Amore aveva dato il mio cuore come si dà un’ostia consacrata nella comunione, il suo saluto era ben più di un cenno con la mano, come fate oggi, “ciao…”, come dite voi? “Ai, ellò…” Era una chiamata a puntare verso il cielo, una via per la beatitudine. Era una promessa di vera felicità eterna». Continua a leggere

Enzo Cucchi, “Antifragile”

Enzo Cucchi, “Antifragile”, Credits ph.  Roberto Apa

La poesia e la pittura sono identiche; il problema è stranamente lo stesso: è una questione di iconografia, di immagine del mondo. Si tratta di fermare l’immagine e di farne istantaneamente la sintesi, in qualunque maniera”.

Enzo Cucchi

La mostra Antifragile è un progetto specifico di Enzo Cucchi per Colli che si sviluppa attorno al dittico “senza titolo (Pound)”, fatto di tarsie ceramiche su cemento.

Questo lavoro antimemoriale sul grande poeta Ezra Pound è il fuoco spaziale e di ricerca della mostra. “L’artista non ha bisogno che si descriva il suo lavoro, ha bisogno di aria…” di poesia seppur si muove a disegnare forme solide e antifragili.

La costante dello spazio definito da Cucchi è segnata da “Radura”, scultura a terra in ceramica, protubescente e bulbosa, pezzo “paleolitico” di natura vegetale e animale, di forma antitetica.

L’instabile percezione delle linee ed il loro continuo sfuggire da possibili anatomie e morfologie alimenta la soglia e l’attesa di questo tipo di opere in cui convivono plastica, segno e stesura.

COLLI independent art gallery, Credits ph. Roberto Apa

L‘anticamera che Enzo Cucchi infatti instaura è lo spazio dell’opera radiante, riposata in orizzontale ma non grave che si nutre di più discipline: pittura, scultura, disegno, ambiente.
La mostra è la ragione di una ricerca libro che Cucchi sta costruendo attorno al lavoro “senza titolo (Pound)” con un nucleo importante di disegni iterativi e “posturali” sul ritratto di Ezra Pound.

Una raccolta di disegni, frammenti e annotazioni per un libro d’artista edito da Viaindustriae con Colli publishing platform e che verrà presentato nell’arco temporale della mostra.

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ENZO CUCCHI Antifragile
02.10 – 31.12.2021

COLLI independent art gallery
Via di Monserrato, 103
Roma

 

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E’ Jean-Charles Vegliante il vincitore del Premio Ceppo internazionale poesia Piero Bigongiari

Jean-Charles Vegliante

La consegna del riconoscimento alla Carriera avverrà giovedì 7 ottobre 2021 alla Biglioteca San Giorgio di Pistoia (Auditorium Terzani) alle ore 16.30.

Il poeta vive in Francia, a Parigi, ed è uno dei maggiori poeti fra i contemporanei

L’autore leggerà la “Ceppo Piero Bigongiari Lecture 2021” appositamente scritta per l’occasione e pubblicata all’interno del volume Rauco in noi un linguaggio appena edito da Interno Poesia.

L’antologia contiene le ultime poesie di Vegliante, con alcuni importanti inediti, ha la cura e le traduzioni di Mia Lecomte, poeta e traduttrice dal francese, collaboratrice della rivista di poesia comparata “Semicerchio”.

Vegliante e Lecomte leggeranno le poesie e le traduzioni contenute nell’antologia.

Fra gli interventi, quello del professor Stefano Carrai (professore della Scuola Normale Superiore di Pisa) sul rapporto fra Dante e Vegliante.

Alla manifestazione saranno presenti gli studenti del Liceo Linguistico “Filippo Pacini” guidati da Cecilia Ballotti che interverranno con domande e commenti: le migliori saranno premiate con buoni libri offerti dalla Fondazione Caript da spendere alla Libreria Lo Spazio di Pistoia per il Premio Ceppo Giovani.

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Ruggero Cappuccio, al Mercadante presenta il suo ultimo romanzo

Palermo è un’isterica, ama solo la sua sofferenza, e quando riesce a goderne trasforma il dolore in arte.

Con questi pensieri Manfredi rivede dopo una lunga lontananza la sua Sicilia. Ha quarantatré anni ben portati, il gusto raffinato dell’antiquario, lo sguardo inafferrabile ed è tormentato e insieme nostalgico proprio come la sua città, dove rientra su richiesta dell’anziano e amato zio Rolando. Giorno dopo giorno, lo zio lo coinvolge nel racconto dei suoi ricordi, una vita appassionata che si intreccia alle ricerche della Natività di Caravaggio, rubata dall’oratorio di San Lorenzo nel 1969 e mai più rinvenuta.

Tra un capitolo e l’altro del mistero che si dispiega attorno a uno dei furti più eclatanti della storia, Manfredi deve affrontare anche i propri personali fantasmi che ha lasciato accovacciati tra i vicoli della bellissima e spietata città. Primo fra tutti l’amata Flavia, che lo abbandonò all’improvviso, inducendolo a prendere la decisione di lasciare l’isola. Mentre la relazione con lo zio Rolando si fa via via più profonda e carica di presagi, gli incontri con una bambina di strada fanno deragliare Manfredi verso un’inesplorata immagine di sé.

La voce di Ruggero Cappuccio si insinua tra le pagine a suggerire pause e cadenze di una sicilianità antica e preziosa, ci invita a passeggiare in una Palermo decadente che accoglie le insonnie notturne, il sapore degli amori finiti e canta la perdita umana, ma anche la vita che si rinnova e torna a chiamarci. Continua a leggere

Edmond Rostand, “Il Bosco Sacro”

Edmond Rostand (1868-1918)

 

 

Il Bosco Sacro è certamente un’opera unica nel panorama del teatro e della poesia del Novecento. Questo testo di Edmond Rostand, pubblicato per la prima volta nel 1908 (rappresentato come pantomima) e che finalmente esce in lingua italiana grazie alla traduzione di Stefano Duranti Poccetti, mette insieme mito e contemporaneità. Porta all’incontro tra gli dèi e una FIAT 35-45 HP che giunge in una foresta mistica abitata da presenze divine che saranno così meravigliate dal veicolo da volerlo addirittura provare. Il testo si fa perfetta allegoria della Parigi abitata dall’Autore, attenta al passato e perennemente devota al progresso.

Il bosco sacro

L’ombra di tre cipressi sull’erba avanza.
Mentre in lontananza s’argenta un cielo di Grecia,
presso una sorgente che scola, sprofondando in stagni,
gli dèi si sono seduti su un bosco d’ulivi.

È l’ultimo dei boschi sacri.

Il mare tranquillo
s’allunga sul fondo, ancora più bianco intorno a una penisola.
Si scorgono, lievemente sfiorati da un po’ d’aria,
i glauchi olivi biancheggiare come il mare.
Degli alti e riflessivi allori, splendidamente cupi,
sono vicini ai meno alti allori dove rose crescono,
contraendo il fogliame con nero sdegno.
Gli dèi restano seduti come in un giardino.
Sono là, familiari, armoniosi, pacifici,
senza sforzarsi d’essere invisibili.

Giunone, riconoscibile dalle belle pieghe del collo,
quanto per lo scettro d’oro da cui emerge un cuculo;
Venere pare una statua, vestita
in modo scultoreo con biancheria bagnata;
Marte, dio della battaglia; Apollo, dio del giorno,
il cui arco nell’aria appare più grande di quello d’Amore;
Giove, di cui, questa sera, il sopracciglio s’aggrotta
e che lascia cadere, nel prendere dal rovo una mora,
il fulmine scintillante ai due estremi;
Minerva, dagli occhi più fieri degli occhi dei gufi,
appare sotto gli altri due occhi vuoti e senza pupille
ch’ella ha tolto al cielo, levandosi la visiera;
Diana, di cui la salvia ama lo scarpone,
la quale porta uno stretto diadema; Vulcano,
che, facendo progetti d’arte e di meccanica,
gratta la sua fronte testarda sotto il berretto conico;
e Mercurio, che sente fin dentro il cervello
battere gli alettoni ch’egli ha sul cappello.
Tutti i grandi dei sono lì; tutti, eccetto Nettuno
e Vesta, importunata sempre dalle cose piacevoli,
e Cerere, che si occupa delle spighe imbiondite;
ma tre dei più piccoli rimpiazzano gli assenti:
Pan, che non è mai lontano da un bosco d’Arcadia
e che dalle canne crea sognanti melodie.
Il nettare che circola è versato da Ebe,
mentre Cupido si concede a giochi da bebè,
che sono poco rassicuranti per la gelosa Giunone…
Sicché gli dèi, tutti insieme, risultano dodici.

Edmond Rostand, Il bosco sacro. Le Bois Sacré, traduzione di Stefano Duranti Poccetti, prefazione di Ombretta De Biase, Nulla Die Edizioni, 2021

 

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Jeannette L. Clariond, da “Davanti a un corpo nudo”

Jeannette L. Clariond

Querría entregar mi cuerpo como has entregado el tuyo para un bien mayor. Pero es flaca la carne y débil este espíritu mío. No habría podido mover esa piedra que yacía sobre tu muerte y que sólo Magdalena supo descifrar, pues vio en tus ojos, oh profeta de las palmas, que todo cambia cuando miras.
Eres el dolor de ser mundo.

Vorrei donare il mio corpo come tu hai donato il tuo per un bene più grande. Ma spossata è la carne e debole questo mio spirito. Non avrei potuto spostare la pietra che giaceva sulla tua morte e che solo Maddalena ha saputo comprendere, poiché ha visto nei tuoi occhi, o profeta delle palme, che tutto cambia quando tu ci guardi.
Sei il dolore di essere il mondo.

***

Un cuerpo desnudo es un árbol sin corteza. Su silencio no pide la floración que recubra la desgarradura. Un cuerpo desnudo sabe que nadie puede ver su desnudez: dentro de su carne corre un río de soledades. A las tres de la tarde se oscureció aquel mar. A las tres en punto de la tarde tu desnudez inflamó de amor todo mi cuerpo.
Hay pasiones que queman la raíz, hay amores que arden más que mil hojas de pergamino.
Aun fuera del pote, ardería la flor.

Un corpo nudo è un albero privo di corteccia. Il suo silenzio non ha bisogno della fioritura che rivesta le lacerazioni. Un corpo spoglio sa che nessuno può vedere la sua nudità: nella sua carne scorre un fiume di solitudine. Alle tre del pomeriggio quel mare si fece oscuro. Alle tre in punto del pomeriggio la tua nudità gonfiò di amore tutto il mio corpo.
Ci sono passioni che bruciano le radici, ci sono amori che ardono più di mille pagine di pergamena.
Anche fuori dal vaso, arderebbe il fiore.

***

Cada tarde regreso a tu cuerpo y siento una inmensa aflicción al verte abandonado, sostenido del madero por ese clavo ardiente esperando que alguien desprenda los declives de la decepción. Pero, nacida como soy, carezco de la fuerza para ascender a tu reino, ese reino tuyo, vislumbrado mas nunca alcanzado. Yo no puedo con el peso de tu cruz, en mi corazón no ha nacido la rosa que, al desencadenarse el estruendo del mundo, llague tu cuerpo de misericordia.

Ogni pomeriggio torno al tuo corpo e sento un’immensa tristezza nel vederti abbandonato, sorretto sul legno da quel chiodo ardente, nella speranza che qualcuno possa allontanare i pendii della delusione. Ma, nata così come sono, non ho la forza di ascendere al tuo regno, quel tuo regno, intravisto eppure mai raggiunto. Io non ce la faccio con il peso della tua croce, nel mio cuore non è nata la rosa che, scatenandosi il fragore del mondo, piaghi il tuo corpo di misericordia.

***

Aprendí a beber mi propia sed. Aprendí que, para soñar tu rostro, era necesario negarme en el amor. Así me hice una contigo, así arrastré mis pies por el desierto. Ese desierto que tú habías sembrado de espinas para probar que el amor es así: un caminar ciego sin pedir nada a quien se ama. Entonces opté por callar, por devorar los mil demonios de mis miedos, acepté que tan sólo era una ancila de tu reino. Viví sin vivir, amé sin amar, me negué buscando aquella rama desnuda donde descansar mi marchito cuerpo.

Ho imparato a bere la mia sete. Ho imparato che, per sognare il tuo volto, era necessario negarmi in amore. Così divenni una con te, così trascinai i miei piedi nel deserto. Quel deserto che tu avevi seminato di spine per dimostrare che l’amore è così: un cieco camminare senza nulla chiedere a chi si ama. Allora ho scelto di tacere, di divorare i mille demoni delle mie paure, volli essere soltanto un’ancella del tuo regno. Ho vissuto senza vivere, ho amato senza amare, mi sono rifiutata di cercare il ramo nudo dove mettere a riposo il mio corpo sfiorito.

Davanti a un corpo nudo, a cura di Alessio Brandolini, Edizioni Fili d’Aquilone, 2021

𝗗𝗔𝗩𝗔𝗡𝗧𝗜 𝗔 𝗨𝗡 𝗖𝗢𝗥𝗣𝗢 𝗡𝗨𝗗𝗢 della messicana 𝗝𝗘𝗔𝗡𝗘𝗧𝗧𝗘 𝗟. 𝗖𝗟𝗔𝗥𝗜𝗢𝗡𝗗, a cura di Alessio Brandolini. Un libro intenso e sensuale, non privo di tensione erotico-religiosa alla Alda Merini di cui l’autrice ha tradotto molti libri, poesia che vibra di passione e forza dove l’amore è “un cammino senza nulla chiedere” e il visibile e l’invisibile si fondono nel prodigioso mistero della poesia.

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Mario Postizzi, da “Aforismi”

Mario Postizzi

Nella corsa aforistica, vince chi sa trovare la scorciatoia che allunga i passi del pensiero.

***

Nella leggerezza della mano ritrovi il sotterraneo di una carezza.

***

La trasparenza, così sottile da non apparire.

***

Mette da parte le parole per dimenticarle. Si riconosce in un punto privo di esclamativi o interrogazioni. Ama Haydn con i suoi addii e una pagina che non si esibisce all’occhio nudo e non oscura il silenzio.

***

L’altezza della voce non deve mai superare la profondità dell’occhio che ti sta di fronte.

***

Chi scrive aforismi avanza nel cuore incerto di ogni parola, con le mani di piombo, su una gamba, a piccoli passi.

***

Desidero incontrarti in punta di penna, di primo mattino, con animo sereno come il volto del cielo spogliato dal temporale.

 

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Marco Marangoni, da “Sentimentalissima luce”

Marco Marangoni

                      A G. Pontiggia

Io vivo in una traversa
di via Vincenzo Monti – che è un po’ più lunga – …
ma abito in una via,

l’unica di Milano dove c’è soltanto una casa, la mia
……………
***

Maria Zambrano scrive
che c’è un presente perfetto
nella parola che ferma il tempo
ma senza far che diventi
immobile, stella fissa
(senza desiderio);
presente invece
che si installa
in quel che conta
(e che ieri non ti ho detto);
rito del bosco
e del sole,
del tramonto (…) remo che sembrava
spezzato
luce declinante tra gli alberi
freccia che vuole al centro del verbo

***

L’abbiamo capito una sera,
misurando e osservando le piante,
quel brocco di soli andati e di nebbie
che in settembre facevano vedere
(come sotto un velo)
il frutto d’oro delle mele.
Abbiamo parlato a lungo,
ma il mestiere e l’arte restavano indietro,
dove la proprietà finiva in ciascuno,
e c’era un senso che non era meglio alberi
e non era di nessuno.

***

Se non ci fosse un sogno più reale
e questo non fosse il fratello, in luce,
della morte…
da dove mai i canti e i nodi
e gli ordini
che insieme tengono le voci
e il cigolio dei cardini?
c’è un passaggio
in fondo ai segni
e a tutte le porte
che indica il doppio
del tuo stato (alterno), dell’alterna
tua sorte

da: Sentimentalissima luce, Punto a capo editrice, 2021

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Una poesia di Attilio Bertolucci

Attilio Bertolucci

PICCOLA ODE A ROMA

a P. P. Pasolini

Ti ho veduta una mattina di novembre, città,
svegliarti, apprestarti un altro giorno a vivere,
alacri fumi luccicando ai pigri margini orientali
percossi dalla luce tenera come un fiore,
argenti di nuvole più sopra infitti nell’azzurro
offuscandosi per brevissimi istanti, suscitatori di tremiti,
e risfolgorando a lungo, poi che il bel tempo è tornato
e durerà, se è neve quel viola lontano
oltre i colli che ridono di borghi noncuranti
le mortificazioni dell’ombra, poi che il sole ha vinto, o vincerà.
Tu eri viva alle nove della mattina,
come un uomo o una donna o un ragazzo che lavorano
e non dormono tardi, hanno gli occhi
freschi attenti all’opera assegnata,
nell’odore di legno bagnato e di foglie bruciate
o in quello amarognolo degli alberi sempre verdi
che crescono sui tuoi fianchi e si vedono dall’altura
per cui io scendo inebriato ai ponti
fitti di gente in transito, da qui silenziosi e bianchi
come ali d’uccello a pelo dell’acqua giallina.
Io penso a coloro che vissero in questa plaga meridionale
scaldando ai tuoi inverni le ossa legate da geli
senza fine in infanzie intirizzite e vivaci,
a Virgilio, a Catullo che allevò un clima già mite
ma educò una razza meno arrendevole della tua
e perciò soffrì, soffrì, la vita passò presto per lui,
passa presto per me ormai e non mi duole come quando
le gaggìe morivano a poco a poco per rifiorire
il nuovo anno, perché qui un anno è come un altro,
una stagione uguale all’altra, una persona all’altra uguale,

l’amore una ricchezza che offende, un privilegio indifendibile.

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Andrea Zanzotto, da “Vocativo”

Andrea Zanzotto

FUISSE

Pace per voi per me
buona gente senza più dialetto,
senza pallide grandini
di ieri, senza luce di vendemmie,
pace propone e supremo torpore
l’alone dei prati, la cinta
originaria dei colli la rosa
dispersa il sole
che morde tra le tombe.
Ah la cicuta e il poco
formicolio, non più, colà sepolto.
Ah l’acqua troppo tenue che mi cola
oltre la gola e gli occhi al di là s’invischia
in tiepidi miseri specchi
su cui l’ortica insuperbisce.
Ed ah, ah soltanto, nei modi
obsoleti di umili
virgili, di pastori castamente
avvizziti nei libri, nella conscia
terrena polvere,
ah ripeto io versato nel duemila.
– Ah – risuona il colloquio
in eterno sventato,
dovunque io passi, ovunque
l’aria mai sfebbrata mi sospinga,
la selva m’accompagni
e impari la vicenda non umana
del mio fuisse umano.
Futura età, urto di pietra
sulfureo sangue che escludi
che intellegibili fai questi
fiori e gridi ed amori,
non-uomo mi depongo
ad attenderti senza nulla attendere,
già domani con me nel mio fuisse,
pieghe tra pieghe della terra
cieca ad ogni tentazione d’alba.

da: Vocativo, (1957) Continua a leggere

Una poesia di Patrizia Cavalli

Patrizia Cavalli

Se posso perdonare, allora devo
riuscire a perdonare anche me stessa
e smetterla di starmi a giudicare
per come sono o come dovrei essere.
Qui non si tratta di consapevolezza
ma è la superbia che mi tiene stretta
in una stolta morsa che mi danna.
Eccomi infatti qui dannata a chiedermi
che cosa fare per essere perfetta.
Tenersi all’apparenza, forse descrivere
soltanto cose in mutua tenerezza.

Vita meravigliosa (Einaudi, 2020)

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Francesco Accattoli, “La Mar”

Francesco Accattoli / ph. Vito Panico

da: Natanti

L’odore è piantato nel freddo.
Sulla balza del porto
si asciugano le strade, le case bianche.
I gatti dietro i vetri, nessuno
per strada, fuorché il mare.
A volte il dolore della febbre
sale, a volte il nulla arriva
come pioggia, è un nulla
vegetale, verde, vivo,
vicino al molo nel pieno del nord.

Il mare si crepa d’angustia,
non vale lo sforzo di ricucirlo.
Le maglie hanno ceduto.

***

D’inverno i granchi dormono
tra gli scogli, per le ossa è un inferno.
Scendo, a volto scoperto,

nel nord che ci fa il mare grande.
Lo guardo farsi trama, ascolto
i cambi d’intonazione. Le parole

hanno il passo delle maree.
D’improvviso il silenzio sul bianco,
come un tappeto d’organza.

***

A fine corsa, due nuvole
di storni, plasmate da un levante
che mischia le onde e le deforma.

Crepe di creta nella falesia.
L’inverno a guardare il cielo.

***

A meno che non si dica di andare
lì dove si raccolgono i vènti,
chiedere in ginocchio che si calmi
il suono che percuote le porte, che trattiene
il passo sulla terra fermo e gravi
il peso del pianeta;

a me prende il male di parlare
a meno di un miglio dalla costa.
Laggiù sono stati lampi tutta la notte,
di qua luci a mala pena, mogli
piccole case. Io sto di guardia,
che non ci fuggano dalle reti.

***

Si svegliava e prima del caffè cercava il mare con lo sguardo. Era un rito tutto umano, lo faceva prima ancora di parlare. Il mare era stato con lui nel letto, le reti si erano mosse durante la notte, la febbre della terra lo coglieva al primo sonno. E si trovava a camminare sull’asfalto, salire nel cemento, fino al terrazzato, sentire duro sotto i piedi e sbattere di porte in una bora ingrata. Tirava calci avvolto nella tela, tendeva le gambe, cercava la sentina, il fondo sudicio di cherosene. Con entrambe le mani lo sentiva sdraiarsi sulla chiglia, compiere l’amplesso della mareggiata. Sudavano le persiane un cigolio di pescatori, schiumava il tanfo della notte sulla terraferma.

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L'”Ulisse”, il capolavoro di Joyce, torna nella traduzione di Alessandro Ceni

In vista del centesimo anniversario della pubblicazione, nel febbraio 2022, il capolavoro di Joyce torna in una nuova traduzione a cura di Alessandro Ceni.

Dublino, 16 giugno 1904. È la data scelta da James Joyce per immortalare in poco meno di ventiquattr’ore la vita di Leopold Bloom, di sua moglie Molly e di Stephen Dedalus, realizzando un’opera destinata a rivoluzionare il romanzo. È l’odissea quotidiana dell’uomo moderno, protagonista non di peregrinazioni mitiche e straordinarie, ma di una vita normale che però riserva – se osservata da vicino – non minori emozioni, colpi di scena, imprevisti e avventure del decennale viaggio dell’eroe omerico. “Leggere l’Ulisse,” scrive Alessandro Ceni nella sua Nota introduttiva (qui pubblicata integralmente), “è come guardare da troppo vicino la trama di un tessuto” dove le parole, che sono i nodi della trama, rivoluzionano. Trascinata da una scrittura mutevole e mimetica, da un uso delle parole che è esso stesso narrazione, la complessa partitura del romanzo procede con un impeto che scuote e disorienta. Perché “un testo così concepito esige un lettore pronto a traslocarvisi armi e bagagli, ad abitarlo, a starci dentro abbandonando ogni incertezza”.

Una sfida insomma che, con il procedere della lettura, si trasforma in un vero e proprio godimento. Lo stesso di Joyce che, parlando del suo capolavoro, disse: “Vi ho messo così tanti enigmi e rompicapi che terranno i professori occupati per secoli a chiedersi cosa ho voluto significare; e questo è l’unico modo per assicurarsi l’immortalità”.

 

 

Nota introduttiva
di Alessandro Ceni

Ancora oggi il realista guarda solo verso
la realtà esteriore senza rendersi conto di
esserne lo specchio. Ancora oggi l’ideali-
sta guarda solo nello specchio voltando le
spalle alla realtà esteriore. L’atteggiamen-
to conoscitivo di ambedue impedisce loro
di vedere che lo specchio ha un rovescio,
una faccia non riflettente, che lo pone
sullo stesso piano degli elementi reali
che esso riflette.

                                           Konrad Lorenz, L’altra faccia dello specchio

La storia, disse Stephen, è un incubo dal
quale sto cercando di svegliarmi.

James Joyce, Ulisse

1. Abracadabra

Leggere l’Ulisse è come guardare da troppo vicino la trama di un tessuto. Spesso a rovescio. Per poi allontanarlo. E quindi riavvicinarlo. In un continuo movimento, anche muscolare, di avanti e indietro, o meglio, di indietro in avanti. Movimento durante il quale si ha coscienza e si dà contezza dello spazio e del tempo in cui esso avviene e dei sensi in atto. Questo processo diciamo ottico-cognitivo, incantatorio com’è proprio della sua qualità cinetica, incessantemente mettendo a fuoco e mandando fuori fuoco (offrendoci di volta in volta primi piani della fibra stessa del tessuto e campi lunghi dell’insieme dell’intreccio) ci conduce alla tutt’altro che stabilizzante condizione di trovarsi dentro e fuori dal testo contemporaneamente. L’Ulisse è la trama di una tela vista in simultanea nel recto, nel verso, alla luce ultra- violetta, a luce radente, e così via; tela che ha per telaio, che possiede per impianto portante, le due assi verticale-orizzontale delle due parole di apertura, “Stately” e “plump” (in questa traduzione “Sontuoso” e “polputo”), vale a dire l’alto/ basso, il drammatico/comico, l’eroico/farsesco del sopra/ sotto umano. Il dramma (nel senso stretto di rappresentazione seria di un avvenimento) e il comico (il suo contrario, la commedia dell’arte italiana) che vanno sobbollendo nel medesimo calderone danno origine per metamorfosi o trasformazione a una pozione che è la condizione del tragico quotidiano, quella condizione da tutti esperita dove l’antica matrice greca della ineluttabilità del destino e il moderno senso di illusorietà dell’esserci si fondono. I fili della trama del tessuto della tela sono i tanti e vari registri e colori (stilistici, linguistici) che animano questa stoffa fino a farcela balenare davanti per quello che potrebbe essere, per l’unicum che è: tutt’altro che “a misfire” (“un colpo mancato”, “una cilecca”), com’ebbe a definirlo Virginia Woolf, bensì uno straordinario e irripetibile colpito-e-affondato della scrittura. Un impensabile, fino ad allora (la data di pubblicazione è il 1922), tappeto magico.

2. Abracadabra

Nel leggere l’Ulisse ci si accorge che le parole, che sono i nodi della trama, rivoluzionano: com’è specifico della poesia, accade che le parole (anche una sola parola) illuminino violentemente rivoltandole le pagine, accendano orbitando di significato il tutto, incendino sul proprio asse l’immagine. Grande è la frequenza qui con cui la parola ci induce a percepire, grazie a una capacità sinestesica precipua della scrittura poetica, e in un modo a tal punto insistito che si potrebbe considerare l’intero testo alla stregua di un’unica poesia (niente a che vedere col poema), un’unica poesia dilatata, iperbolica, strutturata nelle 3 parti (I, II, III) ovvero macro-strofe del racconto divise in 18 episodi (3, 12, 3) ovvero scene ovvero macro-versi, dove ogni episodio è in realtà un lunghissimo, pantagruelico solo verso, ricchissimo di rime interne, assonanze, metafore ecc. che vanno materilizzandosi (cioè, vengono narrativamente rese) in persone, personaggi, casi, situazioni, frasi, espressioni ecc. L’impressione è che Joyce, superata nel 1916 la prova sperimentale del suo A Portrait of the Artist as Young Man, abbia voluto trasportare e ricomporre in prosa per il tramite tecnico della poesia una sua musica interiore, dove il geniale monstrum, il prodigioso ordito prodotto dall’unione di uno spartito sinfonico con un pezzo di chamber music ma dodecafonico – e Chamber Music è, come si sa, anche il titolo del primo libro di Joyce, una raccolta di poesie uscita nel 1907 –, miscela il recitar cantando (Il ritorno di Ulisse in patria di Monteverdi) al melodramma pucciniano, le malìe di Ravel all’astrazione di Schönberg e alle fiamme di Stravinskij. È per questo che le sue parole nella pagina rivoluzionano: l’uso totale della lingua, declinata nei suoi multiformi linguaggi, fa della lin- gua in sé il racconto, il narrato (si presenta, diciamo, al pari di una Odissea della lingua, il cui canto è come se fosse per sortilegio in perenne esecuzione). E ancora: pittoricamente parlando, sembra quasi di assistere alla, per dir così, messa in scena di una pala d’altare giottesca, con la sua predella e le sue formelle (il cui ordine però è stravolto), dipinta da un cubista, di modo che lo stesso oggetto è osservato contemporaneamente da più punti di vista per ottenere una scomposizione che compone: un cubista con solidissime fondamenta figurative classiche (la mente va al Picasso di Les demoiselles d’Avignon).

3. Abracadabra

Dal leggere l’Ulisse – dai suoi nodi-parole della trama del tessuto del tappeto, dal suo inesorabile decontestualizzare e ricontestualizzare con la sua feroce conseguenza di spostamento di significati fino al rovesciamento e alla parodia (all’acuminato vertice della parodia della parodia), e oltre, fino alla purezza del travestimento e dell’imitazione (mai qui della dissimulazione o della falsificazione, perché qui tutto è onestamente e crudamente “reale” e “vero”), cioè a una sorta di sincronico incamminarsi sul filo senza bilanciere e farsi sparare dal cannone –, dal leggere l’Ulisse se ne può facilmente sortire con le ossa rotte e con la inquietante sensazione di non averci capito niente ovvero con la irritante sensazione di non possedere adeguate facoltà intellettuali, se non addirittura intellettive, oltre che con la ragionevole tentazione di liquidare il tutto come il coltissimo delirio di un letterato irlandese ebbro. In realtà, superato l’iniziale e, mi si passi, iniziatico sforzo di approccio, ponendosi in piena libertà e disponibilità nei confronti della sensibilità del testo, ci si può impadronire (e farsi irretire, esattamente farsi “prendere nella rete”) della profonda grandezza e bellezza di questo punto di non ritorno della letteratura mondiale di tutti i tempi. Da una parte il lettore tenga sempre ben presente che il modernismo joyciano, sodale della linea guida che andava allora tracciando il poeta Pound, ha salde basi evidenti e dichiarate oppure misteriosamente alluse proprio nella tradizione che va scardinando (avvelenando l’impianto stilistico dei grandi narratori dell’Ottocento europeo), secondo un procedimento comune a ogni opera d’arte autentica, e che qui, com’è ormai arcinoto, è costituita da uno zoccolo ovvero piattaforma (tettonica) o pangea formato dal Vecchio e Nuovo Testamento amalgamato alla totalità dell’opera shakespeariana (sulla quale Joyce abilmente riesce a innestare una speciale commistione ottenuta con le accese tinte di una novella chauceriana e le fosche di un truce dramma elisabettiano), passando per il mondo classico greco-latino, la mitologia gaelica e Dante e innervato da scrittori come Defoe, Sterne, Dickens, Rabelais, Cervantes, Balzac, tanto per rammentarne quasi a caso qualcuno; quindi il metodico lavoro di distruzione e di ricostruzione (di rinnovato utilizzo delle pietre del castello letterario) che caratterizza questo inedito omerico bardo del disastro dell’esistere poco o nulla ha a che spartire con l’inane macello di un avanguardista. Dall’altra parte un testo così concepito esige un lettore pronto a traslocarvisi armi e bagagli, ad abitarlo, a starci dentro abbandonando ogni incertezza, a imbarcarvisi provando dunque quel particolarissimo stato d’animo che si ha nel navigare, di identificazione di sé con la nave (io sono la nave/la nave sono io, la nave mi ha/io ho la nave): sono portato dal mezzo e ne divengo il mezzo. Al lettore è richiesto, insomma – an- che se è possibile che ne riemergerà come sfiorato dalla baudelaireiana “ala del vento dell’imbecillità” e stordito, claudicante, balbuziente – di calarsi nel buio della parola, nell’abisso della lingua, di scendere nell’agone di quelle pagine come un antico atleta di Olimpia: nudo. Si esige qui il cedere e l’affidarsi alla consapevole scelta del precipitare (in quel “Sì” con cui si chiude il viaggio?), evitando di controllare gli strumenti, le bussole e i portolani o i radar sollecitamente forniti dallo sterminato contributo critico e dall’apparato di commenti, glosse, note (utili, senza dubbio, ma giustificabili quasi del tutto da, legittimi, criteri editoriali), eludendo se possibile il sotteso, e presunto, schema compositivo che ricalcherebbe episodi dell’Odissea (e che a me pare invece presentarsi come un ulteriore depistaggio, a posteriori, joyciano, una ulissica trappola nella trappola, tanto ammiccante quanto grottesca, e proprio per le sue caratteristiche di erranza ed enigmaticità), e persino la figura medesima di Ulisse, che andrei casomai a rintracciare, anziché nell’eroe omerico, nell’arcaica figura mitica di un dio solare, cioè della nascita e della morte, antecedente alla colonizzazione greca dell’Egeo, pertanto da far risalire a prima dell’epica che lo riguarda. Il lettore infine cessi di continuare a guarda- re del prestigiatore il cilindro con la puerile speranza di capire come e perché ne esca il coniglio.

Silvia Righi, “Demi-monde”

Silvia Righi

Estratti da: Demi-monde

Ø

Se fosse questo un mondo
a metà tra mondi, estratto
come un numero dalla boccia di vetro.
Se fosse, siamo
creature corrotte da qui
e altrove, l’inframondo
una possibilità senza coscienza.
L’idea è che le pareti tengano
che una spinta di dita non le crepi
eppure sento. Qualcuno fuori guarda.
Ci saranno, ci sono state, miliardi
di pareti che non tengono
di dita che spingono
di camere prima e

dopo.

*

V.

Se mi addormentassi
una notte, senza premonizioni.
Se mi addormentassi per trent’anni
la camera comprimerebbe gli oggetti
fino a ridurre le cose in sogni
e i sogni in mondi.

Ci siamo conosciute ovunque,
ovunque è stato un ritorno.

All’origine
s’incastra il dilemma del dolore,
le scelte sono le figlie
cresciute in abiti d’argento
a nascondere gambe magre come sedani.
Esiste come un’eccezione o un errore
la porta senza porta
nel trapasso non sei chi sei stata
né chi attende.

*

Ø

Orfano è la radice di erede.
La trasmissione fallisce se circola
lo stesso sangue e non
il desiderio.
Lei non possiede, deve riprendere
fare originariamente suo ciò
che è stato fatto di lei dagli altri
prima.
Non avrà il mio volto lo specchio
né il padre il suo. La figlia eretica,
divisa, è l’unica
erede del desiderio.

*

Da un altro sogno ha imparato la violenza. Uomini e donne le imprigionavano la bocca con un morso da cavallo, la strapazzavano come una bambola. Alcune donne le mettono il rossetto, la pettinano e le stringono il collo. È un’orfana con padre e madre. Questa camera è molto rosa ma umida come una tana. C’è odore di corpi mischiati, di sangue, di vestiti usati per dormire. La creatura non vede mai nessuno rimanere dentro la stanza. La ragazza si fa legare con corde spesse ma, quando si sciolgono i nodi, cala un silenzio di vetro. La creatura si chiede perché, nella camera rosa, ci siano tanti oggetti di ferro.

 

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Mauro Marino, poesie

Mauro Marino / credits ph. Roberto Pagliara

Le cose nuove 2018

A P.P.P.

Due angeli a governare, ali tenere, sottili
di un volo leggero e veloce.
Un altro, inerpicato, imbianca,
carezza di calce un muro.
Nella piazzetta la pioggia taglia,
l’andatura piegata di una vecchia
rallenta l’urgenza del mondo.

Nessuno osa parola.

San Leonardo ha una piccola chiesa
nei vicoli di Galatone
con fiori di plastica e tovaglia da cucina
e Santa Lucia alluminio, a far confine con la strada.

È così qui, niente è nobile
niente è artificioso. Spontaneo sì, un po’ folle.
La macchina porta via ferraglie,
carica carica del Tempo
e i pozzi crescono illusi ormai di farci bere prima
d’affrontar le scale.

Una architettura antica, utile a chissà quale identità.
Non sappiamo più cos’è stato. Non sappiamo più!

Se, se tu potessi scorgerci adesso
sapere che aspettiamo.
Questo silenzio ubriaca, non trova voci e senso.

Tu, sapiente custode, col tuo allarme
fa sì che questa vena d’acqua torni di nuovo viva
e bere potremmo.
Dissetarci.
Che miracoli tu! Riempi!
Torna… Non puoi? Torna…

Prepotente, feroce, rinasci
basti tu, col tuo profumo, a farci puri
nella nostra nuova rabbia a puntellare
lo scrostato intonaco
dell’edificio sognato e mai sorto.

“Qualcosa (già sai! l’avevi detto!) è venuto
ha fatto allargare l’abisso tra corpo e storia,
ci ha indebolito,
inaridito, ha riaperto le ferite…”.

Tarda, oh! quanto, a trovar terra,
il seme della Passione.

*** *** ***

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Lorenzo Pataro, poesie

Lorenzo Pataro

Spargo i miei organi in vendita sul letto
come Lego i bambini sul tappeto

tu leghi le ossa alle ringhiere
perché al posto delle ali
gli angeli ne facciano stampelle

i corpi sono scambi di lamiere
di croste marce di ferite

ieri pendeva dal tuo orecchio
il fegato in cancrena di un rondone.

 

*

 

Sulle ossa dei santi una rondine cava
un grumo di sangue gelato

e raspi d’uva marcia annodati a fili
di vespe riverse sui campi

pregano un corpo di spolpare
le sterili ombre dei morti e gli occhi

e le mani e le voci dal mondo
che resta soltanto una cellula,

la prima, e la cenere ctonia del sole
a formare il nuovo alfabeto dei vivi.

 

*

 

Potremmo dirci salvi soltanto
tra il freddo delle mura nella casa
di campagna, nell’aperto grido dello spazio

salvi soltanto nel vecchio pagliaio
diroccato incontro alle tele impolverate

nella luce sotto il melo o fra le tegole
spostate, umidi sui greppi o tra le fronde
pronti a gettarci come semi nella terra

salvi come scarti – come la scorza del frutto
spellata dalla lama.

 

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Luca Pizzolitto, poesie

Luca Pizzolitto

Nell’avanzo di parole
su cieli colmi di rabbia,
qui dove piove piano
e rinfresca la sera

cedi al vuoto, al niente,
il dono austero delle labbra.

Nell’ostinato silenzio di Dio,
nel tuo sguardo breve
di madre trova riposo
ogni mia lontananza.

***

L’azzurro del cielo
strappa e cade
nel dolore silenzioso
della sera.

Chiamare casa solo
la luce ferma del mattino,
l’aria di settembre
che si posa sul viso,
questo mio sconfinato esilio.

***

Luce lasciata e tersa
dei primi giorni di dicembre,
misericordia del vento sul
tuo viso gentile, tagliato dal freddo.

È il riverbero ostinato del vuoto,
è un peso greve sul cuore;
neve che accende e poi placa
l’inciampo della sera.

Andare in pezzi, fiorire un mattino.

***

È il cadere atroce della bellezza
tra la fame e il rantolo della ragione
non è muta la polvere

questo silenzio tra i nostri corpi,
l’inganno fragile delle mani.

****

Giorni si perdono nello spazio
sacro del ricordo, i nostri
volti illesi, trattenuti al pianto.

Guardo la neve cadere:
resta la cenere sul lavandino,
l’impronta confusa delle tue mani.

Splende di un disperato
splendore la vita. Continua a leggere

Laura Di Corcia, da “Diorama”

Laura Di Corcia

La borragine porta coraggio
l’ha scritto Jarman
io gli credo.

Il Medioevo è tutto nel Nord:
dalle campagne germogliano
le città, i borghesi stringono patti
e mani, si formano piani
i contadini stringono le cinture
e ammassano in un angolo buio
la speranza, la fede, i figli
continuano a credere nella terra
ascoltano solo la polvere.

Le città germogliano
bucano il tempo
dimenticano le chimere
ammassano nelle campagne
le paure.

I contadini rimangono a lato
la storia continua e li sfiora
loro pregano in ginocchio
sul ruvido
di fronte alla passiflora.

*

Il romanico aveva ragione:
si piegava sul vento
lo proteggeva

rifiutava il guizzo
metteva in esilio Dioniso
le screziature con cui irretiva il tempo.

Il romanico calava nella notte
la accarezzava con mano calda
ma ora non è più tempo:

la storia si nutre di memoria
l’ora il qui scappano
la corsa ha preso il sopravvento.

Non è più tempo di cose tonde.

*

All’incrocio fra il Tigri e l’Eufrate
una donna di argilla
mescolava il tempo.

Accanto a lei cadevano
foglie accatastate
pere, mele, milioni di libri.

Tutto si depositava
in silenzio, nel vuoto
si decomponeva subito dopo.

In mezzo alle gambe
appassivano le ultime stelle
fiorivano i predatori.

Laura Di Corcia, Diorama, prefazione di Filippo Tuena, Tlon, 2021 Continua a leggere

Mario Laghi Pasini, da “Album del venti”

Mario Laghi Pasini

ATTIMI

Mi aveva incantato il suo biancore
stagliato alto nell’azzurro
col sole netto dell’inverno
e il blu verde del mare.

Erano stagioni sapevo
di un breve vivere
prima di una misera fine
per una ferita o soltanto

per l’appesantirsi delle ali
nel distaccarsi ogni volta
della magica cedevolezza
dell’infinità su cui osava sostare.

Ma lui ora passa lento e regale
sopra di me che lo fissavo
l’orecchi teso a cogliere
ogni grido possibile

o la sua eco riflessa
dalle muraglie del borgo
e per quei lunghi attimi
si era fermato il respiro

cancellata l’inquietudine
– il futuro indicibile?
tutto il tempo sfuggito
velocemente dalle mani? –
restava come appesa a quel volo
che già svaniva nell’azzurro
col sole netto dell’inverno
e il blu verde del mare

una tenera malinconia
a cullare volti sguardi
sorrisi vivi ormai solo
nei miei ricordi accartocciati.

Poi il ritorno del respiro
e dello sguardo a terra
e tiu che mi chiedevi: – A che pensi? -.
Con un silenzioso bacio risposi.


MILLENIUM FALCON

Foglie morte concime di domani
replicare l’invincibile impulso
lasciare la semplicità del nulla
da cui anche noi siamo fuggiti

deserti miseria moltitudini
forse segni della fine che viene
pochi noi toccati dal privilegio
di piangere il dolore degli altri

e ogni volta affrontare il senso
insensato di una nostra colpa
chi cercando una difesa che sia
chi ad aiutare e chi con le illusioni

per esempio lentamente scrivere
poche righe avare come queste
e poi salire sul Millennium Falcon
e via! per il sempre di un’ora. Continua a leggere

Marino Santalucia, “Norma L’altra me”

Marino Santalucia

Marino Santalucia racconta in “Norma L’altra me”, Edizioni progetto cultura 2020, lo sguardo di una donna nei diversi momenti della vita. Una poesia che si posa sullo sguardo femminile e poi sul se stesso maschile, poi su altre donne e uomini che si interrogano su ciò che vedono, su ciò che vivono.

IL NIDO

Non parlano i miei slanci
assalgono il silenzio impigliandosi
alle tue reticenze fanno il nido.

 

FOSSI STATA ALMENO UNA CORDA

Chi ha scolpito
labbra e viso
per cantare la mia poesia?
Fossi stata almeno una corda
avrei vibrato all’infinito.

 

IL BRUNO ODORE DELLA TERRA

Dentro me non manchi mai
non svanisci nell’aria,
ovunque spandi
il bruno odore della terra
e canti eterne piramidi.

 

SAREI UN ORTO BELLISSIMO

Potrei essere rinchiusa in uno spazio infinito
bellissimo come un orto incolto
senza rumori
tranne il seme che sboccia
o il vento che scompiglia. Continua a leggere

La performer Carmen Berenguer

Huellas de siglo

1.

La química sirve para todo,
hasta para borrar manchas históricas

Orme di secolo

1.

La chimica serve a tutto,
perfino a cancellare le macchie storiche.

2.

Si Dios me dice ¡Hola!
Yo le contesto:
¿Y dónde estabas tú,
antes que el infierno lo devorara todo
dándose un opíparo festín?

2.

Se Dio mi dice Ciao!
Io gli rispondo:
E dov’eri tu,
prima che l’inferno divorasse tutto
con un lauto banchetto?

3.

Y al séptimo día
creaste al hombre
a semejanza tuya
y son millones de ediciones.

3.

E il settimo giorno
creasti l’uomo
a tua somiglianza
e in milioni di edizioni.

4.
Los héroes están en las plazas
para no dejarnos tan solitarios
frente al pasto.

4.

Gli eroi sono nelle piazze
per non lasciarci troppo soli
davanti all’erba. Continua a leggere

Mario Luzi (1914-2005)

Mario Luzi

La notte lava la mente

Poco dopo si è qui come sai bene,
fila d’anime lungo la cornice,
chi pronto al balzo, chi quasi in catene.

Qualcuno sulla pagina del mare
traccia un segno di vita, figge un punto.
Raramente qualche gabbiano appare.

da “Onore del vero” Neri Pozza Editore, 1957

Come tu vuoi

La tramontana screpola le argille,
stringe, assoda le terre di lavoro,
irrita l’acqua nelle conche; lascia
zappe confitte, aratri inerti
nel campo. Se qualcuno esce per legna,
o si sposta a fatica o si sofferma
rattrappito in cappucci e pellegrine,
serra i denti. Che regna nella stanza
è il silenzio del testimone muto
della neve, della pioggia, del fumo,
dell’immobilità del mutamento.

Son qui che metto pine
sul fuoco, porgo orecchio
al fremere dei vetri, non ho calma
né ansia. Tu che per lunga promessa
vieni ed occupi il posto
lasciato dalla sofferenza
non disperare o di me o di te,
fruga nelle adiacenze della casa,
cerca i battenti grigi della porta.
A poco a poco la misura è colma,
a poco a poco, a poco a poco, come
tu vuoi, la solitudine trabocca,
vieni ed entra, attingi a mani basse.

E’ un giorno dell’inverno di quest’anno,
un giorno, un giorno della nostra vita.

da “Onore del vero”, Neri Pozza Editore, 1957

In due

«Aiutami» e si copre con le mani il viso
tirato, roso da una gelosia senile,
che non muove a pietà come vorrebbe ma a sgomento e a orrore.
«Solo tu puoi farlo» insistono di là da quello schermo
le sue labbra dure
e secche, compresse dalle palme, farfugliando.
Non trovo risposta, la guardo
offeso dalla mia freddezza vibrare a tratti
dai gomiti puntati sui ginocchi alla nuca scialba.
«L’amore snaturato, l’amore infedele al suo principio»
rifletto, e aduno le potenze della mente
in un punto solo tra desiderio e ricordo
e penso non a lei
ma al viaggio con lei tra cielo e terra
per una strada d’altipiano che taglia
la coltre d’erba brucata da pochi armenti.
«Vedi, non trovi in fondo a te una parola»
gemono quelle labbra tormentose
schiacciate contro i denti, mentre taccio
e cerco sopra la sua testa la centina di fuoco dei monti.
Lei aspetta e intanto non sfugge alle sue antenne
quanto le sia lontano in questo momento
che m’apre le sue piaghe e io la desidero e la penso
com’era in altri tempi, in altri versanti.
«Perché difendere un amore distorto dal suo fine,
quando non è più crescita
né moltiplicazione gioiosa d’ogni bene,
ma limite possessivo e basta» vorrei chiedere
ma non a lei che ora dietro le sue mani piange scossa da un brivido,
a me che forse indulgo alla menzogna per viltà o per comodo.
«Anche questo è amore, quando avrai imparato a ravvisarlo
in questa specie dimessa,
in questo aspetto avvilito» mi rispondono, e un poco ne ho paura
e un po’ vergogna, quelle mani ossute
e tese da cui scende qualche lacrima tra dito e dito spicciando.

da “Nel magma” Garzanti (1966)

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La nuova poesia italiana

Poesia contemporanea. Quindicesimo quaderno italiano, Marcos y Marcos

Dario Bertini, Interno 3

La finestra rimane sempre aperta: l’istinto naturale
sarebbe di saltare o mettersi a pulirla:
se c’è neve è meglio
dare un nome alla paura, lasciare che qualcuno
provi ancora ad amarci: lei lo sapeva bene,
per questo ha messo Bach sotto la doccia –
l’acqua bollente riempie il bagno di vapore,
appanna i vetri: verso le quattro del pomeriggio
un merlo taglia l’aria, si posa sul terrazzo,
(il becco giallo, gli occhi come spilli): lei
qui si toglie la maglietta, la schiena
è bianca come un cielo polare; scrive col dito
sullo specchio una parola che scomparirà

*

Simone Burratti, Con il tempo i computer si stancano

Con il tempo i computer si stancano,
rallentano, la batteria interna
perde energia per il surriscaldamento.
Diventano più sporchi, meno
Maneggevoli, si convincono
che la sfiducia totale nei calcoli
sia una diversa forma di sapienza.
Analizzare il futuro li spaventa
come una volta li rendeva forti.
Con il tempo, con i modelli nuovi,
la sostituzione diventa necessaria;
e allora i loro dati si disperdono
tra foto e file word nelle cartelle
minuscole dei loro successori.

*

Linda Del Sarto, Il ricordo impazzisce

Il ricordo impazzisce.
Ci sono odori che
entrano dentro, smuovono
pianti e stringono
a tradimento il collo.
Ammaccano l’armonia dei visi.
Quel bacio, per esempio: elettrolisi
del mio danno
cerebrale – dal tatto al non
contatto tra sinapsi. È normale.
Perché non fu tanto l’arte
del rimbambire, una catarsi
quanto l’instupidire
per il troppo amarsi.

*

Emanuele Franceschetti, (Introitus)

La memoria coltiva la sua lingua.
Dal fondo si riversa un sillabario,
cose insepolte che ancora significano
dietro la soglia incerta del visibile.
C’è un nome che non puoi dimenticare:
i vivi e i morti restano indivisi
nell’equivoco del tempo lineare.
La vita si contamina, persiste.

*

Matteo Meloni, Seytes

Diventeranno pietraie le Alpi,
cambieranno colore.

Nell’aria secca volava un astore
e sulle alture guardingo
rastrellava le forre.

Verranno i segugi troveranno
il nascondiglio, una lingua
di neve tra le spire del ferro,
il grigio fumoso.

*

Francesco Ottonello, se vuoi provare a entrare

se vuoi provare a entrare
qui devi avere un motivo. trovalo
se sei ancora qui questo è l’unico
che conosci per comunicare

non parlo con nessuno. ti chiedi chi sei
è la domanda a essere sbagliata

ora immagina di sdraiarti. censura dimentica
ciò che hai letto sopra non era sopra. non c’è niente
vedi non c’è più niente. ora sei con me. come me. ora
ti ho convinto. è vero. forse. ti controllo
a quel forse ti aggrappi. ti tendo
vedo che vieni

*

Sara Sermini, Cardus

L’aria era irsuta e ispida
come i cardi che raccogliemmo.

Sotto la luna, vicino al cavalcavia,
i sacchi abbandonati dell’immondizia
erano cuscini colorati.

Vicino alla luna, tra le ortiche e il fango,
bisognava soltanto badare ad amare.

Poesia contemporanea. Quindicesimo quaderno italiano, Marcos y Marcos

Poesia contemporanea. Quindicesimo quaderno italiano, a cura di Franco Buffoni, prefazioni di Antonella Anedda, Andrea De Alberti, Massimo Gezzi, Paolo Giovannetti, Franca Mancinelli, Guido Mazzoni, Fabio Pusterla, Marcos y Marcos 2021.

Alfonso Guida, da “Conversari”

Alfonso Guida

Notti gelide. Albe mute.
La breve confessione dell’oscurità, una pietra.
L’istante mostrato. La parola avanza: uomo, arc-en-ciel.
Il fumo si raduna intorno al tavolo. Che mi ripete a un’idea non veritiera di lutto. Accucciato nel nome. Il gelo. L’urgenza. Le ombrelle scurite del sambuco. Ai piedi un disordine bianco, lo spigolo, dei fotogrammi. Nel dettaglio di un eccidio, ha i sassi della tregua.

***

Qui, a novembre. Nel tuo volto gelato.
Nel colmo di un’estate. Il muratore
cerca la prima fonte, tra le grida.
Varcavo la durezza
dell’erba. Il tuo sguardo si è fatto opaco.
Trema una luce. L’infanzia sfregiata.
La stagione che vedo
nei tuoi occhi ha dispensato
una disputa di corvi, un giocarsi
l’autunno e l’inverno. Anche l’ombra pesa.

***

È crudele quest’autunno
perché allunga le agonie e tarda il sonno.
E sale dal muro l’odore viola
di vernaccia e il guizzo di un controluce
come fosse Pasqua e si festeggiassero
le capanne. I passeri beccano briciole.
I primi colori di ottobre sono
di un Corot che annuncia burrasca. Per noi
si tratta di passaggi
nel pensiero e nel sottostante. Lasci
che il muro sia il taglio e io il maestro di bricolage,
la civetta sapiente
di Minerva, il resto lo decide il porco mutare
dell’aria all’equinozio. C’è chi tace
restando inascoltato. Perché trovate ineducato
aprire la porta di un paese sconosciuto e sedersi
a mangiare con l’estraneo?

Alfonso Guida, tre poesie da Conversari (round midnight edizioni, 2021)

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Alexandre O’Neill e il surrealismo portoghese

Alexandre O’Neill

NOTA DI ELEONORA RIMOLO

In Portogallo i movimenti culturali europei si innestano con diversi anni di ritardo rispetto ai paesi in cui questi si originano: ciò accade anche con il surrealismo, movimento che in Portogallo attecchisce nel secondo dopoguerra (nel 1947) per necessità storica – numerose sono infatti le analogie con il primo dopoguerra francese, basti pensare al senso di insofferenza e di rigetto dei valori borghesi imposti, ma altrettante sono le novità di questo movimento, che assume tratti assolutamente inediti.

Purtroppo, il surrealismo portoghese non può esprimersi in una attività collettiva, di gruppo, ma si realizza a livello individuale a causa dell’assoluta mancanza di libertà dei singoli nonché della mancanza di un valido entroterra freudiano utile a sostenere le teorie letterarie surrealiste.

Il fascino del surrealismo portoghese sul Tabucchi narratore è connesso allo studio critico di Tabucchi sul movimento, che nel 1971 per Einaudi curò il volume La parola interdetta. Poeti surrealisti portoghesi.

Nell’introduzione al volume, il curatore sostiene che il sistema poetico surrealista portoghese si fonda sostanzialmente su quattro elementi: l’angoscia, lo scherno, l’immagine e l’impegno. Sono sentimenti che non si addicono ad una Avanguardia tout court, poiché la disillusione, il senso di resa e l’amarezza qui sostituiscono la forza sferzante e critica del surrealismo francese. Questo atteggiamento dipende dalla situazione politica portoghese di quegli anni: la caduta del fascismo italo-tedesco non ha prodotto la caduta del salazarismo, anzi ha permesso a quest’ultimo di rafforzarsi in via definitiva.

La poesia è impotente di fronte alle violente repressioni e alla costante vigilanza del regime, e non può che rifugiarsi in un sistema letterario pregno di ambiguità e di allusioni, di simboli che nascondono il nudo significato per poter sopravvivere, galleggiando in un oceano di compromessi con il regime – che lascia gli intellettuali “liberi” di esprimersi con doppi sensi, giochi di parole e critiche indirette e per questo li schiaccia definitivamente sotto il peso dei sensi di colpa e con la consapevolezza di essere la “cattiva coscienza” di quella borghesia tanto detestata ma profondamente incarnata, responsabile dello sfacelo del Paese.

Quali armi possiede dunque questo movimento, in apparenza così privo di forza, di baldanza? Continua a leggere

Per Mario Benedetti, presentazione a Pordenonelegge

IL LIBRO

Sono 45 i poeti e i critici che nel libro Per Mario Benedetti portano un ricordo del poeta friulano, un commento o un’ipotesi di interpretazione di una sua opera, ripercorrendo momenti della sua vita, incontri e passaggi dai suoi libri. Una testimonianza d’affetto e allo stesso tempo un orizzonte di risposte a una poesia che ha saputo affascinare e convincere gli appassionati al di là delle appartenenze generazionali e degli orientamenti della poetica personale.

Il libro, Per Mario Benedetti uscito con Mimesis nel 2021, sarà presentato in anteprima al Festival di  Pordenonelegge venerdì  17 settembre alle 21.00 alla Libreria della Poesia di Palazzo Gregoris,

Interverranno Alberto Bertoni, Maria Borio, Milo De Angelis, Stefano Raimondi e Luigia Sorrentino.

Presenta Alberto Garlini.

_______________

Per mio padre

Sta solo fermo nella tosse.
Un po’ prende le mani e le mette sul comodino
per bere il bicchiere di acqua comprata,
come tanti prati guardati senza dire niente,
tante cose fatte in tutti i giorni.
Intorno ha una cassettiera con lo specchio,
due sedie scure, un armadio, l’incandescenza minuscola di una stufa.
Dei centrini, la stampa di una natività con il rametto di ulivo,
un taccuino, dei pantaloni, delle cose sue.
Davanti il cielo che è venuto insieme a lui,
gli alberi che sono venuti insieme a lui. Forse una ghiaia di giochi
e dei morti, che sono silenzio, un solo grande silenzio, un silenzio di tutto.
A volte l’acqua del Cornappo era una saliva più molle,
un respiro che scivolava sui sassi.
A volte tutto era l’uccellino del freddo disegnato sul libro di lettura
vicino a una poesia scritta in grande da imparare a memoria.
A volte niente, venire di qua a prendere il pezzo di cioccolato
e la tosse, quella maniera della luce di far tremare le cose,
gli andirivieni, il pavimento stordito dallo stare male.

Mario Benedetti
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Gianluca D’Andrea, “Nella spirale”

Gianluca D’Andrea/ Credits ph. Dino Ignani

 

 

 

La luna e la belva

 

Inverno, pallido sfregio di cellule,
in quale giorno sfacelando smisi
stanco lo scanto accettando la crisi?

La luna, argentea danza di libellule,
fissa e mobile in stanze nere osserva
la fine assiderata della belva

le ultime movenze, il suo respiro
vapore astratto, rapido ritiro.

 

Ghiacci e fuoco

 

Quale fuoco arde forte o si confonde
con gli ultimi calori stinti e fonde
ghiacci di candide fibre accrocchiate?

In acqua trasformati infine estinti
i vecchi luoghi noti e variopinti.
Le piaghe nuove bruciano eccitate

da quel fuoco che abbampa tutto il cielo,
il suo rosso tremore o malo gelo.

 

Il falso vuoto

 

Il vento crudo investe la materia,
la crosta assorbe la luce e s’inseria
in pianeti molteplici e poi varia

la veste bruna che indorata interra
il falso vuoto e un pieno dissotterra
di residui. Scintilla, e tutta l’aria

è un segreto di munnizza scordata,
un’alba dolce astrale abbandonata.

Gianluca D’Andrea, Nella spirale (Stagioni di una catastrofe), Industria & Letteratura

 

 

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Maria Borio, “Dal deserto rosso”

Maria Borio, Credits ph. Dino Ignani

Sono un punto solo nel deserto rosso:
oggi è questa la mia dimensione, un punto
che non ha lunghezza, larghezza, profondità,
caduto dalla parte più alta del cielo su una terra
piena di silenzio e pura improvvisamente.
Ti scrivo da una zona rossa, ed è questa la verità:
i confini sono tracciati, il rosso ha riempito lo spazio,
vuoto, neutro, senza uscita, e tutti sono come me,
punti soli, senza illusione, nella prima primavera
del millennio che al tempo sta cambiando la faccia.
Ti scrivo e da questa stanza sussurro che se un punto
non ha dimensioni è perché forse le ha unite tutte in sé?
Pensarsi è unirsi – mentre la notte e il giorno
hanno un unico colore e impariamo a pensarci –
e un bene, come mai, nuovo?

*

“Tempo non è resistenza…” – lo dice anche lei
mentre pensa – che poi resistere vuol dire durare:
“Soffia via il male, come hai soffiato via i demoni,
liberaci adesso, spingi lontano, sarà più facile”.
Si stacca dal computer, conosce un fine nelle cose:
il volto di Gesù, bellissimo, la sveglia fluorescente,
il pettine di legno, la crema per le mani, le pastiglie
sul comodino al loro posto e anche l’aria che Lui
ha lavato, i nervi tesi, lunghi fino alle ossa, la paura
per la neve di marzo, veloce e grigia, in una notte.
“Il 25, a mezzogiorno, il Papa chiede ai cristiani
in tutto il mondo di dire insieme Padre Nostro
che sei… – e saremo liberi, liberi”, sì, e anche lei
sorriderà nell’ovatta, credendo sempre ai miracoli
senz’altro veri, al volto bellissimo, giovane, di carta.

*

Acqua dà forza all’acqua. Sto per prenderti la mano.
Soli siamo acquamorta, se uniti acquaviva.
Insetti iridescenti saltano su cerchi di amido,
sul pozzo c’è l’alone della ruggine, una tela
grigia e azzurra, le foglie secche dell’ulivo,
parti di terra nei polmoni. Insieme, vuol dire?
Ma ti porto in una casa di costruzione – troverai
le pupille del coniglio, bianchissime nel rosso,
nel cubo della gabbia – poi l’avevo lasciato,
con la sua pazza famiglia correva dentro l’erba,
non è mai stata selvatica – supernova ribelle,
meteorite fra le canne – si sparpaglia, non è
libera, non cambia. Scrivo insieme, premo invio.
Fermo-immagine. Se non siamo mai autentici
verità fai paura? Acquaviva in acquamorta.

Maria Borio, Dal deserto rosso, I Quaderni della Collana Stampa 2009, 2021 a cura di Maurizio Cucchi Continua a leggere

Marco Amore, da “Farragine”

Marco Amore

FARRAGINE

whisky che gronda, come colla istantanea o ambra da un fusto accoltellato, risali la mia gola impavido, come Enea dall’Ade

nasturzi immortali di brandy, grappa, armagnac, vesou, cognac, rum, cachaça, thibarine, slivoviz, malibù in un cocktail esotico

che io comprenda l’avestico, se occorre
la mia anima quale triste, mistica parola interpreta?

s’inauguri il viaggio: bastimenti, ahi! I Nettunalia son compiuti. Che meravigliose polene…

un sorso ed è fatta; sono nel fiore degli anni Tin Tin, fa il bicchierino di gin…

***

CIN CIN

quanti oboli ho pagato al traghettatore? tuttavia si è rifiutato di recapitarmi sulle opposte, cupe rive dell’Acheronte. Pertanto mi bagnai nel gange. DIVIETO DI BALNEAZIONE nei profluvi orientali. Ma se sono di aromatico vino da esportazione…

torrenti, fiumi, greti e canali impregnati dal vino delle messe. E ne sono ebbro

lo Stige fluiva dai suoi occhi, ma fu l’oblio del Lete dei suoi seni a condannarmi. Nell’incavatura tra le cosce | come un fiume questuante d’acque terrestri, che scorre nella rigogliosa valle dell’Eden

lo sfolgorate nome era Shakti , e Shakti era Kali, e Kali era durga, e durga era Shiva

l’intimità della donna era Iblis e Yama e ganesha e Nezha e le sue dita pudiche erano Inari, Raijin, Baldr, Vali,

Malsumis, Wawalag, Borr e Bomazi la sua favella era Bragi e intendeva ogni lingua e ogni

lingua dei segni del mondo mia amata

 

*

penzola l’arto dalla pacifica branda. Ho il cuore all’inferno e il corpo disteso sulla lana. Il Lete rimbomba tra le sue pallide forme cedevoli? Vellutati? sprimacciati cuscini su cui riposa il corpo di un altro|, e l’Acheronte e il Cocito tra quegli occhi arrossati. La mia donna non è mia. La mia donna è su internet

un buon condottiero non è bellicoso, Lao tzu? un buon combattente non è iracondo? Allora son degno dell’aggettivo «pessimo», perché contesi e fui iracondo, istupidito da un’effimera attrazione. Milton, narra del mio paradiso perduto

la dizione che ti ha concesso Natura servirà il mio scopo o marcirà con la torba che ingombra le fauci del tuo sonno

basta ammennicoli: parole e parole e parole ma tutti puntate indici a casaccio

i tre giorni sono trascorsi, ma giaccio ancora, inerme, nel gelido sepolcro

è la mia bucolica branda… il mio sepolcro… la mia coscienza

 

Cesare Pavese, tre poesie

Cesare Pavese, Santo Stefano Belbo, 9 settembre 1908 – Torino, 27 agosto 1950

TU SEI COME UNA TERRA

Tu sei come una terra
che nessuno ha mai detto.
Tu non attendi nulla
se non la parola
che sgorgherà dal fondo
come un frutto tra i rami.
C’è un vento che ti giunge.
Cose secche e rimorte
t’ingombrano e vanno nel vento.
Membra e parole antiche.
Tu tremi nell’estate.

29 ottobre 1945

TU NON SAI LE COLLINE

Tu non sai le colline
dove si è sparso il sangue.
Tutti quanti fuggimmo
tutti quanti gettammo
l’arma e il nome. Una donna
ci guardava fuggire.
Uno solo di noi
si fermò a pugno chiuso,
vide il cielo vuoto,
chinò il capo e morì
sotto il muro, tacendo.
Ora è un cencio di sangue
il suo nome. Una donna
ci aspetta alle colline.

9 novembre 1945

E ALLORA NOI VILI

E allora noi vili
che amavamo la sera
bisbigliante, le case,
i sentieri sul fiume,
le luci rosse e sporche
di quei luoghi, il dolore
addolcito e taciuto ‒
noi strappammo le mani
dalla viva catena
e tacemmo, ma il cuore
ci sussultò di sangue,
e non fu piú dolcezza,
non fu piú abbandonarsi
al sentiero sul fiume ‒
‒ non piú servi, sapemmo
di essere soli e vivi.

23 novembre 1945 Continua a leggere