Fabio Jermini, “Singolarità”

Fabio Jermini

 

Il pozzo delle anime

 

 

¿Dove vanno la donna
che tiene per mano un bambino
l’uomo seduto su un assale, quel tale che calca
con passo sicuro le tavole di un ponte sospeso?

Sagome d’avorio stagliate contro l’azzurrino.

¿Eroi di quali storie
miti, leggende, celtiche saghe?
¿Quali i moniti o gli ordini? ¿I fatali divieti?

È un complesso ipogeo
tra gneiss, argilla e ghiaia
un tempo una grotta – poi stanze spettrali
impilate, simmetriche (¿un tempio, un sepolcro?)

Sulla soglia, due are, una trave
una stele bislunga
con messaggi cifrati:

†La prima ½ h è gratuita
da 1 h, 1 fr. ogni ½ h fino a 3 h†

†È severamente vietato (?) fumare†

 

 

Alienazione

 

 

Brillano d’ambra le piramidi
nel deserto di tegole
mentre imbruniscono
pedoni schierati, i comignoli
(non ittiti, assiri, persiani
ma isole, cunei, catene)
… e qui si acutizza l’arrocco
la distrazione, la devianza… l’agguato
l’agguato è nei tonfi monotoni
e nei trilli, quando scintillano
le linee di contatto
nel quotidiano moto immobile
della coorte che s’ingorga.

Piovra dai tentacoli elettrici
da Étoile a Sismondi, da Maisonnex a Rive
la vera noia è stare alcione in alpe, uncicato
all’orizzonte degli eventi…

È venerdì. Pont-d’Arve gorgoglia
di clacson, di gavazze e di bestemmie
e dietro le persiane
– schermo di segrete lussurie –
qualcuno
si masturba
su Pornhub. Continua a leggere

Il grande poeta siriano, Adonis

Adonis

Adonis

Oggi ho la mia lingua

Ho distrutto il mio regno
ho distrutto il mio trono, le mie piazze e i miei portici
e con la forza dei polmoni ho iniziato
a insegnare al mare le mie piogge, regalargli
il mio fuoco e le mie braci
a scrivere il tempo che verrà sulle mie labbra.

Oggi ho la mia lingua
ho le mie frontiere, la mia terra, il mio aspetto
ho popoli che mi nutrono con la loro incertezza
e si illuminano con le mie rovine e le mie ali.

I canti di Mihyar il Damasceno (Mondadori, 2017), trad. it. Fawzi Al Delmi Continua a leggere

Roberto Carifi, poesie

Qualcosa è irreparabile nella merenda sbriciolata,
gli attimi puri della nascita
quando uno vede le cose allontanarsi
e prega che non ci sia nessuno,
nemmeno un padre da perdonare…
nessuno, vi scongiuro, sia troppo vivo
tra le lampade spente,
nel bianco delle corsie,
questa voce che si cancella dove non c’è rimedio
e ogni errore è una vittoria.

***

Un figlio, all’alba, la gioia di vivere
in un battito preciso,
sollevano le insegne di questa povertà
ed una rabbia che non uccide
illumina ogni cosa
… il tempo… hai visto… nelle cantine buie
qualcuno ha chiamato con insistenza…
“Perdona, Roberto, perdona il nostro amore.
Fummo gettati nella tua voce, tra Piazza d’Armi
e la casa di Luciano… non volevamo…
non volevamo perderti… è stato il vento,
nel solaio, una luce fredda e miserabile”
ragionano, nel gelo, mentre deve decidere
una stella.

***

Era giusto correre fino al parco
trovare il vecchio addormentato
lui, mi dicevi, conosce l’orrore della vita,
poi anche l’ultimo bambino
parla nel nostro suicidio,
un orfano che portiamo a destra
accanto ai documenti
quando giuriamo di morire in piedi,
dietro un vetro rotto. Continua a leggere

Gian Giacomo Menon, Poesie

Gian Giacomo Menon, foto d’archivio

geologia di silenzi
il mare fermato nelle conchiglie
i fuochi nella terra
anni o secoli il tempo della nostra pietà

***

l’altrove dei giorni
pozzi di erba nessuno specchio di luna
ed era ieri l’incontro di carissime mani
palestra della mia forza per cortili obbligati
campo liberato di passeri

***

scambiati zodiaci
sostituite corde del cielo
è passata una luna ebra di danza
tagliente nelle sue falci
verde scarlatta candida rigata di nero
un’altra luna è venuta
giusta nelle sue gobbe absidi e nodi
rotonda di stupori
bilancia di giusto mezzo
bere i suoi chiari silenzi

***

terra lenta dell’erpice
fatiche di una vita
si scardina il sasso dalla zolla
nello spavento della locusta
invidia di più forti ali
e l’erba resta sospesa nel vento
questa stagione di prove
non si appoggia a stelle matematiche
impotenti nei giri assegnati
contro il caldo furore del sangue
che tira il grido dalla sua parte
e ogni perdizione
non confondermi nell’istante della resa
non giudicarmi se l’occhio si fa vetro
sulla parete offesa dalla rinuncia
tutto umano è il piede
che incontra il suo ostacolo
il braccio che decide di abbassare lo scudo

***

nido del sagittario
un grillo ha cantato
non più di un bisbiglio
nella pena dell’essere

***

tagliarti a metà frutto di luna
nella tua pietra
oltre la scorza azzurra
luce rubata alla pelle
non credere alle parole
rimbalzate dai miei silenzi
mi pesa nella mano il tuo seme
svelato da una lama di vento

***

non chiedere il cedro alle colombe
alta coppa di venti prima dell’autunno
mutevole stagione dell’occhio
dove le ciglia resistono alla palpebra
peso di amare lumache
rugiada di ombre sotto le uve
soli convulsi sfrangiano la pelle delle foglie
il primo tralcio caduto stride al passo del carro

***

non sorprenderti amore
se qui è stanco il cavallo
se qui è siepe e pozzanghera
non sorprenderti amore
se qui il cavallo non supera ostacoli
se qui bassa coda e criniera
si ferma e nitrisce le greppie svuotate
e batte piano il suo zoccolo

***

averti come i lunghi odori della terra
nell’alba degli aratri
quando l’allodola scrive la sua prima parola
come il fresco sapore del pane
quando la falce riposa all’ombra dei gelsi
averti intatta nell’infanzia
quando il campanile divide
il giorno della locusta dal giorno del grillo
a tessere i soli e le stelle

***

io so la figura
ed è ape e gheriglio
mio immobile tempo
non casuale di occhi
saltuario di labbra
dove termina il gioco
l’alienarsi delle mattine
fruizione di stanche maschere
e noi a pesare l’essenza
le bilance alchemiche
mercurio e fuoco zolfo e sale
misurati sulla tua pelle

***

la solitudine dentro gli occhi
e tu fermavi le lune
io le volevo nel fondo
e si compisse la legge e il deserto
i rovi macerati dal vento
le pietre spaccate
e quelli che cercano l’acqua
e restano arsi all’orlo dell’uomo
oscuro pozzo di fango

***

solitudini dimenticate dal tempo
oggetti di fredda forma
ritagliati nel niente
e l’uomo si dissolve
puro di trascendenze
un cuore sotto vetro
tu a percuotermi in foglia
inesatto di linfe
restituito alla terra
dove appari imprevista
casuale di labbra e di mani

***

la pioggia ha lavato la pietra
le artemisie bruciate
nessuno ritorna alle terre rosse
l’assenza è un nido ferito
e il lepre* è stanco di affidare alla luna
il nome della sua pena

***

libertà dalla pioggia e dal vento
quando la parola non è foglia
pietra articolata di silenzi
un solo nome la scrive
che nessun occhio decifra
nessun labbro ripete

***

l’acqua più amara dei covoni
roste per guanti nudi
innocenza di trappole
immergersi dentro la luna
cognizione del fondo
i covili del pesce
e tu lenta come una tinca
più scaltra del luccio
eludi le reti e la lenza Continua a leggere

Nadia Agustoni, da “Gli alberi bianchi”

Nadia Agustoni / credits ph. Dino Ignani

nel cielo tutto è cielo:
“il nostro guardare è farsi azzurro
vestirsi per un giorno grande”

così la sera nei quaderni

nell‘ombra delle foglie

passare

***

stare vicino agli alberi
e insieme,
per qualcosa di reciso
sulla terra

com‘era nel verde
coi suoi fiori

o come la neve

___________________

lontano l‘astro delle chiome

***

il fuoco se brucia le foglie
e tra il nascere e il morire
diventare con l‘insetto
e un po‘ di luna

quello stare quieti

***

nel sole dei rami
com‘era il vento
com‘era perdonarsi

il tavolo il piatto il bicchiere

e l‘insetto capovolto
guardarlo morire

(altri piangono le loro
storie di bambini)

________________________

così tutto è vicino
il mare dei racconti
i musi
i fucilati

il cranio della vacca

spaccato

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Milo De Angelis al Festival Letterature

Milo De Angelis/ Credits ph. Viviana Nicodemo

Oggi, sabato 24 luglio alle 21:00 il poeta Milo De Angelis aprirà la quarta serata del Festival Internazionale di Roma, Letterature. A seguire i racconti di Mario Desiati, Muriel Barbery, Nathalie Léger e Assaf Gavron.

Completamente rinnovato il Festival a cura di Andrea Cusumano e Lea Iandiorio con la regia di Fabrizio Arcuri, torna per la sua Ventesima edizione nella ambientazione dello Stadio Palatino. La serata conclusiva di domenica 25 luglio inizierà con la riflessione “a braccio” di Erri De Luca, a seguire i racconti di Erri . Concluderà la serata e chiuderà il Festival l’intervento di Stefano Massini.

Qui l’intero programma del Festival.

Il tema di Letterature: “Leggere il mondo” attraverso gli interventi di poeti e scrittori, ma anche di altre voci, non solo della letteratura e della poesia.

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La Collana gialla, un nuovo sodalizio : Pordenonelegge e Samuele Editore

Gian Mario Villalta, Valentina Gasparet, Alberto Garlini, Curatori di Pordenonelegge – immagine adnKronos

Ritornano a settembre gli appuntamenti con le novità editoriale di pordenonelegge: la collana Gialla e la collana Gialla Oro, rinnovate in tutto, grazie alla nuova collaborazione con Samuele Editore.

Le Collane Gialla e Gialla Oro, progetto editoriale di pordenonelegge e Lietocolle che negli anni si è consolidato ottenendo attenzione e consenso, rilancia con profonda convinzione la propria idea di cultura e poesia all’interno della nuova collaborazione con Samuele Editore. Il progetto della Gialla ha per anni accolto voci di autori già conosciuti da chi segue la vicenda attuale della poesia, considerandoli testimoni del panorama nazionale. Il progetto della Gialla Oro ha invece proposto opere di autori che avevano già trovato riconoscimento e che in questa Collana hanno confermato il loro desiderio di dialogo e condivisione.

Un’amplificazione della vocazione coltivata da pordenonelegge nel corso di numerosi anni: il dialogo, l’incontro, la ricerca di quella condivisione come vero luogo della parola e vera distanza, che sempre di nuovo si azzera e si ricompone, tra il poeta e il lettore. Condividendo il progetto pordenonelegge e Samuele Editore aprono una nuova stagione, fiduciosi nell’energia di un nuovo inizio. Un nuovo dialogo, un nuovo fare, nella
traccia di un percorso assodato che si incammina verso una nuova avventura in poesia. Continua a leggere

Jacopo Curi vince il Premio giuria di qualità del concorso #assagidiversi

Jacopo Curi /credits ph Giandomenico Papa

Notte preistorica, superficie stagnante.
Un nodo si scioglie, il semaforo lampeggia
la terra completa un giro. Quanto pesa
adesso un pensiero, quanto fa rumore
un rumore improvviso.

Non sapevamo che avremmo dimenticato
che tutto sarebbe divenuto inaccessibile.
Almeno si può scegliere di non rimuovere
i contorni di una somiglianza, le frenate
del sangue: quando da piccoli giocavamo
a nascondino accucciati dietro un muretto,
quando c’eravamo nello stesso luogo
puntuali ogni mattina, quando dicevi
mai e per sempre ciò che non è stato.

Nessun ricordo sostiene la nitidezza
di una vista di tetti rossi, realmente rossi
di colline verdi, realmente verdi
ma c’è un più occulto vedere
di cui soli si è i testimoni:
l’aver visto, il voler vedere ancora.

(Inedito)

NOTA DI MATTEO BIANCHI

Talvolta, mentre camminiamo per la strada e lasciamo che i pensieri fluiscano insieme a chi abbiamo intorno, ci sembra quasi di riconoscere chi incrociamo, come se tutti avessero in fondo qualche tratto in comune con chi abbiamo vissuto in passato, come se l’innocenza dell’infanzia ci legittimasse per un istante a dire «mai e per sempre ciò che non è stato». Che si tratti di tempo sopra altro tempo, di strati di pelle, di lineamenti a noi cari che si siano sovrapposti ad altri lineamenti – ribadiva Cortázar – o alle «frenate del sangue» che ci accomunano irrimediabilmente, poco importa. Nessun ricordo vale un minuto del presente, né può eguagliarne la nitidezza in nessun modo, ma senza l’intensità del significante, senza il peso del corpo, non riusciremmo a trattenere la profondità del significato.

Le strofe alte e notturne di Jacopo Curi si sono aggiudicate il Premio della giuria di qualità al concorso #assaggidiversi, in occasione della quinta edizione del Festival “Piombino in Arte”. Premio che Michele Paoletti, presidente dell’associazione “Assaggialibri”, consegnerà al poeta marchigiano stasera, venerdì 23 luglio, alle 21, sul palco dei giardini ex Pro Patria.

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La poesia di Natalie Diaz

If I Should Come Upon Your House Lonely in the West Texas Desert

By Natalie Diaz

I will swing my lasso of headlights
across your front porch,

let it drop like a rope of knotted light
at your feet.

While I put the car in park,
you will tie and tighten the loop

of light around your waist —
and I will be there with the other end

wrapped three times
around my hips horned with loneliness.

Reel me in across the glow-throbbing sea
of greenthread, bluestem prickly poppy,

the white inflorescence of yucca bells,
up the dust-lit stairs into your arms.

If you say to me, This is not your new house
but I am your new home, 

I will enter the door of your throat,
hang my last lariat in the hallway,

build my altar of best books on your bedside table,
turn the lamp on and off, on and off, on and off.

I will lie down in you.
Eat my meals at the red table of your heart.

Each steaming bowl will be, Just right.
I will eat it all up,

break all your chairs to pieces.
If I try running off into the deep-purpling scrub brush,

you will remind me,
There is nowhere to go if you are already here, 

and pat your hand on your lap lighted
by the topazion lux of the moon through the window,

say, Here, Love, sit here — when I do,
I will say, And here I still am.

Until then, Where are you? What is your address?
I am hurting. I am riding the night

on a full tank of gas and my headlights
are reaching out for something.

 

Dovessi mai imbattermi nella tua casa solitarianel deserto del Texas occidentale

Farò roteare il mio lasso di fari abbaglianti
nella veranda sulla facciata,

lo lascerò cadere come una corda di luce annodata
ai tuoi piedi.

Mentre parcheggio la macchina
tu annoderai e stringerai il cappio

di luce al tuo polso —
e io mi farò trovare lì con l’altro capo

avvolto tre volte
attorno ai miei fianchi che hanno corna di solitudine.

Tirami a riva, all’amo nel mare luce-pulsante
di Thelesperma, di Argemone albiflora,

della infiorescenza bianca delle campanule di yucca,
su per le scale illuminate dalla polvere fin nelle tue braccia.

Se tu mi dici: Questa non è la tua nuova casa
ma io sono la tua nuova casa,

io entrerò nella porta della tua gola,
appenderò in corridoio il mio ultimo lazo,

erigerò il mio altare con i libri migliori sul tuo comodino,
accenderò e spegnerò la lampada, accesa e spenta, accesa e spenta.

Mi sdraierò in te.
Consumerò i miei pasti nella mensa rosa del tuo cuore.

Ogni coppa fumante sarà: Peeerfetta.
Mangerò fino all’ultima briciola,

spaccherò tutte le tue sedie.
Se cercherò di fuggire tra sterpi e arbusti che virano a viola
[profondo,

tu mi rammenterai:
Non c’è alcun posto dove andare se sei già qui,

e seduta ti batterai piano la mano sulle cosce illuminate
dalla luce-scorpione della luna che filtra dalla finestra,

dirai: Qui, Amore, siediti qui — e sedutami
dirò: Ed eccomi ancora qui.

Fino ad allora, Dove sei? A che indirizzo?
Sto male. Guido tutta notte

con il pieno di benzina e gli abbaglianti
che si proiettano in cerca di chissà cosa.

 

da Nuova Poesia Americana, Traduzione di Damiano Abeni

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Al via Letterature – Festival Internazionale di Roma 2021

La storica manifestazione culturale della Capitale LETTERATURE – Festival Internazionale di Roma 2021 fa parte del programma dell’Estate Romana 2021, organizzata da Zètema Progetto Cultura, torna per la sua Ventesima edizione nella cornice dello Stadio Palatino, con un format del tutto rinnovato.

Cinque serate, a cura di Andrea Cusumano e Lea Iandiorio, con la regia di Fabrizio Arcuri in cui viene declinato il tema “Leggere il mondo” grazie a poeti e scrittori e tante altre voci, non solo della letteratura e della poesia, che si esprimono su questo argomento, portando la loro esperienza e la loro interpretazione sul tema.

Concepito come uno spettacolo tra le arti, un’esperienza in cui le diverse espressioni artistiche si intrecciano in un dialogo connesso, grazie alla nuova location dello Stadio Palatino che rende lo spazio protagonista, un tutt’uno con la narrazione. In questo nuovo contesto culturale, cuore pulsante sono l’opera dei MASBEDO (duo artistico formato da Nicolò Masazza e Jacopo Bedogni) e lo spazio sonoro di Marino Formenti (indicato dal Los Angeles Times come il “Glenn Gould del XXI secolo”), danno vita ogni sera a un evento esperienziale sempre nuovo.

 L’appuntamento è dal 21 al 25 luglio.

IL PROGETTO

A cura dell’Istituzione Sistema Biblioteche Centri Culturali di Roma Capitale, promosso da Roma Culture, il Festival vedrà la partecipazione di autori italiani e internazionali del calibro di Roberto Saviano, Emanuele Trevi,  vincitore del Premio Strega 2021, Milo De Angelis, Elisa Biagini, Carmen Maria Machado, Aixa de la Cruz e Katharina Volckmer, Gianrico Carofiglio, Roberto Alajmo, Erri De Luca, Patrick McGrath, Roberto Venturini, Muriel Barbery, Cristina Morales e Mario Desiati.

L’accesso è gratuito ma su prenotazione, essendo la capienza massima di 500 posti.

UN’ESPERIENZA LIBERATORIA DOPO IL LOCKDOWN

“Dopo questo lungo periodo passato distanti, con i nostri rapporti sociali, professionali, le nostre relazioni internazionali e familiari ridotte ad una comunicazione davanti allo schermo di un computer, abbiamo voluto sublimare questa esperienza passando da uno schermo pandemico ad uno schermo poetico” ha dichiarato Andrea Cusumano, curatore del Festival insieme a Lea Iandiorio. Che aggiunge: “Letterature è un’esperienza dove la parola si fonde con lo spazio, dove l’arte, intesa come immagine, suono, scrittura, si manifesta in un evento unico ogni sera. Gli scrittori e le scrittrici che incontreremo, in questa ventesima edizione, ci restituiranno la loro idea di come la scrittura e la letteratura possono, in questo momento di cambiamento, aiutarci a reinterpretare il nostro rapporto con gli altri, l’economia, la salute, l’ambiente. Ovvero a leggere il mondo che ci aspetta.”

Il palco è stato eliminato, in modo da dare un peso maggiore alla fisicità degli autori che saranno presenti al Festival. “E poi abbiamo voluto immergere il festival dentro l’installazione artistica, facendo innanzitutto una riflessione sullo spazio e sul luogo in cui incontrarsi finalmente in presenza– ha aggiunto Cusumano- la ‘finestra sul mondo’ proposta dai Masbedo riprende il tema di Letterature per sublimare attraverso la bellezza e la poesia il tempo che abbiamo passato davanti allo schermo. Ma stavolta, anche grazie alla letteratura, sarà un’esperienza liberatoria.”

 

PROGRAMMA COMPLETO

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Tanti auguri, Cormac! Aspettando “The Passenger”

Cormac McCartey/ ph. APF

NOTA DI ALBERTO FRACCACRETA

 

Il 20 luglio 2021 Cormac McCarthy ha compiuto 88 anni, probabilmente nella sua casa a Santa Fe, New Mexico. Almeno dal 2009 siamo alla finestra, in attesa che Cormac — Premio Pulitzer nel 2007 con La strada e candidato perenne al Nobel — ci faccia cortesemente leggere The Passenger, il suo nuovo romanzo.

Conosciamo per sommi capi anche la trama.

Siamo a New Orleans, 1980. È la storia di un fratello che ha una sorella geniale (un vero talento della matematica), da poco scomparsa. Il fratello affronta la morte della sorella ripercorrendo le trame della creatività, cercando di capire in che modo l’ingegno possa diventare un ingombro per la persona che ne è investita. Il tema di fondo è che spesso nella vita si avvera quel dittico letale di genio e sregolatezza. L’intelligenza potrebbe voler dire spreco, scialo, dissipazione. Ebbene, sappiamo queste cose sia perché una volta tanto Cormac si è sbilanciato durante (udite, udite!) un’intervista al Wall Street Journal, sia perché a causa di un errore d’archivio alcune pagine manoscritte sono finite nelle mani di Rick Wallach, un ricercatore che lavorava alle varianti di Suttree. Alla fine, McCarthy si è deciso — nell’agosto 2015 — a tenere una lettura pubblica di brevi stralci di The Passenger con il supporto del Santa Fe Institute, ente di cui è socio fiduciario. I brani sono stati letti dal presidente del SFI David Krakauer e dall’attrice Caitlin McShea. Ebbene, in tutta questa storia c’è un paradosso.

La studiosa Dianne C. Luce nell’ultimo numero del «Cormac McCarthy Journal», edito dalla Penn State University Press pochi mesi or sono, ha scritto un saggio di quindici pagine dal titolo Creatività, follia e “la luce che danza nel profondo di Pontchartrain”: scorci di The Passenger dalla corrispondenza privata di Cormac McCarthy nel 1980.

Riportiamo in traduzione l’abstract dell’articolo che ne chiarisce i contenuti: «Le lettere che Cormac McCarthy scrisse nel 1980 a Robert Coles, Deaderick Montague e John Fergus Ryan rivelano che stava lavorando a The Passenger almeno da quell’anno, quando si aspettava che sarebbe stato pubblicato dopo Meridiano di sangue (1985). Il progetto è in parte ispirato da una poesia inedita di Louis Diehl sul clarinettista jazz di New Orleans Leon Roppolo, che si dice abbia gettato il suo clarinetto nel lago Pontchartrain in un atto di suicidio artistico. Il romanzo non doveva concentrarsi su Roppolo, ma la sua origine nella poesia citata da McCarthy suggerisce che il tema tragico del potenziale creativo rovinato o non realizzato fosse centrale per il romanzo, e che inizialmente il dominio della creatività potesse essere artistico piuttosto che scientifico. Le influenze biografiche che informano l’idea di McCarthy riguardo al romanzo includono la sua familiarità con tre uomini che ha incontrato a Ibiza alla fine degli anni ’60, il falsario d’arte Elmyr de Hory e gli scrittori Clifford Irving e Leslie Garrett, i quali hanno seguito percorsi che hanno minato il loro potenziale artistico».

Insomma, The Passenger è nel cervello di McCarthy sin dagli anni Ottanta. La riflessione ruota attorno al «potenziale creativo rovinato o non realizzato». Ma se da principio il nucleo fondativo volge verso l’arte, ora — anche in virtù della presenza al Santa Fe Institute, del contatto con fisici, chimici, epistemologi e matematici (senza dimenticare che l’unico contributo saggistico di Cormac, scritto nel 2017, è dedicato all’origine del linguaggio) — l’attenzione si sposta sul versante scientifico. Ringraziamo la professoressa Luce per il suo contributo davvero chiarificatore. Continua a leggere

I poeti del Festival “Piombino in Arte”

A confronto con Onofrio, Poletti e Vitale

NOTA DI MATTEO BIANCHI

Da mercoledì 21 a sabato 24 luglio, saranno i poeti i protagonisti indiscussi della quinta edizione di Piombino in Arte, già Populonia in Arte, festival organizzato dall’associazione EstroVersi con la direzione artistica di Cinzia Demi e il supporto del Comune di Piombino. Giovedì 22, alle 19, sulla terrazza mozzafiato dell’Hotel Esperia di fronte all’Isola d’Elba, sarà proprio Demi a intrattenere la platea con i personaggi della Commedia dantesca, prendendo il largo da un suo libro che ha riscosso un’attenzione particolare tra i ragazzi, Incontriamoci all’Inferno (Pendragon). E dopo una cena con l’autrice fuori dagli schemi, alle 21, nel giardino dell’ex Pro Patria, si leggeranno e commenteranno i versi di Bruno Galluccio, Cristiano Poletti, Marco Vitale, Marco Onofrio, Michele Paoletti, Fabio Canessa e Davide Puccini. A seguire, sarà premiato il vincitore della II edizione del concorso letterario #assaggidipoesia, Axel Sintoni, il più votato dalla giuria popolare.

Dal canto suo, Marco Onofrio ha deciso di fissare al foglio un inestinguibile Azzurro esiguo (Passigli, 2021), metafora del meccanismo cosmico di cui siamo parte: «L’azzurro, ossia il colore del cielo, dell’ossigeno che ci tiene in vita, e del mare, da cui la vita è originata, appare “esiguo” perché infinitesima, ma infinitamente significativa e preziosa è la goccia della vita su scala universale – argomenta – quindi il prodigio di questo pianeta rispetto al buio e gelido orrore del vuoto senza fine in cui rotoliamo, così come l’apertura brevissima della nostra esperienza tra gli abissi del “prima” e del “dopo”. L’azzurro appare “esiguo” anche perché nell’esistenza di ognuno i dolori sono in genere più numerosi e frequenti delle gioie, tanto che per ogni fuggevole gioia càpita di pagare un prezzo salatissimo che, a posteriori, ce la fa quasi detestare, oltre che rimpiangere. E tuttavia è proprio questa creaturale, disperata fragilità a rendere l’azzurro inestinguibile, sì, e irrinunciabile la necessità di fermarlo e salvarlo attraverso la parola». Nella poesia eponima, con cui il libro si conclude, Onofrio scrive tra l’altro:

Come riuscire a dire l’azzurro esiguo
dentro l’universo tutto nero?

Siamo lampi che aprono il mondo
tra due abissi di tenebra infinita.

La nostra casa è lo sguardo
il canto, l’amore, il senso
la disperata, ultima parola.

Il porto di Piombino al tramonto

Che il sereno sia la più diffusa delle nubi, chiamando in causa Montale, lo contesta Cristiano Poletti con i suoi fatidici Temporali (Marcos y Marcos, 2019), in cui la poesia viene dalla realtà, o meglio, prorompe dalla realtà per vivere nell’esperienza di ciascuno, in ogni gesto di ogni giorno. Continua a leggere

Torna la poesia a Spilimbergo

C  O  M  U   N   I  C  A  T  O      S  T  A  M  P  A  

Dopo il grande successo del Festival della Letteratura Verde il secondo momento letterario che da tre anni accompagna l’estate della provincia pordenonese: Panorami Poetici.

 

Nato dall’incontro della Samuele Editore con il Comune di Spilimbergo, per la direzione artistica di Alessandro Canzian e Roberto Rocchi, il festival viene ospitato quest’anno da Palazzo Tadea e nella sua straordinaria cornice vedrà succedersi poeti da tutta Italia per letture, presentazioni, dialoghi.

 

Alle 16.00 l’inaugurazione dell’Edizione 2021. Alle 16.30 la prima tornata di dialoghi e letture con Elisabetta Zambon, Fulvio Segato, Matteo Piergigli introdotti da Roberto Rocchi. Alle 17.00 Alessandro Canzian presenterà “L’antro siel del mondo” di Ivan Crico (pordenonelegge, 2019). Alle 17.30 Roberto Rocchi introdurrà Giovanni Fierro e Rossella Pretto. Alle 18.00 Rodolfo Zucco presenterà “Alter” di Christian Sinicco (Vydia Editore 2020). Alle 18.30 Alessandro Canzian introdurrà le letture di Beppe Cavatorta, Giuseppe Nava, con l’eccezionale partecipazione di Claudio Damiani. Alle 19 verrà presentato e leggeranno gli autori del contest Vetrine Poetiche. Alle 19.30 la chiusura del Festival con la performance poetica BIL in motion di Martina Campi, Mario Sboarina, Francesca Del Moro, Enzo Campi, Alessandro Brusa (Bologna in Lettere). Continua a leggere

Dante, la letteratura e i poeti

Gandolfo Cascio, Credits photo Dino Ignani

Gandolfo Cascio, Dolci detti. Dante, la letteratura e i poeti, Marsilio 2021.

QUARTA DI COPERTINA

In diversi passi della Commedia Dante riflette su ciò che la letteratura è o compie. Così, di volta in volta, può consolare oppure servire da guida, diviene patria o appare come una seducente metamorfosi; mentre in alcune Rime la poesia si fa addirittura arma finissima per guerreggiare con gli amici più cari. C’è poi il rapporto particolare, e sovente determinante, che alcuni scrittori hanno avuto con la sua opera, e tale fenomeno senz’altro costituisce uno dei capitoli più interessanti della ricezione dantesca. I saggi qui raccolti affrontano dunque, con esemplare coerenza di metodo e limpidezza di stile, la relazione tra il poeta medievale e la scrittura, e provano, attraverso una lettura ravvicinata dei testi, a interpretare queste miracolose conversazioni. 

Gandolfo Cascio insegna Letteratura italiana e Traduzione all’Università di Utrecht, dove inoltre conduce il progetto di ricerca Observatory on Dante Studies. Tra i suoi libri segnaliamo Michelangelo in Parnaso. La ricezione delle «Rime» tra gli scrittori (Marsilio 2019, in traduzione in inglese), Le ore del meriggio. Saggi critici (Il Convivio 2020, Premio Giuseppe Antonio Borgese).

 

INTRODUZIONE

 

E io a lui: “Li dolci detti vostri,
che, quanto durerà l’uso moderno,
faranno cari ancora i loro incostri”.

Purg. XXVI 112-114.

 

TESORI, GIARDINI E SONETTI

È inutile chiedersi perché i poeti scrivano le loro fantasticherie. La primizia fu la collera d’un ragazzo, e da lì, di volta in volta, si può provare a indicare dei moventi o intenti che, d’altronde, per ognuno sono diversi; per non dire poi del fatto che, col tempo, possono anche mutare. Da tremila anni si dettano versi per la scienza delle cose, perché in adorazione della grammatica, per compiacere una distante chimera, sospendere le rimerie che inquietano giorno e notte il cervello, per dono a chi è degno di lode, come lamento luttuoso, a favore dell’aereo capriccio, per stregare, stupire o – come capita all’evangelista analfabeta, mite al comando del pulito ditino dell’angiolo – per obbedienza[1].

Ogni caso, allora, andrebbe interpretato con buon senso[2], studiato con gli strumenti più opportuni ed economici a disposizione, e mettendo da parte pregiudizi e superstizioni. Su tale premessa, in questo libro tento di ordinare alcune considerazioni di Dante sulla letteratura, per schiarire certi elementi della sua poetica; e rammento anche delle vicende, immediate o parte della sua afterlife, di chi, pure scrittore, gli si è accostato: i cari Forese, Cino e Da Maiano; Baretti, furente più che mai, che agguanta quel libro santo come un fioretto per schermare l’onore della lingua; Borgese e Mandelštam che invece l’alzano come uno scudo per parare i calci e la mostruosità del secolo; e c’è chi ha preso l’uomo e l’ha posto sulla scena come un amabile ma indolente pupo.

L’esperienza dantesca resta senz’altro la più potente e venerabile che conosciamo, ma non si presenta come una lezione definitiva, anzi, in alcuni punti è perfino discorde. Si rammenti, per esempio, come maturò il suo convincimento dell’amore, tanto da portarlo a rompere con Cavalcanti; o anche lo scambio di rime con altri amici, che a volte sono degli spassosi botta e risposta, talmente distanti dall’immagine solenne e cupa vulgata da diffidarne, o approvati come il benefico ginnasio per l’impresa più ardita e mirabile, quando, al contrario, andrebbero elevati proprio perché impulsivi, insolenti e smodati, cioè giovani. Continua a leggere

Fabrizio Bajec, “Sogni e risvegli”

Fabrizio Bajec

NOTA DI LUIGIA SORRENTINO

Vi proponiamo da Sogni e risvegli, di Fabrizio Bajec (Amos Edizioni, 2021) il Poema della fame, quinta sezione del libro. Le poesie sono nate dalla rivolta dei gilet gialli in Francia. E’ l’unico a essere stato scritto in italiano. Le poesie delle altre sezioni sono testi composti in francese e tradotti dall’autore. L’azione-poesia di Bajec si configura in questo lavoro “come in un viaggio di andata e ritorno dall’abisso-corpo all’intelletto più luminoso.” Raccolta meno impegnata della precedente, La collaborazione, ma non meno impegnativa nella lettura. Fabrizio Bajec sta lavorando in prosa e in versi sulle lotte sociali in Francia di questi ultimi anni.

«(…) Se si toglie a un essere umano il potere
di agire e, ancor più, quello di creare,
cosa gli rimane oltre alla contemplazione?»
Aristotele

 

POEMA DELLA FAME

I.

solerti restarono in piedi
nella loro miseria belavano
contro la nebbia avvelenata
che il governo faceva piovere
sulle teste calde e canute
dei suoi sudditi ora insorti
dalle campagne e periferie
lungo le autostrade e rotatorie
riuniti intorno a un fuoco la notte
e il giorno sotto la neve
raccolti dentro una baracca
le capanne del loro Natale
ma che le ruspe dei gendarmi
spazzano insieme ai lunghi sforzi
poi tornano i recalcitranti
riedificano sempre una base
per quanto precaria e aperta
mai resistente a sufficienza
per traversare il gelido inverno
e accogliere nuovi affamati

nuova rabbia e braccia disponibili
ora trascinano ferraglia
nei viali delle città legna
macchine a qualsiasi prezzo
con ogni mezzo le barricate
si ergono tra la vita e la morte
la santissima morte cantata
da altri cittadini in rivolta
un tiro squarcia la mascella
polverizza l’occhio di un ragazzo
fora il seno di un’infermiera
che non ha mai perso un corteo
né un treno della dignità
per sputare sulla capitale
i suoi straordinari week-end
quanti storpi sfigurati orbi
sfileranno il sabato seguente
senza dire una parola
saranno visti con bende
e fasce sanguinanti eloquenti
volete decimarci o cosa?
noi che mangiamo una volta al giorno
piangiamo tra i debiti dormiamo
anche in macchina per lavoro
se non rende abbastanza per stare

dalla parte di chi grida al caos
chi recrimina i danni pubblici
e si chiede perché distruggiamo
perché domanda una principessa
con le scarpe da ginnastica
all star converse o adidas
perché mai prendersela col lusso
che non vi ha fatto nulla e brilla
in quartieri che non sono i vostri
come potete punire così
il commercio che in fondo è la vita
ne converrete sfama i piccoli
imprenditori come può darsi
tra voi si nascondano e sfasciano
tutto quello che non possiedono
al che risposero irati
venite dalle nostre parti
venga principessa e apra
il suo indispensabile negozio
poiché è dotata non chiuderà
e risero svergognandola
come fosse l’ultima cagna
di un villaggio fantasma accorsa
per un pasto che non s’è mai visto

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Giulio Ferroni inaugura il Festival Piombino in Arte

DI MATTEO BIANCHI

«Ahi serva Italia, di dolore ostello, / nave sanza nocchiere in gran tempesta, / non donna di province, ma bordello!» Èl’eterna terzina che Dante dedica a uno dei volti del nostro paese nel canto VI del Purgatorio (vv. 76-78), uno di quelli più dolorosi; Italia che è anche “dove ‘l sì suona”, “bel paese”, “giardin dell’impero”.

Ne L’Italia di Dante, edito da La nave di Teseo e già vincitore sia del 46esimo Premio Mondello sia del Viareggio-Rèpaci 2020, Giulio Ferroni attraversa l’organicità della lingua dantesca e il suo continuo riaffiorare nel nostro presente, lasciando al lettore quanto di essa luminosamente resiste ancora e cosa, invece, la consuma e la insidia.  che, grazie a un viaggio lungo circa due anni, ha deciso di riappropriarsi fisicamente del nostro paese seguendo i versi di Dante.

Giulio Ferroni / Credits photo Dino Ignani

«L’idea è nata tanti anni fa – esordisce Ferroni – dalla suggestione di evidenza fisica della poesia di Dante, dalla capacità della sua lingua di far vedere la realtà, dalla suggestione del suo movimento, del suo camminare, notato per esempio da due poeti tra loro tanto diversi come Dino Campana e Osip Mandel’štam. Insomma, la poesia di Dante ha una forza “spaziale” che mi ha fatto sentire il desiderio di percorrere i suoi luoghi, di riconoscere e ritrovare l’Italia, quella del passato e quella del presente, guidato dai suoi versi».

Gli appellativi che il poeta attribuì al nostro paese sono rimasti quasi tutti, anche se i volti sono naturalmente mutati: «I luoghi hanno acquistato spesso nuova bellezza, attraverso le vicende architettoniche e urbanistiche, attraverso l’impegno e la creatività umana nel corso dei secoli; ma ci sono anche i luoghi (specie certi isolati castelli) che sono andati in rovina, o che sono stati trasformati in qualcosa di poco piacevole. Ma noi possiamo sentire in ogni luogo il passaggio del tempo, il cammino di un’intera civiltà, con ile sue conquiste e le sue lacerazioni. E tra l’altro una maggiore attenzione alla lingua di Dante potrebbe aiutarci a percepire il valore della storia e della memoria: ne abbiamo bisogno proprio per costruire un futuro non rovinoso.

Numerose sono le immagini che dà Dante della costa e dell’entroterra etrusco: moltissimi sono i suoi richiami diretti o indiretti alla Maremma, alla zona “tra Cecina e Corneto” (Tarquinia), a feudi e castelli della Maremma. E ricorda anche Talamone a proposito del fallito progetto di Siena di dotarsi di un porto. Poi, quando maledice Pisa per la crudeltà mostrata verso la famiglia di Ugolino, evoca la Capraia e la Gorgona, che dovrebbero ostruire la foce dell’Arno, per farlo straripare e far annegare “ogni persona”». Continua a leggere

Marco Conti, “La mano scrive il suono”

Marco Conti

 

Sono uscito veloce
per un momento
lo specchio ha guardato il bianco
le pieghe della camicia.
Mi è piaciuto
non incontrare gli occhi
non sapere quanto tempo è passato.
Potevo scendere
scrollare la terra dai tacchi
ma ho saputo scappare
come una lucertola
sull’orlo verde delle cose.
Se chiudo gli occhi
sono in quello specchio,
gli alberi splendidi
il mattino quasi finito,
strappato a qualcosa
che non saprei dire.

*

Com’è rapida l’estate,
queste foglie replicano
camminano verso di me.
Fuori dalla stanza vuota
lasciano un’impronta
scendono verso il confine.
Le ombre ingialliscono
come limoni,
parlano di piccole cose.

*

Versando nell’acqua

Verso le otto sono sceso
a Les Saintes Maries,
il vento è venuto meno
e così l’odore degli anni
questa polvere invisibile
che ogni mattina
scopre il mio guanciale
mentre una luce diffonde
chissà quali memorie,
quali amori vissuti, mai vissuti
oggi comunque irreversibili.
Fuori la gente, le spiagge
il freddo alle giunture.
Pure sono gentile verso il futuro
e sogno continuamente
continuamente saluto
di qua dai recinti,
indeciso tra il lutto
o una leggerezza improvvisa,
fermo su queste dune
dove sostano due sconosciuti
con le labbra morbide
come fosse mezzanotte.
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La terra devastata di T.S. Eliot

RECENSIONE DI ALBERTO FRACCACRETA

 

La terra desolata? No, devastata. Quando Thomas Stearns Eliot nel 1922 pubblica il celebre poemetto, l’Europa è in effetti un luogo terribilmente solcato da macerie e distruzione, da dissesti materiali e finanziari, una terre gaste a misura dei poemi medievali, quelli del ciclo del Graal, del Re Pescatore e di Percival. Il richiamo non è dunque casuale. L’interessante proposta di una versione meno letteraria e più letterale del titolo è di Carmen Gallo che confeziona con testo introduttivo, traduzione e note d’apparato una nuova edizione per il Saggiatore.

La storia è nota: Eliot è a Losanna con la moglie, in cura per un lancinante esaurimento nervoso. Tra il dicembre del ’21 e il gennaio del ’22 compone The Waste Land e manda il plico con i fogli a Ezra Pound che opera praticamente una «Caesarean operation»: filtra, taglia, sintetizza. È lui il miglior fabbro a cui Eliot dedica i cinque ‘canti’ (La sepoltura dei morti, Una partita a scacchi, Il Sermone del Fuoco, Morte per acqua, Ciò che disse il Tuono) con cui è divisa La terra devastata. Cinque canti che sono composti secondo un preciso disegno artistico: il cosiddetto metodo mitico, ravvisato dallo stesso poeta americano nella recensione all’Ulisse di Joyce del 1923. In cosa consiste? Commenta Gallo: «Eliot chiama in causa il ‘classicismo’, che definisce come fare ciò che si può ‘con il materiale a disposizione’, secondo le possibilità di tempo e di luogo. E sostiene il ‘metodo mitico’ joyciano, inteso non come rifugio nella ‘materia mummificata’ del passato, ma come continuo parallelo tra contemporaneità e antichità: l’uso di un paradigma archetipico per controllare, dare ordine e forma ‘all’immenso panorama di futilità e anarchia che è la storia contemporanea’».

Il modernismo è tutto qui. In questa svolta del ‘classicismo paradossale’ (ampiamente utilizzato anche da Montale nella triade Ossi di seppia, Le occasioni e La bufera e altro) che mutua dall’antico, dal mondo classico segmenti poetici, interstizi narrativi e situazioni psicologiche capaci di ristabilire un ordine, ancorché fittivo, nell’epoca del caos della modernità. Ecco allora che la succitata tecnica espressiva possiede un deciso connotato ideologico con intenzioni euristiche: quel verso di Dante, quella menzione a Baudelaire, quel richiamo al Vangelo e alle Confessioni di Sant’Agostino che allargano a dismisura il bacino dell’intertestualità fino a far fluttuare il tessuto nel macrotesto di un ‘iperautore’, non sono soltanto opportunità per lo sfoggio di cultura di Eliot. Non si tratta di mera erudizione, insomma. Né vale la (debole) accusa di plagio che costrinse il poeta a redigere le famose note per l’edizione in volume del poemetto. Continua a leggere

Hopkins, “Il naufragio del Deutschland”

Gerald Manley Hopkins a 19 anni

«Ritmo, energia, intensità d’una lingua magnificamente ostacolata, e una sofferenza a cui non dovevano esser estranei una struggente religiosità, le tacitate propensioni sessuali e lo scontro fra l’umiltà che si pretende dal sacerdote e il necessario orgoglio del poeta.»[…]

Con queste parole Nanni Cagnone, curatore e traduttore de Il naufragio del Deutschland (Giacometti e Antonello, Macerata, 2021) frutto di una rielaborazione durata decenni, descrive le caratteristiche salienti dell’universo poetico di Hopkins.

Part the First. Stanza One

Thou mastering me
God! giver of breath and bread;
World’s strand, sway of the sea;
Lord of living and dead;
Thou hast bound bones & veins in me, fastened me flesh,
And after it almost unmade, what with dread,
Thy doing: and dost thou touch me afresh?
Over again I feel thy finger and find thee.

Prima parte. Prima stanza

Tu che me domini
Dio! donatore del soffio, del pane;
Fibra-lido del mondo, impulso del mare;
Dei vivi e dei morti Signore; ossa e vene
In me hai legato, m’hai affibbiato la carne,
Poi l’opera tua con tale spavento, l’hai
Quasi disfatta: e mi colpisci di nuovo?
Altra volta sento il tuo dito, te trovo.

Stanza Two

I did say yes
O at lightning and lashed rod;
Thou heardst me truer than tongue confess
Thy terror, O Christ, O God;
Thou knowest the walls, altar and hour and night:
The swoon of a heart that the sweep and the hurl of thee trod
Hard down with a horror of height:
And the midriff astrain with leaning of, laced with fire of stress.

Seconda stanza

Sì, io consentii
Oh a vibrata balenante frusta;
Tu mi udisti, più veritiero della lingua,
Ammettere timore di te, o Khristos, o Dio;
Tu sai i muri e l’altare, l’ora e la notte:
Il deliquio d’un cuore che’l tuo scagliarti e squassare
Vertiginato fecero, tutto calpesto: e il prèmito
Del diaframma, contratto, costrizione rovente.

Stanza Three

The frown of his face
Before me, the hurtle of hell
Behind, where, where was a, where was a place?
I whirled out wings that spell
And fled with a fling of the heart to the heart of the Host.
My heart, but you were dovewinged, I can tell,
Carrier-witted, I am bold to boast,
To flash from the flame to the flame then, tower from the grace to the grace.

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Lo sfruttamento degli animali nella poesia di Teodora Mastrototaro

Teodora Mastrototaro

La fissità di una porta rotta
dove avrò da bere.
La nostra razza non resta nelle case
ma in porcili di saliva.
Necrologi senza storia.
In ogni scatola partorisce una madre
interrotta nel rovescio della carne.
Il mio destino è avere fame.
Dove tu coli, madre, non c’è stagione da salvare.
Ingozziamoci di latte per ritornare belli!
Colostro al fianco destro e a sinistra
la famiglia è incatenata.
Il cordone ombelicale rimasto impigliato
tra il pane e la morsa, alla luce la merda
diventa una rosa – simile la forma.
Al capezzale del tuo seno la notte si volge agli steli.

Venite sintesi di cadaveri, venite. Senza bambini
o neonati, venite. Qui ci vendono oltre l’amore
e oltre l’amore le carni e morire.

***

Ancora cosciente mi rivolti vivo nella vasca,
l’acqua bollente rende tenera la morte.
Un paio di minuti è il tempo che ci vuole
per far puzzare il cielo.
Il porco dopo di me non sa nuotare,
gli basterà un secondo per farsi trasformare
nel bianco del carcame scolorito.
Un braccio meccanico mi spinge giù in fondo
nel mare sospeso di rosso.
Il porco ha gli occhi fissi su di me che fremo,
mi opprimo, continuo a calare.
Quando l’inferno non ti brucia più ne fai parte
o non esisti.

***

Quando scarichiamo la carne in macelleria
la sequela delle carcasse sembra un corteo funebre.
La pausa tra la carne e il mondo si è ridotta
e tra il cielo e la macelleria c’è un punto di svolta.
L’operaio più robusto trasporta sulle spalle
la carcassa più pesante come un cristo
crocifisso durante una via crucis rovesciata.
Esposti i corpi nel banco frigo:
Bollo Sanitario, Peso Netto, Specie, Taglio, Lotto.
Nessun animale che sia degno di lutto.

da Legati i maiali (Marco Saya Edizioni 2020) Continua a leggere

La poesia e il disegno di Dagnino

Massimo Dagnino

I MIEI GATTI VI OSSERVANO
di 
Massimo Dagnino

(2019)

      La pioggia abbassa la terra
nel giardino fiori lambiscono l’ombra
immaginaria del suo corpo. Guarda piovere
dal suo sguardo domestico fino a diffidare
del sonno. Potrei rilasciarmi,
come i gatti,
sui cornicioni, a spingermi nel loro inumano
onirismo.
Nel temporale erano cresciute
le zucche, sul tumulo di terra. Il rovescio anticipa
l’inconcludente e alberi alti
asciugano la notte, a voragine
il vigneto colmo declina
nell’incuria della voce: anfiteatro popolato
da gatti alleati, non si lascia tradurre
l’epigrafe irregolare, scivola
in raucedine la strada.

***

Passo del Turchino

l’afa si fa stasi
le viscere gonfiano corpi e fiori
di passiflora deposti (disposti)
dalla madre non arriva
nel sogno il buio tra il fogliame
cronologico l’abitato si estingue.
Fisso il cerchio rosso del segnale
nell’affondo di colline, quel rosso lanciato
a torpedine in collisione.

La casa limitrofa a emanazione
del buio, senza controllo la crescita
asfittica di ortensie tra volti inattuali
commisurato al parlare
un vacuo temporale figura animali
nei lampi a vuoto
un treno fermo, distanziato nei giorni
nello squarcio di vigne – scartati dal tempo –
i miei gatti vi osservano

Ma la segnaletica sbarra la struttura del buio.

Svelta accorcia le scale per infiltrarsi
nel disordine del frutteto, compulsiva non smette
di lavarsi il manto mordicchiandosi da pulci
fastidiose: spia
i cani aguzzando
le orecchie e a inarcarsi nel sonno
nell’ala d’ombra ignara della specie
di piante dove dormire fino al richiamo del nome.
Mastica dove ha più denti
Incisivi, isola la carne e io mi vedo
Nascosto al suo pasto
Notturno, presto reattiva alla pioggia
Ipnotica nel soffio felino
Estingue legami.

28 giugno 2019

***

L’immagine ritorna mentre sparisce
fra piante e la villa in mattoni, si orienta nel suo
territorio fatto di scale, terrazzi, alberi
letti, cartoni su cui rinvigorire
le unghie: si annuncia quando arriva a mangiare.
Ma ora l’insieme si trasla
le zampe sporche, ringhia infastidita
nel nervosismo della coda: ti fissa
mentre le gratti il collo riportandomi
trasfigurato alla mia specie.

Spaventata si avvolge nel suo sonno.
A sollevarla nell’aria mostra una strana gioia
nel labbro leporino, inaspettata
della nuova latitudine.

***

Arriva dallo scollamento del buio, riconosco
la sua andatura indifferente.

La lascio stare
mentre si addormenta seguendo
il profilo curvo della collina.

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Emanuele Trevi vince il Premio Strega

Emanuele Trevi vincitore del Premio Strega 2021.

NOTA  DI LUIGIA SORRENTINO

Con il romanzo “Due vite” Neri Pozza Editore Emanuele Trevi nato nel 1964, vince l’edizione 2021 del Premio Strega e per la prima volta nella storia del premio lascia sul sagrato del Ninfeo di Villa Giulia le grandi major dell’editoria italiana.

Il romanzo è il racconto di un’amicizia – tema centrale in molti libri di Trevi – fra tre giovani scrittori: Emanuele Trevi,  Pia Pera (1956-2016) e Rocco Carbone (1962-2008). Il titolo  mette in luce la vita dei due scrittori italiani scomparsi prematuramente, ma anche – lo dichiara lo stesso Trevi, il romanzo racconta la storia delle nostre due vite, “entrambe  destinate a finire: la prima è la vita fisica, fatta di sangue e respiro, la seconda è quella che si svolge nella mente di chi ci ha voluto bene”.

In Due vite Emanuele Trevi si immerge nelle due opposte personalità: quella di Rocco Carbone, per natura incline a infliggere colpi piuttosto che a riceverli, e quella di Pia Pera, persona sensibile, che negli anni della malattia si trasforma in un’eroina che si prepara alla morte.

Emanuele Trevi sta nel mezzo, nel  racconto delle due vite c’è lo scrittore, la sua commovente consapevolezza che gli amici sono anche rappresentazioni delle epoche della nostra vita,  vita “che attraversiamo come navigando in un arcipelago dove arriviamo a doppiare promontori che ci sembrano lontanissimi, rimanendo sempre più soli“.

“Dedico il Premio a mia madre che è mancata durante questo periodo infernale della storia umana che si sarebbe divertita a vedermi in televisione. E poi a un amico, Lorenzo Capellini che è in un momento di difficoltà e mi è stato vicino fino a qualche giorno fa, nel pieno di questa avventura” ha detto Emanuele Trevi. Continua a leggere

La poesia di Kae Tempest alla biennale di Venezia

Ritratto di Kae Tempest / ©Julian Broad

 

La forza della parola di Kae Tempest in arrivo sul palcoscenico del 49. Festival Internazionale del Teatro della Biennale di Venezia.

Leone d’argento di questa edizione del Festival, Kae Tempest riceverà il premio venerdì 9 luglio nella Sala delle Colonne di Ca’ Giustinian, sede della Biennale (ore 14.00), partecipando a un breve incontro condotto dal saggista e critico di teatro Andrea Porcheddu. Sabato 10 luglio l’atteso debutto italiano di The Book of Traps and Lessons al Teatro Goldoni (ore 21.00).

 

Kae Tempest è “la voce poetica più potente e innovativa emersa nella Spoken Word Poetry degli ultimi anni, capace di scalare le classifiche editoriali inglesi e raccogliere consensi al di fuori dei confini nazionali per il coraggio ardimentoso nel dissezionare e raccontare con sguardo lucido angosce, solitudine, paure e precarietà di vivere” (dalla motivazione).

Pubblicato in forma di album nel 2018, The Book of Traps and Lessons è presentato a Venezia in veste di performance spoken word. Un piccolo tavolo e una sedia su un palco che è deserto roccioso creano l’atmosfera intima in cui condividere il flusso di parole – arrabbiate, sussurrate, rappate – di Kae Tempest: “chi ascolta viaggia con me per luoghi diversi, il deserto, la città, la strada, la montagna, non posti reali ma mitici, e ciò che conta è l’avventura” dichiara (il Venerdì).

Un’esibizione tutta da ascoltare, The Book of Traps and Lessons è “testimonianza di un poema vivo che cattura le tensioni rabbiose proprie dell’essere vivi: cercando di non guardare direttamente alle crisi future, cercando di amare e dare e ballare nel mezzo del fumo di un incendio” (The Guardian). Continua a leggere

Agnoloni, “Internet. Cronache della fine”

Giovanni Agnoloni

NOTA DI LETTURA DI GIORGIO GALLI

Rileggere le cronache della fine di internet di Giovanni Agnoloni, oggi che la vita virtuale è diventata tutta la vita, può essere un’esperienza istruttiva e perturbante. Agnoloni si interroga su ciò che accadrebbe se la Rete crollasse, ed esplora tutte le possibilità pratiche, ma anche etiche, politiche e metafisiche, di un simile evento. Quanto potere avrebbe colui che riuscisse a controllare la Rete? E che tipo di potere sarebbe quello di colui che, padrone della Rete, decidesse a un dato momento di spegnerla? Sarebbe l’umanità capace di tornare a vivere come prima? E l’orologio della Storia tornerebbe semplicemente indietro, o scopriremmo che lo spazio virtuale ha modificato in maniera sorda ma irreversibile non solo il nostro modo di percepire la realtà, ma financo la realtà stessa? È da queste domande che prende inizio il percorso di Internet. Cronache dalla fine, composto di tre romanzi – Sentieri di notte, La casa degli anonimi e L’ultimo angolo di mondo finito – e dei due racconti riuniti nel dittico Partita di anime. Un’opera ponderosa, che tocca temi cari anche all’ultimo DeLillo, ma in anticipo su di lui di qualche anno, dato che l’indagine di Agnoloni è cominciata nel 2012.

Tutti i protagonisti di questi romanzi hanno perso qualcosa: chi la memoria, chi la famiglia, chi un amore sparito nel nulla… Ne La Casa degli anonimi sono spariti nel nulla, e il protagonista li cerca inutilmente, perfino i tre personaggi principali di Sentieri di notte, che esistono soltanto come nomi e ossessioni. Non è venuta a mancare solo la comunicazione fra diverse aree del globo. Anche passato e presente non dialogano più. Alcuni personaggi raccontano in prima persona la loro esistenza atemporale in una Casa – o in più Case? – simile a un limbo, a un intermundus fra la vita e la morte, desiderosi di tornare a vivere ma inconsapevoli di ciò che sono stati. La loro presenza si manifesta solo nei sogni di altri personaggi. Tutti, dunque, hanno perso il contatto con se stessi: con una parte, o con la totalità, di sé. Cosa li salva? L’incontrarsi, il ritrovarsi. Ma è difficile ritrovare se stessi in un mondo di identità incerte, ingannevoli, talvolta perfino fungibili – e qui Agnoloni sembra richiamarsi a tutta la letteratura sulla massificazione, sull’individuo come monade mondiale, alienata e scissa.

Anche la razionalità non è più sufficiente. I personaggi si muovono spinti da intuizioni irresistibili, da pure sincronicità junghiane (vale a dire da coincidenze significative solo per chi le esperisce). Il protagonista della Casa, Kasper, compie le sue azioni “ben sapendo, per motivi a me ignoti”, qual è il suo compito in questo gioco dove nulla è ciò che appare ma nulla è per caso. Le coscienze possono essere persino eterodirette, infiltrate da qualcun altro che vi prende stanza. Il socratico Gnothi seautòn, “Conosci te stesso”, diventa allora il comandamento più importante. Perché è solo ritrovando se stessi, ridiventando completi, che si può svolgere la propria funzione nel mondo. Accanto al motto socratico, c’è – con pari forza – l’esempio di Gesù, che, nel tempio, pur inveendo contro i Farisei, non si lascia distrarre da loro e continua a tracciare dei segni per terra. Cosa scrive? I Testi non lo dicono, ma ai nostri personaggi quel passo del Vangelo invia un messaggio: rintracciare i segni, decifrarli, interpretarli è il loro compito più sacro, perché i segni sono tutto, in un mondo che si è ridotto al suo proprio fossile. I segni sono ciò che sopravvive. Accogliere i segni, “abbandonarsi ai significanti” avrebbe detto Carmelo Bene, è l’unica via per ritrovare quell’unità a cui tutti aspirano, e che è sempre più lontana.

Ne L’ultimo angolo di mondo finito il cosiddetto mondo reale ha perso consistenza: vi si aggirano droni che controllano l’umanità dall’alto, ologrammi in forma umana che rimandano a ciascuno i propri pensieri e a cui ciascuno si rapporta come se fossero reali, senza accorgersi di starsi avviluppando in una spaventosa solitudine. Il paesaggio de La casa degli anonimi era popolato di esseri esausti e arrabbiati, che avevano ceduto agli avatar parte della loro umanità e col crollo di Internet erano rimasti privi di se stessi, privi di una ragione di sé. L’ultimo angolo di mondo finito  fa emergere un panorama in cui il reale e l’irreale convivono al punto tale che i vivi hanno l’aspetto di fantasmi e i morti, col loro essere pure anime, hanno su di loro un vantaggio esistenziale e ontologico. Tutto ciò che appare può capovolgersi nel suo rovescio: gli eroi possono essere falsi, i benefici venir percepiti come minacce e gli eroi veri apparire come traditori e venduti. Continua a leggere

Thomas Bernhard, “Teatro VI”

Thomas Bernhard

Questo volume “Teatro VI” (Collezione Teatro Einaudi, 2021) riunisce tre testi di Thomas BernhardLe celebrità (1976), Su tutte le vette è pace (1981), Piazza degli Eroi (1988), piú tutti i testi brevi denominati da Bernhard «dramoletti».

A cura di Alice Gardoncini Traduzioni di Alice Gardoncini Umberto Gandini

Introduzione a cura di Alice Gardoncini.

IL LIBRO

Ubulibri fece uscire, tra il 1982 e il 1999, cinque volumi del Teatro di Bernhard annunciandone un sesto conclusivo, che in realtà non fu mai pubblicato. Dopo aver ripreso i cinque volumi Ubulibri, ora Einaudi completa la serie realizzando finalmente questo fantomatico sesto volume. Contiene i tre testi lunghi non compresi nei volumi precedenti, piú tutti i testi brevi denominati da Bernhard «dramoletti». Inediti in traduzione italiana sono Le celebrità(1976), Su tutte le vette è pace (1981) e i tre dramoletti scritti in dialetto bavarese: Match, Un morto, Funzione di maggio (1981).

Questi tre dramoletti dialettali sono tradotti da Umberto Gandini. Tutti gli altri testi sono tradotti da Alice Gardoncini. Ora che tutto il Teatro di Bernhard è disponibile anche in Italia, si potrà comprendere meglio la grandezza di questo scrittore, che con ironia e spirito di provocazione ha saputo innovare le abitudini teatrali piú radicate. E magari si potrà aprire una nuova stagione di messe in scena. D’altronde l’Italia ha avuto un ruolo significativo nella storia teatrale di Bernhard, visto che due dramoletti – Claus Peymann compra un paio di pantaloni e viene a mangiare con me; Claus Peymann e Hermann Beil sulla Sulzwiese – sono stati messi in scena per la prima volta proprio in Italia da Carlo Cecchi un anno dopo la morte di Bernhard, nel 1990, e piú volte ripresi.

La piú recente rappresentazione italiana di un testo di Bernhard è invece Piazza degli eroi mandata in onda da Rai 5 nel 2021 da un Teatro Mercadante privo di pubblico per il lockdown: protagonista Renato Carpentieri, regia di Roberto Andò.

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Mandel’štam, “Conversazione su Dante”

Nel 1933 Osip Mandel’štam, poeta in disgrazia, «e­ migrato interno» in procinto di diventare carne da lager, «arde di Dante», e studia l’italiano servendo­si della Divina Commedia.

In Crimea durante la pri­mavera scrive Conversazione su Dante, ma quando tenta di pubblicarlo incontra una serie di rifiuti. Di certo il saggio non ha nulla a che vedere con il rea­lismo socialista, né corrisponde al canone degli stu­di danteschi.

Affrancando il «sommo poeta» ita­liano da secoli di retorica scolastica, Mandel’štam ragiona su ciò che presiede alla nascita della sua poesia: in primo luogo, la metamorfosi.

Tutto, nella Commedia, è in movimento, e per il vero lettore, «esecutore creativo», leggere Dante significa rifiu­tarsi di restare incatenati a un presente che a sua volta è saldamente ancorato al passato: «Pronun­ciando la parola “sole” compiamo un lunghissi­mo viaggio al quale siamo talmente abituati che ormai viaggiamo dormendo. La poesia … ci sveglia di soprassalto a metà parola – parola che ci sembra molto più lunga di quanto credessimo –, e in quel momento ricordiamo che parlare è sempre essere in cammino».

Unico poiché sembra comprende­re tutti i linguaggi, quello di Dante evoca il mon­do con irripetibile potenza, e la Conversazione di Mandel’štam, tripudio di luminose intuizioni, co­strutti arditi e metafore inusitate (biologiche, mu­sicali, meteorologiche, tessili), in una prosa conti­nuamente attraversata da squarci di poesia, scor­ge e mette in luce i tratti più moderni, addirittura sperimentali, del suo poetare.

A cura di Serena Vitale. Continua a leggere

Gabriella Musetti, “Un buon uso della vita”

Gabriella Musetti

un buon uso della vita
e la nostra autobiografia / di tutti
– dice Maria Pia –
diventi un viaggio
meno accidentale
non raro non avaro
e strisci dentro
luoghi contenenti sale

***

illocalità della scrittura
(aurorale)
questo fraseggiare dell’origine
tanto divulgato in versi e prose
esibito come abissale
altro – scostante
e quant’altro analizzato
senza venirne a capo poi
in nessun modo

***

le storie sono all’inizio
tutte uguali
nasci da un ventre aperto
dal buio vedi la luce
ma subito la storia cambia
secondo il luogo lo status
il modo e l’accoglienza
non c’è una regola prescritta
uguale a tutti
ognuno trova a caso la sua stanza
chi bene – felice lui o lei – chi
con dolore

***

è morta questa mattina è morta
ma non si è accorta di morire
rideva come una bambina
su un prato in primavera
rideva anche di sera (e pure di mattina)
– s’è messa in salvo – qualcuno dice
volata via sopra una rondine
un po’ di soppiatto un po’ per avveduta
consolazione – la scelta unica rimasta
quasi sicura

***

era morta con la luna storta
era morta sopra un cuscino estraneo
di un vicino fuori della sua casa
come faceva a spiegare
a chi gliel’avesse chiesto
che era uscita in giardino
solo a fumare una sigaretta
scavalcata la finestra s’era trovata
nella casa buia decisa
a seguire il suo destino?


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I finalisti del Premio Viareggio Rèpaci


Selezionate le terne dei vincitori del premio Giuria-Viareggio nonché finalisti del premio letterario Viareggio-Rèpaci.

Per la narrativa: Edith Bruck con ‘Il pane perduto’ (La nave di Teseo), Gilda Policastro per ‘La parte di Malvasia’ (La nave di Teseo) e Alice Urciuolo con ‘Adorazione’ (66thand2nd).

Per la poesia Andrea Bajani per ‘Dimora naturale’ (Einaudi), Vittorino Curci con ‘Poesie (2020-1997)’ (La Vita Felice) e Flavio Santi per ‘Quanti (truciolature, scie, onde) 1999-2019’ (I&L industria & letteratura).

Per la saggistica Alessandra Necci con ‘Al cuore dell’impero. Napoleone e le sue donne fra sentimento e potere’ (Marsilio), Walter Siti per ‘Contro l’impegno (Rizzoli) e Gianni Sofri con ‘L’anno mancante. Arsenio Frugoni nel 1944-45’ (il Mulino).

La giuria tornerà a riunirsi in occasione della serata finale proclamando, per ciascuna sezione, il vincitore della 92/a edizione del premio Viareggio-Rèpaci: la cerimonia si terrà il 28 agosto.

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Dialoghi sulla Letteratura di Mariella Radaelli

RECENSIONE DI ALBERTO FRACCACRETA

Si è percorsi da un brivido di genuino stupore quando si legge l’indice de Il ferro e la rosa. Dialoghi su mondo e letteratura di Mariella Radaelli, posto all’estremità di quattrocentoundici densissime pagine: brivido che cresce allo snocciolare — sicuro e inconcusso — di nomi non certo ignoti, di mostri sacri della letteratura odierna: Isabel Allende, Ray Bradbury, Andrea Camilleri, Jonathan Franzen, Giovanni Giudici, Nadine Gordimer, Günter Grass, Franco Loi, Alda Merini, Amos Oz, Toni Morrison, José Saramago e molti altri. Possiamo continuare a lungo. Una galleria di premi Nobel, giganti della poesia nostrana e straniera, eminenti romanzieri: sono stati tutti intervistati durante la ventennale esperienza giornalistica della Radaelli (che ha rubricato i pezzi per quotidiani come «Il Giorno», «QN», «Corriere del Ticino»; oggi lavora come columnist al «Khaleej Times», dopo essere stata corrispondente per il «New Delhi Times», l’«Italo-Americano» e il «China Daily»). «Le mie scrittrici e i miei scrittori — dichiara l’autrice nell’introduzione — mi hanno insegnato a battagliare i qualunquismi e le sciatterie del quotidiano. Leggerli ha affinato la mia capacità d’ascolto e la mia dimensione riflessiva di conciliazione».

Bene, innanzitutto ciò che emerge dal libro è proprio l’ampia capacità di ascolto della giornalista, il suo farsi da parte per accogliere il pensiero e il punto di vista dell’altro, per lasciar emergere le idee sul mondo, sull’arte, sulla società della personalità letteraria chiamata in causa e puntellata costantemente dagli intelligenti stimoli dell’interlocutrice. Un esempio? L’arditissima intervista Mario Luzi: “Mia madre, la voce di Dio”, pubblicata su «Il Giorno» il 5 aprile 2003.

Ecco uno spezzone: «Luzi, parliamo della sua fede in Cristo. All’inizio non avevo una posizione esplicita, ma dentro di me agiva questa forza spirituale. E il merito è stato di mia madre. L’ha anche scritto in “La porta del cielo”. Sì, è stata lei a insegnarmi a sentire la presenza del Cristo nell’eucarestia. Aveva un legale “umbilicale” con sua madre. L’ha paragonata a Monica, la madre di Sant’Agostino. Avevamo anche noi quei colloqui, quelli che Agostino aveva a Ostia con Monica. I miei rapporti con mia madre, che era una donna molto semplice, sono stati formalmente umili ma di sostanza. Il nostro è stato un rapporto bellissimo. A lei ha dedicato molte poesie, molte raccolte. Fino all’ultimo svolse i suoi compiti, lei scrive: “Preparò l’ultima cena”. Il richiamo cristologico non è casuale. Lei ha fatto dello Spirito la sua principale materia poetica.

Ho solo cercato di ristabilire, ma non so se ci sono riuscito, il fondamento spirituale del linguaggio poetico. Esiste però un “salto” tra la poesia, che contiene in sé nell’etimologia del vocabolo la radice del fare, e la preghiera. La contemplazione è qualcosa di superiore: un’immobilità che non rompe il silenzio, come invece accade quando ci si mette a scrivere». Continua a leggere

Ilse Aichinger, “Consiglio gratuito”

Ilse Aichinger, per gentile concessione

GEBIRGSRAND

Denn was täte ich,
wenn die Jäger nicht wären, meine Träume,
die am Morgen
auf der Rückseite der Gebirge
niedersteigen, im Schatten.

MARGINE DI MONTE

Che mai farei
se non ci fossero i cacciatori, i miei sogni,
che al mattino
sul lato opposto dei monti
scendono, in ombra.

SONNTAGVORMITTAG

Gott zu lieben,
ihn anzubeten
und ihm allein zu dienen.
Rastend
auf dem Weg zu den Höfen
zur bestimmten Stunde
aus der Ferne gesehen
über dem Schnee.

DOMENICA MATTINA

Amare Dio,
adorarlo,
obbedire a lui soltanto.
In una sosta
lungo il cammino per le cascine
all’ora stabilita
visto da lontano
sulla neve.

WIDMUNG

Ich schreibe euch keine Briefe,
aber es wäre mir leicht, mit euch zu sterben.
Wir ließen uns sacht die Monde hinunter
und läge die erste Rast noch bei den wollenen Herzen,
die zweite fände uns schon mit Wölfen und Himbeergrün
und dem nichts lindernden Feuer, die dritte, da wär ich
durch das fallende dünne Gewölk mit seinen spärlichen Moosen
und das arme Gewimmel der Sterne, das wir so leicht überschritten,
in eurem Himmel bei euch.

DEDICA

Non vi scrivo lettere,
ma non farei fatica a morire con voi.
Ci calammo pian piano giù per le lune,
la prima sosta ancora ai cuori di lana,
la seconda già con i lupi e il verde dei lamponi,
e con il fuoco che non lenisce nulla, alla terza sarei allora,
attraversate le nubi sottili che discendono con muschi radi
e il povero brulichio delle stelle, da noi superato senza fatica,
nel vostro cielo con voi.

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Gabriele Borgna, “Manufatti del dissesto”

Gabriele Borgna credits foto Fratelli Bodart

Al bastione del Miradore
è ancora cielo sul falso pepe,
parla un fermo d’aria
che smarca la notte da dentro.

Come in una nassa
a bocca aperta,
fra le maglie delle cose
mi anniento.

Con le parole tratto di una resa.

*

Vivo nel garrito del desiderio,
vento che raschia i caruggi.
La mancanza è un esercizio
per corpi in attrazione,
recalcitranti ma già vinti
al giogo del dissesto.

*

C’è un tracciato che non dirocca
e rimanda a questi portici di calata
smangiati dalla spuma, alle lampare
in ronda, al tocco scardinante.

Ci siamo amati anzitempo
per ridare un nome alle cose,
la gola alla sete, un’espressione
d’assoluto al gesto della mano
che ora s’incurva e rassicura
nel seme di un chiarore primitivo.

*

Restano le conchiglie
come altari ai caduti
di tutte le derive.

L’eco dei muti splende
e tace oltre il male
marchiandoci.

da Manufatti del dissesto, Minerva Edizioni, 2021

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Alberto Fraccacreta – Premio Ceppo Leone Piccioni Succedeoggi Saggistica Under 35 – 2021

Vi proponiamo in esclusiva, il discorso tenuto da Alberto Fraccacreta, il 24 giugno 2021 a Pistoia nell’ambito della manifestazione del Premio a lui conferito. Assegnista di ricerca in Letteratura italiana contemporanea presso l’Università degli Studi di Urbino, Alberto Fraccacreta poeta e saggista, scrive per Succedeoggi e per numerose testate giornalistiche nazionali. E’ fra i collaboratori del blog Rai Poesia, di Luigia Sorrentino.

 

La letteratura come gioia

Non è gioia se non nel dolore.
Eugenio Montale, Quaderno genovese

 

 

La letteratura come gioia. Mi rendo conto che è un titolo poco convincente. Ad alcuni potrebbe suonare persino retorico. È quindi consigliabile, se non necessario, il gioco delle etimologie per accattivare l’uditorio e per rivestire il nesso di almeno una parvenza d’interesse. Dunque. La radice etimologica di gioia proviene dal gaudium latino che è connesso all’idea di piacere, gaudere, e più addietro al jocum, al gioco — appunto — che produce allegrezza. (Ovviamente non si sta parlando della voluptas degli epicureisti e del giovane Marsilio Ficino.) Se però lasciamo le escoriazioni linguistiche greco-latine e ci rifacciamo per un attimo al verbo sanscrito ‘yuj’ — significa ‘unire’ o ‘legare’ —, la gioia diviene un sentimento che tiene ‘uniti’. Chi o che cosa?, verrebbe da chiedersi. E inoltre: la gioia è davvero un sentimento? Il gioco, anzi il jocum delle etimologie finisce qui. Con questi interrogativi sospesi. C’è da rimanerne delusi.

Be’, innanzitutto, bisogna domandarsi che ha a che fare la gioia, il tener uniti (chi, che cosa?) con Leone Piccioni a cui questo premio è dedicato. Prima di continuare con gli sproloqui pseudointerpretativi, desiderio ringraziare gli organizzatori, in particolare Paolo Fabrizio Iacuzzi, Gloria Piccioni e Nicola Fano per la loro fiducia e la gioia che davvero ci tiene uniti da anni con il webmagazine Succedeoggi. Dicevo che significa la parola ‘gioia’ per Leone Piccioni? Molte cose. Il volume che inaugura la casa editrice Succedeoggi Libri, Leone Piccioni. Una vita per la letteratura, curato da Gloria e da Silvia Zoppi Garampi,testimonia attraverso le voci di importanti studiosi, poeti e artisti l’humanitas di Piccioni: non soltanto la sua preparazione critica, il suo valente contributo alle humanae litterae, ma anche la sua amicizia, il suo essere solidale nei confronti del prossimo. D’altra parte, è ormai divenuto celebre il dittico aggettivale che lo accompagna: Leone Piccioni «maestro e amico». Desidero adesso insistere su un particolare della sua attività critica che bene aiuta a esprimere come la parola ‘gioia’ possa essere una risorsa per la letteratura odierna. Vorrei precisare, se non è chiaro, che il titolo di questa brevissima conferenza si rifà esplicitamente a un intervento ben più decisivo e gravido di conseguenze a opera di Carlo Bo: Letteratura come vita, pubblicato nel ’38 sulla rivista «Il Frontespizio», considerato un po’ il manifesto dell’ermetismo e anche la cifra peculiare dell’intero lavoro ermeneutico di Bo (il quale ha comunque più di un debito con il francese Du Bos, curiosa la vicinanza anche nominalistica tra i due).

Letteratura come vita è ben più attraente di letteratura come gioia, ammettiamolo. Però forse la letteratura come gioia possiede un’accezione più particolaristica e insieme universale. «Gioia, bella scintilla divina», diceva Schiller nella sua famosa ode che Beethoven riprese in quella magnifica esplosione di musica oggi divenuta l’inno dell’Europa ‘unita’. (L’Europa ha bisogno di gioia, ammettiamo anche questo. E di unione.) È necessario trovare l’angolazione corretta da cui scorgere questo sostantivo, gioia, nella sua giusta luce. Le parole, come sappiamo, invecchiano e vengono usurate dal tempo, dalle ideologie. C’è bisogno di una purificazione. Dal rinnovamento del linguaggio spesso può sorgere un rinnovamento, se non una palingenesi, delle idee.

Partiamo con Piccioni. Rileggendo Una perpetua poesia maggiore, il lungo saggio di Leone che apre Vita d’un uomo di Giuseppe Ungaretti nell’edizione «Oscar Moderni» (Mondadori 2016), mi viene in mente un’espressione, o meglio una categoria interpretativa e concettuale, che Marco Sonzogni nel Meridiano dedicato a Seamus Heaney (Poesie, Mondadori 2016) ha utilizzato per entrare nel merito della raccolta Seeing Things: la «santificazione della poesia». Vediamo uno squarcio del testo di Piccioni, in cui si parla del Dolore ungarettiano:

 

A un effetto addirittura di canto aperto, solenne, corale porta nel Dolore il tema della guerra. Il poemetto Roma occupata ha andamento di composizione sinfonica, ha i suoi tempi musicali, il suo coronamento. Ed il canto del dolore cocente, ancora è diffuso nel paesaggio: «Fa, nel librato paesaggio, ch’io possa / Risillabare le parole ingenue». Ed è la «pietra», son qui «segni», «quasi divine forme» entro cui si svolge, in contemporaneità di tempo, con l’ispirazione del poeta, la vicenda che non si può fare a meno di cantare, fino alla preghiera, alla preghiera più alta, finalmente liberatrice. 

 

Piccioni continua la sua lettura della silloge citando forse i versi più importanti di tutta l’opera di Ungaretti, tratti da Mio fiume anche tu:

 

Cristo, pensoso palpito, 
Astro incarnato nell’umane tenebre, 
Fratello che t’immoli 
Perennemente per riedificare 
Umanamente l’uomo, 
Santo, Santo che soffri, 
Maestro e fratello e Dio che ci sai deboli, 
Santo, Santo che soffri 
Per liberare dalla morte i morti 
E sorreggere noi infelici vivi, 
D’un pianto solo mio non piango più, 
Ecco, Ti chiamo, Santo 
Santo, Santo che soffri. 

 

Giustamente Piccioni ha messo in rilievo il saliente passaggio dalla poesia alla «preghiera liberatrice»: ciò significa che lo spazio poetico si è santificato, è divenuto il luogo di perfetta adesione grazie a cui il poeta, nonostante il dolore, può riconoscere la ‘riedificazione’ dell’uomo. Ma ecco, anche, che la santificazione della poesia è diventata poesia della santità: «D’un pianto mio non piango più». La tragedia personale acquista un respiro cosmico: non è più ripiegamento su di sé, è misericordia, pietas e agape,solidarietà con la sofferenza altrui. E cos’è la poesia, infatti, se non umana solidarietà? Si è ‘uniti’ nel dolore. Se gioia significa unire, si può allora gioire nel dolore. Lo ha già anticipato Dostoevskij quando nei Fratelli Karamazov fa dire allo staretzZosima: «Conoscerai un grande dolore e nel dolore sarai felice. Eccoti il mio insegnamento: nel dolore cerca la felicità». Questo è un po’ il Leitmotiv di tutto il romanzo. C’è una differenza tra talesentimento e la gioia di scrivere della Szymborska o la solarità di Camus? Certo. Perché innanzitutto questo — e rispondiamo a uno dei primi quesiti posti — non è propriamente un sentimento, ma una ‘posizione’, un habitus esistenziale. Di nuovo Carlo Bo in Meditazione su Claudel, un saggio apparso nel ’37 sulla rivista «Letteratura», suggerisce che per comprendere le opere dello scrittore francese bisogna giocoforza assumere la sua personale prospettiva che definisce appunto la «posizione Claudel», un essere di fronte al mondo permeato totalmente dall’azione della grazia. Lì c’è la joie di un personaggio fondamentale nell’opera di Claudel, Doña Prouhèze, Donna Prodezza, la quale sostiene a chiare lettere che «là dove vi è più gioia, vi è più verità» (cito dalla traduzione di Simonetta Valenti della Scarpetta di raso, Le Château 2011).

Prima di rivelare che cos’è questa gioia indicata da Claudel, invidiata da Bo (che ammette di essere invece ancora nella posizione di Don Rodrigue, amato da Prouhèze), vorrei parlarvibrevemente di un racconto di Flannery O’Connor, Brava gente di campagna, che ho letto nella traduzione di Gaja Cenciarelli, presente nella raccolta Un brav’uomo è difficile da trovare recentemente riedita da minimum fax. Guardacaso la protagonista si chiama Joy ma si è autoribattezzata Hulga, è una filosofa raziocinante che non crede in nulla. È sedotta da un «sempliciotto», il classico «ragazzo di campagna», il quale dopo averla invitata a un appuntamento galante per i boschi ha l’ardire di sottrarle la gamba di legno (quella naturale era stata «maciullata da uno sparo durante un incidente di caccia») ed esporla come un trofeo. È un racconto abbastanza truce, contornato di un’ironia tragica. Un racconto davvero «brutale e sarcastico», etichetta che la O’Connor nelle lettere alla fantomatica «A.» ci rivela detestare. Sotto il profilo simbolico però — commenta la stessa Flannery, facendo una radiografia del testo nella raccolta di saggi Un ragionevole uso dell’irragionevole (minimum fax, 2012) — la gamba corrisponde all’«anima legnosa» della donna e in realtà il briccone, togliendole la protesi esistenziale che frena la sua adesione, le dona seppure per un attimo l’amore, la libera dalle ossessioni e dai lacci interiori che fino a quel momento le avevano impedito di vivere. Joy aveva perso la gioia e la grazia ha agito attraverso quel furfante per aprirle il cuore. La O’Connor non ci dice più nulla, il racconto finisce nel peggiore dei modi, ma è probabile che da allora Joy abbia abbandonato Hulga e sia ritornata Joy. La gioia riacquistata nel dolore.

Letture di questo tipo rientrano, a mio giudizio, in una dimensione interpretativa che potremmo chiamare ‘pneumocritica’, mutuando il prefisso pneumo- dalla speculazione teorica della filosofa Elvira Lops, autrice di un trattato di pneumanalisi antropologica, Credevo di essere qui, invece non c’ero (Aracne, 2020). Qual è la dimensione ‘pneumica’ del soggetto? Sicuramente non è la dimensione psicologica! Quindi, ci allontaniamo subito dalla psicocritica di Mauron e dal tentativo — ad esempio, del grande Giacomo Debenedetti — di leggere la letteratura alla luce della psicanalisi freudiana. La pneumocritica è un po’ una lettura ‘integrale’ del testo letterario, che tiene conto degli aspetti biografici, psicologici, esistenziali e simbolici, e prova a fissare il messaggio dello scrittore nelle regioni di frontiera tra l’io e il tu, tra lo scrivente e il destinatario, tra il soggetto e l’alterità.

Badiamo al sodo e facciamo un esempio concreto di pneumocritica. Prendiamo due versi da Iride di Eugenio Montale, forse i due versi che riescono a esemplificare meglio l’intera raccolta, La bufera e altro: «Ma se ritorni non sei tu, è mutata / la tua storia terrena». Interpretiamoli in termini biografici: il tu è Iride (o Clizia), cioè Irma Brandeis, donna amata dal poeta, americana studiosa di Dante, tornata a Firenze nell’estate del ’38 dopo qualche anno di assenza. In termini letterari: il ruolo di paladina dei valori umanistici e di «inconsapevole Cristofora» è traghettato in altre ispiratrici femminili (la Volpe) che ne prendono il carico e continuano la sua opera: dantescamente la sua femminilità ritorna in altre. In termini psicologici: il poeta vede Irma cambiata, ora è una «messaggera accigliata», il suo ritorno non ha più soltanto una valenza personale (era giunta a Firenze per ‘salvare’ Montale dalla disperazione di quegli anni) ma addirittura politico-metafisica (con il viaggio a Lussinpiccolo e a Parigi per organizzare le operazioni di salvataggio di molti ebrei in pericolo), e quindi cosmica, universale. L’interpretazione pneumocritica ricomprende tutti questi significati, aggiungendo un quid che ha a che fare con il tragitto esistenziale dell’autore: la potenza soteriologica del visiting angel non sostiene l’impalcatura religiosa, la domanda di salvezza che il poeta richiede. Dotato di un io carente, depotenziato, egli ha creduto di ottenere uno scampo storico e metafisico in una kafkiana «religione privata» (De Caro), ma tanto Clizia-Iride quanto le sue «metamorfosi tenebrose» (Cambon) conducono soltanto a conclusioni provvisorie, che apriranno alla nuova indagine sul dio dei filosofi di Satura. Inoltre, essendo la pneumocritica orientata a descrivere il contenuto ontologico delle relazioni, i confini interiori/esteriori dell’io e del tu, si può dire che le ‘tenaglie’ dell’io si allentano per l’insufficienza espressiva e la donna inizia veramente ad apparire come tu. Per la prima volta il soggetto lirico sembra essere di fronte a un tu, a un confronto con esso: è l’alba del tu nella poesia.

E ora arriviamo a Claudel. È pressoché impossibile riassumere l’antefatto della Scarpetta di raso, quello che è considerato il capolavoro claudeliano, un’opera teatrale sterminata che consta di oltre sessanta personaggi, pubblicata tra il ’28 e il ’29 e rappresentata solo molti anni dopo (con grandi difficoltà, peraltro). Il cuore della pièce è nell’amore impossibile, per varie vicissitudini irrealizzabile in vita tra Prouhèze e Rodrigue. Nell’unico incontro che hanno nel dramma, la famigerata scena tredicesima della terza giornata, si svela quello che è il testamento di Claudel, tutto il significato esistenziale della sua opera. Il suo messaggio, per utilizzare una terminologia jakobsoniana. Ripeto: causa vicissitudini varie l’amore tra Prouhèze e Rodrigue, benché uniti nell’anima (attenzione: ‘uniti’) da sempre, non potrà essere realizzato in vita. Il loro vero incontro è rimandato dopo la morte, in Dio, nell’eterno. Ed ecco la sostanza di questo scambio altissimo (per i significati letterari, filosofici e teologici) di battute:

Doña Prouhèze. — […] Io, io, Rodrigue, io sono la tua gioia! Io, io, io, Rodrigue, io sono la tua gioia!
Il Vice-Re. — Parola non affatto di gioia, ma di delusione.
Doña Prouhèze. — Perché far finta di non credermi quando credi a me disperatamente, povero infelice!
Dalla parte in cui vi è più gioia, è lì che vi è più verità.
Il Vice-Re. — A che cosa mi serve questa gioia se tu non puoi donarmela?
Doña Prouhèze. — Apri ed essa entrerà. Come fare per donarti la gioia se tu non le apri quella sola porta attraverso la quale posso entrare?
Non si possiede affatto la gioia, è la gioia che ti possiede. Non le si pongono condizioni.
Quando avrai fatto ordine e luce in te, quando ti sarai reso capace di essere compreso, è allora che essa ti comprenderà.
Il Vice-Re. — Quando sarà, Prouhèze?
Doña Prouhèze. — Quando tu le avrai fatto posto, quando avrai ritirato te stesso per farle posto, a questa cara gioia!
Quando la chiederai per sé stessa e non per aumentare in te ciò che le fa opposizione.

 

Perdere Prouhèze per Rodrigue significa perdere tutto, eppure lei lo invita alla gioia. Da questo bellissimo e terribile passaggio si capisce che essa non è un sentimento o, peggio, un’emozione (con tutto il rispetto per le emozioni). È qualcosa di più radicale, potremmo dire con lessico veteroheideggeriano di ‘ontologico’. È un habitus — si è detto —, un modo di approcciarsi al mondo, agli altri, alle cose. Nel succitato Letteratura come vita, Bo scrisse che «[la letteratura] è la vita stessa, e cioè la parte migliore e vera della vita». Se la gioia è la verità («dalla parte in cui vi è più gioia, è lì che vi è più verità»), e la verità è la vita, e la letteratura è vita, la parte più vera della vita, allora per un ragionamento induttivo la letteratura diviene claudelianamente gioia. Una gioia però che ha due parti, due tronchi dello stesso albero: la parte dell’esultanza propria del Magnificat ad esempio (Lc 1, 46-55), e la parte della stabilità, della solidità, secondo quando detto dalla Lettera di Giacomo, che parla di «perfetta letizia» (Gc 1, 2-4): «Considerate perfetta letizia, miei fratelli, quando subite ogni sorta di prove, sapendo che la prova della vostra fede produce la pazienza. E la pazienza completi l’opera sua in voi, perché siate perfetti e integri, senza mancare di nulla». Ancora la gioia, la felicità nel dolore.Insomma, la letteratura tiene ‘uniti’. Chi e che cosa? Lo scrittore e il lettore, perché essi partecipano dell’umanità. La letteratura associa, è sociale perché mette insieme, rende una cosa sola. Continua a leggere

La poetessa uruguaiana Ida Vitale

Ida Vitale

OBLIGACIONES DIARIAS

Acuérdate del pan,
no olvides aquella cera oscura
que hay que tender en las maderas,
ni la canela guarneciente,
ni otras especias necesarias.
Corre, corrige, vela,
verifi ca cada rito doméstico.
Atenida a la sal, a la miel,
a la harina, al vino inútil,
pisa sin más la inclinación ociosa,
la ardiente grita de tu cuerpo.
Pasa, por esta misma aguja enhebradora,
tarde tras tarde,
entre una tela y otra,
el agridulce sueño,
las porciones de cielo destrozado.
Y que siempre entre manos un ovillo
interminablemente se devane
como en las vueltas de otro laberinto.
Pero no pienses,
no procures,
teje.
De poco vale hacer memoria,
buscar favor entre los mitos.
Ariadna eres sin rescate
y sin constelación que te corone

IMPEGNI D’OGNI GIORNO

Ricordati del pane,
non ti scordare quella cera bruna
che si deve spalmare sopra il legno,
né la cannella per guarnire,
né le altre spezie necessarie.
Corri, aggiusta, veglia,
verifi ca ogni rito della casa.
D’accordo con il sale, il miele,
con la farina, il vino inutile,
cedi senz’altro al tuo talento ozioso,
allo strepito ardente del tuo corpo.
Passa, per questo stesso ago da cucire,
una sera via l’altra,
tra l’una e l’altra tela,
il tuo agrodolce sogno,
le porzioni di cielo danneggiato.
E sempre in mano tua un gomitolo
senza mai smettere si avvolga
come nei giri d’altro labirinto.
Ma non pensare,
non sforzarti,
tessi.
A poco vale ricordare,
cercare appoggio dentro i miti.
Arianna tu non hai riscatto
né una costellazione per corona.

TODO ES VÍSPERA

Todo es víspera.
Todo sueña un renuevo
y mueve el corazón a defenderse
de los derrumbaderos.
Cada uno en su noche
esperanzado pide
el despertar, el aire,
una luz seminaria,
algo donde no muera.
Algo inviolado, exacto, fehaciente,
para afrentar la sombra,
un puro manantial,
raíz de agua, algo
como esa jarra tuya, Isabel,
donde acaso
hay claridad humana,
amor con su poder resplandeciente,
más misterioso que la sombra misma.

TUTTO È VIGILIA

Tutto è vigilia.
Tutto sogna un rinnovo
e muove il cuore a tenersi lontani
dai precipizi.
Nella sua notte ognuno
speranzoso chiede
il risveglio, l’aria,
una luce semenza,
qualcosa in cui non muoia.
Qualcosa d’intatto, esatto, affi dabile,
per aff rontare l’ombra,
una pura sorgiva,
vena d’acqua, qualcosa
come quella caraff a tua, Isabel,
dove forse
c’è chiarità umana,
amore e il suo potere risplendente,
più misterioso della stessa ombra. Continua a leggere

La poesia del britannico Jacob Polley

Jacob Polley photo Mai Lin Li

Proponiamo per la prima volta nella traduzione di Bernardino Nera cinque poesie inedite in Italia del poeta e scrittore britannico Jacob Polley (1975).

Jacob nel 2016 ha vinto il T.S Eliot il premio di poesia più prestigioso della Gran Bretagna. Le sue poesie si traducono in opere che sono, allo stesso tempo, impegnative e emotivamente impegnate. In una intervista, la giornalista Aida Edemariam ha descritto la voce di Polley come “di volta in volta maliziosa, demotica, diretta e divertente”. (The Guardian, 2017). Questa è sicuramente una delle voci dei personaggi che Polley porta nelle sue poesie. C’è poi, nei suoi versi, una qualità oscura, nordica, che in qualche modo ricorda Ted Hughes, con una poesia che attinge a scene di vite rurali o marginali.

La poesia The Ruin (The Havocs, 2012), che qui viene proposta nell’inedita versione tradotta in italiano, è ispirata all’omonimo componimento poetico in Old English del VII secolo, contenuto nel manoscritto Exeter Book, risalente al periodo storico inglese della dominazione anglo-sassone del paese. Le altre poesie, sempre inedite in italiano, sono incluse nelle raccolte The Brink del 2003 Little Gods del 2006 e The Havocs del 2012.

Snow (The Brink, 2003)

It survives in quiet places
like a rare species
whose haitat is silence
and closed roads. It upholsters
the empty park bench
with long creaking bolsters
and lags the fields like draughty lofts.
Look up – the night’s in pieces
or the moon’s sieving
its desiccated seas;
there’s a glamour about the roofs
and even the old car
on bricks in the yard seem natural,
tucked up to the axles
in this delicate impasse.
Bridle path and motorway unite
under the wastes of space
each gale force renovates,
and only the cat and the blackbird
betray themselves so neatly
in the lawn’s flawless enamouring
that we’ll forgive their few footnotes
at dawn, when we open our doors
and the hard-packed white light
leant against them falls in.

Neve

Sopravvive in luoghi quieti
come una specie rara
il cui habitat è il silenzio
e le strade chiuse. Imbottisce
le panche vuote dei parchi
con lunghi cuscini a rullo cigolanti
e riveste i campi come solai pieni di refoli.
Sguardo in su – la notte è a pezzi
o la luna setaccia
i suoi mari prosciugati;
c’è un bagliore intorno ai tetti
e anche la vecchia auto
nel cortile senza più le ruote sembra normale,
rimboccata fino ai semiassi
in questo delicato impasse.
Un sentiero e l’autostrada si uniscono
sotto i deserti dello spazio
ogni bufera rinnova vigore,
e soltanto il gatto e il merlo
si tradiscono così bene
nell’incanto immacolato del prato
che perdoneremo le loro poche postille
all’alba, quando apriremo le porte
e la luce bianca compatta
posatasi addosso, cadrà dentro.

October (Little Goods, 2006)

Although a tide turns in the trees
the moon doesn’t turn the leaves,
though chimneys smoke and blue concedes
to bluer home-time dark.

Though restless leaves submerge the park
in yellow shallows, ankle-deep,
and through each tree the moon shows, halved
or quartered or complete,

the moon’s no fruit and has no seed,
and turns no tide of leaves on paths
that still persist but do not lead
where they did before dark.

Although the moonstruck pond stares hard
the moon looks elsewhere. Manholes breathe.
Each mind’s a different, distant world
this same moon will not leave.

Ottobre

Anche se una corrente turbina tra gli alberi
la luna non agita le foglie,
sebbene i camini fumino e il blu ceda
al blu più scuro del buio del rientro a casa.

Sebbene le foglie inondino senza posa il parco
di distese gialle, fino alle caviglie,
e la luna si mostri attraverso ogni albero, mezza
o un quarto o piena,

la luna non ha frutti, né semi,
e non fa agitare la marea di foglie sui sentieri
che ancora resistono ma che non portano
dove conducevano prima del buio.

Anche se lo stagno stregato dalla luna guarda fisso
essa volge lo sguardo altrove. I tombini sfiatano.
Ogni mente è un mondo diverso, distante
che questa stessa luna non lascerà. Continua a leggere

Gli sconfinamenti di Luigi Cipriano

IL LIBRO FOTOGRAFICO DI LUIGI CIPRIANO
“OLTRE – Viaggio onirico di evasione dalla pandemia Covid 19”

“OLTRE – Viaggio onirico di evasione dalla pandemia Covid 19” (Blurb, 2021), è l’ultimo lavoro di Luigi Cipriano, fotografo nato a Guardia Lombardi, che ha all’attivo la partecipazione a diverse collettive e alcune personali, oltre ad aver pubblicato diversi libri fotografici come autore e collaborato a progetti artistici.

Tra i suoi lavori, si ricorda la pubblicazione “Vertical City Extended”, realizzata nel 2020, che è stata selezionata all’Urban Book Award 2020 – Festival Internazionale di fotografia Urbana – Trieste Photo Days.

 

OLTRE, non è un reportage fotografico, non è un libro di street fotography, né un libro sul paesaggio. Tanto meno è un diario sulla quarantena, ma è un lavoro che partendo da una serie d’immagini realizzate in tempi e luoghi diversi vogliono comunicare sensazioni e riflessioni su questo periodo pandemico, in particolare tra marzo e giugno, con il lockdown nazionale.
A differenza di lavori realizzati in questo periodo, che partono dalla pandemia come soggetto principale, questo libro parte dall’inconscio ed esprime con le immagini quelle sensazioni emotive, miste di paure, attese o sogni affiorati nell’autore, e in gran parte di noi, durante il periodo di lockdown e ancora presenti oggi per effetto della pandemia che dilaga.

 

Il libro è composto da 46 fotografie, suddivise in 9 sezioni, dove vengono scanditi i tempi del lockdown dello scorso anno che, in un crescendo di immagini ed emozioni, descrivono il graduale passaggio dalla chiusura alla riapertura, per riprendere a guardare il mondo oltre le finestre di casa.

Le foto, pubblicate nel libro, cercano di visualizzare la percezione dei sentimenti che sono stati provati, indirizzandoli verso una dimensione onirica. Per farlo è stato dato alle foto un mood che vuole alludere al sogno. Le immagini sono state generate in post produzione, con un effetto flou e cromie calde, virate su colori beige e verde pastello.

La forza del lavoro è amplificata da una serie di poesie che alcuni noti poeti italiani, alcuni dei quali vivono negli Stati Uniti, hanno scritto partendo dagli stessi stati d’animo del fotografo, contribuendo a questo originale lavoro, e che introducono le varie sezioni di scatti, amplificando il significato delle immagini. Alcune poesie sono tradotte in più lingue.

La prefazione del libro e stata scritta dal Prof. Fulvio Bortolozzo, Professore dell’Istituto Europeo di Design di Torino ed esperto curatore per la fotografia d’autore, con particolare orientamento all’osservazione del paesaggio urbano e dell’architettura. I poeti che hanno contribuito con i loro scritto sono: Franco Buffoni, Maria Grazia Calandrone, Alessandro Carrera, Domenico Cipriano, Maurizio Cucchi, Plinio Perilli, Luigia Sorrentino, Luigi Fontanella e Gian Mario Villalta.

DALLA QUARTA DI COPERTINA

Il 9 marzo 2020, a seguito dell’epidemia globale da Covid-19, l’Italia decretava il lockdown della nazione. In assenza di cure, l’unico modo conosciuto per difendersi dalla pandemia era quello del distanziamento sociale.

Ciò ha procurato un senso generale di costrizione che torna anche nei sogni dell’autore. Immagini che, ricorda, aveva fermato in scatti precedenti alla pandemia e conservava nel proprio archivio fotografico. Foto che nascondevano un OLTRE e ritraevano mura, finestre, recinzioni, sbarramenti, confini, steccati, orizzonti infiniti e qualche persona che li fissava da una panchina…

A quelle immagini si legano i testi di 9 poeti, che amplificano le sensazioni generate dal lockdown.

Le foto, pubblicate nel libro, cercano di visualizzare la percezione dei sentimenti che sono stati provati, indirizzandoli verso una dimensione onirica. Per farlo è stato dato alle foto un mood che vuole alludere al sogno. Le immagini sono state generate in post produzione, con un effetto flou e cromie calde, virate su colori beige e verde pastello.

LINK DEL LIBRO PRESSO L’EDITORE BLURB


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Irène Némirovsky, “Re di un’ora” & altri testi inediti

Irène Némirovsky

«Re di un’ora & altri testi inediti», a cura di Cinzia Bigliosi (Edizioni Ares, 2021) è un volume che raccoglie testi mai pubblicati prima in Italia di Irène Némirovsky.

Il libro propone anche due capitoli «ritrovati» (forse altre versioni) di Suite francese – il titolo più famoso dell’autrice, pubblicato postumo e divenuto caso editoriale e besteller nel 2004, tradotto in 36 lingue. Si tratta di una riscrittura in cui Némirovsky cambia il destino di padre Philippe Péricand, uno dei protagonisti della prima sezione del romanzo, Temporale di giugno.

Mentre revisionava il testo del romanzo che sarebbe poi diventato Suite francese, nel 1940, Irène Némirovsky fu raggiunta dalla notizia della tragica morte – per mano dei tedeschi – di padre Bréchard, suo confessore che l’aveva accompagnata nella conversione al cattolicesimo e per il quale nutriva «un affetto e una stima sconfinati». Egli era stato il modello di padre Péricand, protagonista di una delle sequenze più drammatiche dell’opera.

Nella versione del 2004 il giovane parroco, un giovane borghese dalla vocazione fredda, è vittima di ragazzi che gli erano stati affidati in odore di riformatorio, e muore in «una trappola del demonio» violentissima e immotivata.

Ben diversa la sorte che gli tocca in queste nuove e più accalorate pagine: prima della pallottola che gli sarà fatale, padre Péricand «chiede a Dio di essere sacrificato al posto dei suoi uomini, delle loro anime che vuole salvare tutte, implora il perdono divino per chi tra loro abbandonerà, come altri uomini abbandonarono un tempo il Cristo lungo il calvario del suo destino».

Più controversa e dibattuta, invece, la sorte di Re di un’ora.

«Il testo, che uscì per la prima volta a puntate sulle pagine del Magazine d’aujourd’hui nel maggio 1934, presenta aspetti insidiosi e facilmente manipolabili da parte di una critica maliziosa che, come segnalato all’atto dell’uscita in Francia dallo stesso biografo della Némirovsky, Olivier Philipponnat, tenderebbe a leggere un atteggiamento ambiguo nei confronti del mondo ebraico».

(Dalla Nota ai testi di Cinzia Bigliosi)

Pensato e scritto per una rivista di destra, l’articolo analizza il «macher», tipica figura del faccendiere che viene qui studiato con sguardo critico verso quella tradizione yiddish alla quale afferisce.

Completano l’opera – oltre all’introduzione di Cinzia Bigliosi sull’«officina teorica di Némirovsky» – altri materiali inediti, come critiche teatrali e cinematografiche, articoli, appunti, prefazioni, bozze. Continua a leggere

Wallace Stevens, “Fabliau of Florida”

Wallace Stevens

Fabliau of Florida

Barque of phosphor
On the palmy beach,

Move outward into heaven,
Into the alabasters
And night blues.

Foam and cloud are one.
Sultry moon-monsters
Are dissolving.

Fill your black hull
With white moonlight.

There will never be an end
To this droning of the surf.

Fabliau della Florida (traduzione di Giovanni Ibello)

Barca di fosforo
Sulla spiaggia di palme,

Spingiti verso la soglia del cielo
Negli alabastri
E nei blunotte.

Schiuma e nuvola sono la stessa cosa.
Gli aridi mostri lunari
Si dissolvono.

Riempi il tuo buio scafo
Con luce di luna.

Mai sarà detta, mai la fine
A questa liturgia di risacca.

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“Astolfo sulla luna”, omaggio a Ariosto


ALLA RICERCA DEL SENNO DI ORLANDO

Moni Ovadia legge Roberto Pazzi da Un giorno senza sera
Roberto Pazzi legge dall’Orlando furioso di Ludovico Ariosto

di Matteo Bianchi

Rileggere il passato per affrancarsi dal presente e non subire gli umori della mondanità. Il nostro patrimonio letterario lo testimonia nonostante il corso impietoso del tempo; perciò la ricerca del senno perduto, seguendo l’ippogrifo di Astolfo fin sulla luna, è diventata una questione urgente per Roberto Pazzi: ogni giorno assistiamo allo spettacolo dell’insensatezza attraverso la mistificazione linguistica di tante cose che non contano, ma che sono spacciate mediaticamente per indispensabili, così la ludopatia, l’ubriacatura per il pallone. Una sproporzione d’importanza che l’eroismo del piede ha rispetto a quello della mente e che nulla ha a che fare con il Goal di sabiana memoria.

Roberto Pazzi

Giovedì 24 giugno, dopo l’inaugurazione nel cortile del Castello Estense della mostra “Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori”, organizzata da Ferrara Arte, alle 21.30  Roberto Pazzi e Moni Ovadia dialogheranno in versi accompagnati dal suggestivo spettacolo di videomapping proiettato sulla torre di San Paolo con musiche di Arvo Pärt e Gesualdo da Venosa. Se il direttore del Teatro Comunale “Abbado” comincerà leggendo le poesie dello scrittore ferrarese tratte dall’antologia Un giorno senza sera (La nave di Teseo), Pazzi risponderà attingendo direttamente dall’Orlando furioso.

«Recitare dall’apice del cuore di Ferrara è un sogno che custodisco da anni, dal 31 luglio 1981 – esordisce Pazzi – quando Carmelo Bene interpretò Dante dalla Torre degli Asinelli per commemorare il primo anniversario della strage fascista alla stazione di Bologna. Il canto dantesco volò nell’aria calda di quell’estate e raggiunse più di centomila persone, che ascoltavano là sotto. Ferrara vanta uno dei maggiori poeti del mondo, Ludovico Ariosto, e portare la sua visione in cima alla nostra città mi è sembrato doveroso».

In una notte di plenilunio sarà emozionante ascoltare i passi del poema nel luogo dove fu concepito e letto a Ippolito d’Este, cui è dedicato, che ascoltati i primi canti pare avesse commentato: «Messer Lodovico, dove siete andato a trovare tante corbellerie?».

Al centro della lettura di Pazzi saranno le ottave sulla follia di Orlando (100-136) del canto XXIII, e quelle del volo di Astolfo sulla luna (ottave 70-91) del canto XXXIV.

«Rimane l’attualità eterna di queste pagine – aggiunge – che sanno sorridere di tante vanità umane, “dell’ozio lungo d’uomini ignoranti”, delle bugie degli amanti, della fama scambiata per la gloria, dell’insipienza umana alla costante ricerca di beni effimeri, che si mostrano ingannevoli, ma con un tono di infinita comprensione della dissennatezza, e che non giudica, ma compatisce. Abbiamo bisogno di autori nelle cui parole si riscopra ancora oggi la gioia dei sensi e il gioco del caso, che non divulghino solo una concezione trascendente della realtà».

Geni come Ariosto, Boccaccio, Mozart e Rossini sono tra i pochi che abbiano espresso nelle loro opere, nella letteratura o nella musica, la gioia di vivere libera dall’ombra della morte, persuasa che l’esistenza abbia in sé il suo valore e il suo limite. D’altronde, la scelta di un poeta rinascimentale nel momento di un sospirato ritorno alla normalità dopo le continue quarantene vuole anche essere un saluto alla vita che rinasce.

Moni Ovadia

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Luigia Sorrentino, tre poesie

Luigia Sorrentino

THE FIGHT
By Luigia Sorrentino
(Inedito)

they’d beaten him with kicks and punches
violently, on his back
they’d entered into the cocoon
of his dignity

they’d come for his ashy
eyes
they’d held him in their arms
with no reaction

he smelt of flowers with no response

his cardiac beat
the voice of the universe
lost in the ocean

***

strength grips his clothes
his flesh
it jerks and drags
his body

it pulls it up from its armpits
it sits it up
it moves foot and thigh behind the pelvis
it falls back and sits behind its shoulders

it keeps it close between its legs,
it envelopes it with its arms
it lets the pain slip down
along its back

muddy eyes breathe
in its belly
fatal buried
intimate love

***

the street is visible from the glass
a glossy murky
tongue
its eyes wide open

it’s hungry at night

the weightless smell of rain
has hit the hidden body
the smell comes from below

the soles of the shoes
haven’t worn out
the unfamiliar
depth of seeing

Traduzione di Giorgia Sensi

LA LOTTA
di Luigia Sorrentino
(Inedito)

l’avevano picchiato con calci e pugni
colpi violenti inferti sulla schiena
erano entrati nel bozzolo
della dignità

erano venuti a cercare i suoi occhi
inceneriti
l’avevano tenuto fra le braccia
senza risposta

odorava di fiori senza più ritorno

perduta nell’oceano
la frequenza cardiaca
la voce dell’universo Continua a leggere

Milo De Angelis, “Poesia e destino”

NOTA INTRODUTTIVA DI MILO DE ANGELIS

Perché ristampare queste mie vecchie pagine? Perché da una parte possiedono qualcosa che mi è rimasto dentro – intatto, quasi intoccabile dal tempo – e dall’altra qualcosa che ho perduto per sempre. Molti temi di Poesia e destino sono quelli che mi scuotono ancora oggi: la tragedia, l’eroismo, l’adolescenza, il mito, il gesto atletico. Ma il tono è un altro. Il tono è furente, perentorio, imperativo, dà sempre l’impressione di un ultimatum che io pongo a me stesso e a chi mi legge. E’ come se da lì a poco dovesse scaturire una sentenza senza appello, l’ultimo grado di un processo dove si gioca la condanna o la salvezza. E questo tono guerresco circola nel sangue di una sintassi verticale, scoscesa, rapidissima, piena di strappi e impennate, la stessa di Millimetri, per intenderci, che è stato scritto nei medesimi anni. Ora non potrei nemmeno immaginare quella corsa sulle macchine volanti della parola. Me ne sono accorto trascrivendo il libro in un file per necessità editoriali. A volte ero pienamente d’accordo con me stesso, felice di essere rimasto fedele alle grandi passioni giovanili. Ma molto più spesso non capivo, letteralmente, il nesso troppo segreto tra due termini o due affermazioni. Dovevo leggere e rileggere, farmi aiutare dall’insieme della pagina.

E tuttavia questa antica furia mi piaceva e mi piace ancora adesso. E forse può colpire chi legge Poesia e destino in questo tempo. Specialmente se ricorda cosa erano quegli anni – il libro è stato scritto di getto nell’estate del 1981 – dove dominavano le scritture sociali alla ricerca di immediato consenso e dove alcune strade notturne erano sentite vicine alla follia e venivano frequentate con circospezione, divieti di transito e di sosta. D’altra parte erano ancora sconosciuti alcuni autori che hanno nutrito queste pagine – da Maurice Blanchot a Paul Celan, da Ion Barbu a Marina Cvetaeva – e con quelli più noti, con Nietzsche o Rimbaud, non era ammessa una simile intimità, un’adesione così gridata da sembrare fratellanza.

Il libro è diviso in tre parti, come vedrete. La prima riguarda i nomi suddetti, con particolare insistenza sullo sfondo greco in cui sono situati. Quella successiva – la mia preferita – è una riflessione ad alto tasso metaforico sul tema dell’impresa, dell’eroismo solitario e del pericolo mortale che ci nomina e ci azzanna. La terza percorre l’immenso universo indiano, cercando un arduo punto di contatto tra i suo Assoluti e l’unicità della singola voce. Ma in tutte e tre circola l’alta tensione di cui dicevo prima, perché la vera poesia naviga in mare aperto e prima o poi dovrà interrogarsi sulle ragioni che l’hanno spinta a veleggiare, sul porto che ha lasciato, su quello che l’attende, sul naufragio che all’improvviso può cancellarla.

ottobre 2018 Continua a leggere