Umberto Piersanti, da “Campi d’ostinato amore”

poesiafestival 13.Lezione magistrale Umberto Piersanti
photo © Serena Campanini-Elisabetta Baracchi

IL PASSATO E’ UNA TERRA REMOTA

a Giulia

no, non tra rossi papaveri
e fiordalisi come l’antica
col velo dentro al quadro
ma alta sugli stivali
nel terrazzo fumi,
e non mi guardi,
poi sul gran verde stesa
quel tuo volto acceso,
e accesi gli occhi
così azzurri e persi,
sei la ninfa riversa
nell’attesa
e la tua bionda carne
m’invade e piega

passano innanzi agli occhi
le figure,
in altri tempi
e luoghi lontani
e persi, tu sotto la cascata
t’infradici i capelli
neri e sciolti
e mi sovrasti
chino sulla roccia

non conosci quei lampi,
non sai i tuoni,
dicono che i soldati
salgono su lenti
dalla marina,
lei siede alla ringhiera
contro i bei vetri,
tu non ricordi il volto,
non sai la veste,
solo quelle ginocchia luminose
che appena intravedi
fra le trine

quando la casa cambi
o la dimora,
salgono le memorie
fitte alla gola,
e se tendi la mano
quasi le tocchi,
ma il muro che le cinge
è d’aria o vetro,
nessuna forza
lo può oltrepassare

il passato è una terra remota
magari non esiste,
non sai dove

Dicembre 2015

 

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Pascoli, “Il gelsomino notturno”

Giovanni Pascoli

E s’aprono i fiori notturni,
nell’ora che penso ai miei cari.
Sono apparse in mezzo ai viburni
le farfalle crepuscolari.

Da un pezzo si tacquero i gridi:
là sola una casa bisbiglia.
Sotto l’ali dormono i nidi,
come gli occhi sotto le ciglia.

Dai calici aperti si esala
l’odore di fragole rosse.
Splende un lume là nella sala.
Nasce l’erba sopra le fosse.

Un’ape tardiva sussurra
trovando già prese le celle.
La Chioccetta per l’aia azzurra
va col suo pigolio di stelle.

Per tutta la notte s’esala
l’odore che passa col vento.
Passa il lume su per la scala;
brilla al primo piano: s’è spento…

È l’alba: si chiudono i petali
un poco gualciti; si cova,
dentro l’urna molle e segreta,
non so che felicità nuova.

 

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Claudia Di Palma, da “Atti di nascita”

Claudia Di Palma

Rovisto a mani nude nel vocabolario del cielo.
Porto alla luce i diecimila nomi dell’essere
ma ogni nome ti nomina invano.
E non ho cibo da offrire, solo un abito da sera.
Allora indosso il nome che non ti chiama
e non mi importa di essere alla moda.
Copro la nudità per pudore, mi viene il dubbio
che non ci sia nulla da vestire,
nessun corpo, nessuna rosa.

***

La parola è un chiodo.
Il verbo che tu incarnavi ti tolse
di mezzo scavandoti piano.
Riconobbi il tuo volto dal vuoto
che vi cresceva rigoglioso al centro.
Da lì tu mi guardavi senza mai
sciogliermi, mi lasciavi ai miei giorni
grossolani, io mi dimenavo
con cose di scarso valore, monili
d’argento, e tu, tutto miseria e vento,
non ti offendevi, dissanguavi in croce.

***

Aspiravo alla grazia:
un involucro superfluo,
il trucco sul volto di una donna,
il rossetto sbavato sulle labbra.
Così immaginavo Dio, così lo sognavo.
E la mia preghiera era guardare,
provare a vestirmi sul nulla,
provare a compormi, e poi
raccogliere gli avanzi,
decifrare il mio nome.

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Stefano Bottero, da “Poesie di ieri”

Stefano Bottero, credits photo Dino Ignani

Mi trascina verso il peso delle cose
questa scimmia che ho sulla schiena.
È un lembo di niente
il suo parlare indistinto,
una spina,
il mormorio del traffico.

“o re, il peso si fa spirito,
siamo una costellazione.”

Così nel tenue turbamento della nebbia di Monza
– incanto, incauto, vivo per scommessa
la vita è una sala d’aspetto
e ho perso il momento.

***

Contrappeso della mia solitudine
i miei incubi d’autostrada.
il desiderio di dimenticarti,
domani
di non dimenticarti.

Sei l’intimità della mia dissociazione,

così scivoli dietro di me come la notte
che mi adagia un nastro sulle palpebre
e lo tira da dietro.

***

A DARIO BELLEZZA, POETA

Mi hai letto una sera
come favola della buonanotte
tutti i tuoi dubbi di strano distacco,
di autocommiserazione.

Sei per me il desiderio di un passante,
l‘attesa snervante in una copisteria.
Sei le ciglia perfette di un corpo non tuo
vestito di sbagli, di amanti drogati.

Stinge di vita questa tua insistenza,
sorge ostinata questa tua finzione
egocentrica figlia
della fermata successiva.

vorrei solo cullassi anche la mia
                                 disperazione. Continua a leggere

L’essenziale raccoglimento della poesia

Don DeLillo

SILENZIO E PAROLA
Una riflessione a partire da Don DeLillo

di Alessandro Bellasio

«Il mondo è tutto, l’individuo niente. L’abbiamo capito tutti, questo?».
Così sentenzia e si conclude, condensando il proprio messaggio, l’ultimo lavoro di Don DeLillo, il racconto/pièce Il silenzio. Una conclusione deludente e oleografica, come il libro stesso, a dire il vero, complice flagrante di quell’umanismo spurio e tecnicizzato che domina ormai incontrastato l’«ordine del discorso» mondiale, e nel cui dominio rientra evidentemente anche la letteratura mondiale, la letteratura che fa mondo, quella che ne restituisce istanze e valori, qui nella persona di uno dei suoi più celebrati eroi.
Già, il mondo… quante sciocchezze, in nome del mondo. Non è in nome del mondo, della collettività – secondo l’equazione implicita operata da DeLillo stesso – non è in nome delle masse sterminate e sterminatrici, che si è giunti a quell’apocalisse al ralenti così ben immaginata e restituita proprio dal racconto medesimo? Non è in nome dei popoli e dei fantasmi universalistici su di essi lungamente proiettati, che si sono messe in moto sulla Terra le «magnifiche sorti e progressive», a cui dobbiamo quella catastrofe amministrata che era già da molto tempo divenuta la nostra vita quotidiana, solo diffratta dalle pie illusioni di crescite e prosperità ad libitum?
Di sicuro, nulla di tutto ciò e, anzi, nulla in generale fu mai fatto – e per fortuna, vorremmo aggiungere – in nome dell’individuo… Ma – come ogni persona integra dentro di sé ancora sa perfettamente, benché in maniera sempre più timida e nebulosa – in realtà è proprio solo l’individuo che conta, solo l’esistenza ad avere valore, senso, durata.
E però non l’individuo nell’accezione materialistica e gregaria dell’individualismo – naturale pendant di ogni collettivismo – accezione da cui DeLillo implicitamente muove, assumendola come posizione ideologica di fondo, tacita e indubitabile, e a cui riapproda poi nella sua lapidaria conclusione, una volta compiuto il giro intorno a sé stesso e alle proprie inveterate convinzioni, speculari a quelle dei lettori che blandisce.

E d’altro canto, se la preminenza dell’istanza collettiva su quella individuale è il messaggio che l’autore americano intende rilanciare, nel momento in cui pure volessimo accogliere tale esortazione e però, da buoni europei, cercassimo anche di rinvenire non solo le matrici emotive e occasionali, ma le profonde radici storiche di un’idea così “moderna”, non saremmo forse obbligati a riconoscere che le nostre sciagure sono cominciate proprio nel momento in cui, a partire dalla seconda metà del XIX secolo grossomodo, alla concomitanza fatale di socialismi e darwinismi, prede facili di un facile Zeitgeist trapassato piano piano in visione del mondo tout court, noi abbiamo preso l’abitudine nefasta di concepirci, zunächst und zumeist, come comunità zoologica –  ossia nel momento in cui l’uomo si è saputo legittimato, tanto sul piano della dialettica storica, quanto su quello della cultura scientifica, a pensarsi prima di tutto come specie, e a farlo su vasta scala, su scala mondiale, in ottica sia diacronica che sincronica? Non è lì, sulla soglia del collettivo umano inteso come tale in virtù di ragioni squisitamente socio-biologiche, che possiamo collocare la cesura epocale che ci porta dritto fino ai nostri giorni, e al sinistro (nonché contradditorio in termini, a rigore) umanismo biologista[1] verso il quale sembrano puntare i vettori attuali della produzione di senso e di segni, e dunque anche la letteratura? Continua a leggere

I dieci finalisti del Premio Viareggio

Ecco la rosa dei finalisti che si contendono l’edizione 2021 del Premio Viareggio Rèpaci per la sezione Poesia.

Bajani, Andrea, Dimora naturale, Einaudi
Biagini, Elisa, Filamenti, Einaudi,
Curci, Vittorino, Poesie (2020-1997), La Vita Felice
Deidier, Roberto, All’altro capo, Mondadori
Di Francesco, Tommaso, I rabdomanti. Quattro poemetti, quattro poesie colloquiali e una favola, Manifestolibri
Donzelli, Elisa, Album, Nottetempo
Renda, Marilena, Fate morgane, L’Arcolaio
Santi, Flavio, Quanti (truciolature, scie, onde) 1999-2019, edizioni Industria & letteratura
Sbuelz, Antonella, Chiedi a ogni goccia il mare, ed. Stampa 2009.

La giuria ha selezionato i poeti e i titoli dei dieci libri finalisti, dei quali vi proponiamo un testo tratto dall’opera in concorso.

Da questa prima rosa la giuria porterà in finale tre titoli fra i dieci qui riportati. Solo tre opere arriveranno alla serata finale per contendersi il Premio per la Poesia del Viareggio Rèpaci edizione 2021.

 

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“Geografie” di Antonella Anedda

Antonella Anedda / Credits Photo Dino Ignani

NOTA DI LETTURA DI  LORENZO CHIUCHIU’

 

Geografie, non paesaggi. Non sezioni che l’arbitrio estetico isola, ma interi domini di una visione aerea o di una continuità geologica. Non contemplazione, ma descrizione che cerca attraversamenti, affinità e faglie.

Florenskij insegna che esistono due prospettive, la lineare e la rovesciata. La lineare è quella introdotta dal Rinascimento fiorentino: il punto di fuga che ordina la scena sfonda il quadro nella direzione che va dall’occhio alla rappresentazione. La prospettiva lineare è l’effetto di uno sguardo che si inabissa in un infinito che è sua proiezione.

Ma esiste anche la prospettiva rovesciata. È quella in cui l’osservatore non proietta un punto di fuga, ma lo diventa. Florenskij spiega la prospettiva rovesciata attraverso le icone, nelle quali le linee che ordinano la composizione vanno dall’icona all’osservatore: il punto di fuga diventa l’uomo. Per gli scrittori di icone essa non è né rappresentazione né mimesi, ma la presenza tangibile dell’infinità di Dio. E questa presenza determina una prospettiva che implica l’infinità dell’uomo: il punto di fuga non è più effetto dello sguardo umano; nella prospettiva rovesciata dell’icona il fuoco prospettico sprofonda nelle anime, che così si scoprono infinite. Lo pensava anche Eraclito: non troverai mai i confini dell’anima (45, DK).

Qualcosa di simile accade in Geografie. Le prose di Antonella Anedda somigliano a icone laiche in cui la prospettiva rovesciata precipita nella visione dell’interiorità. È come se le geologie, le ere e la cruda invarianza del dolore della storia – il loro senso o la loro perfetta assurdità – crollassero nella vita interiore del poeta: coscienza, Erlebnis, memoria e tonalità emotive– ciò che Antonella Anedda chiama «il nostro coro interiore». Continua a leggere

… ancora Piero Bigongiari…

Piero Bigongiari

Sono il mittente, il latore, o chi,
ricevuto il messaggio, non sa aprirlo
o non osa, e rigira tra le mani
il plico oscuro, (forse il suo domani?).
Ho viaggiato seguendo anch’io la rotta
del sole nella immaginaria grotta
del cielo, non foss’altro per udire
lo sciacquío del Pacifico su coste
friabili…

E forse ho creduto
che dinanzi ai miei occhi quasi inabili
lo stesso e il diverso coincidessero.
Dovevo trovare qualcuno, e
non ho fatto che una serie di frecce
indicanti che più in là, forse più in là…

Forse più in là ritroverai la dimora,
la sconosciuta per eccellenza,
la tua di cui non puoi fare senza,
anima, che se qualcuno la sorveglia,
se il tuo essere non è ancora un’essenza.

Smuovi ancora una volta la nidiata
dei fanciulli assiepati sulla soglia.
Entra. O chi entra con te, per te?
Lì troverai chi non può rispondere
a te, forse all’altro. Lì vedrai
l’inutile messaggio necessario
volatilizzarsi nelle tue mani.

Se devi essere dove non puoi essere.
Ma il raggiro è lento, compensato.
Se uno è stato dove non è stato.
È l’amore che ronza come un’ape
vicino al fiore. Il polline è incantato.

Ma il salvatore non si è salvato.

Piero Bigongiari, una poesia da L’eruzione solare della notte, in Dove finiscono le tracce, Le Lettere. Continua a leggere

Il dono, Roberto Carifi

La raccolta di inediti e nuovi componimenti di Roberto Carifi giunge oggi come un dono di raccoglimento di fronte all’esperienza globale dell’incertezza e della perdita. Carifi traccia ora, in contrappunto magistrale, i paesaggi della fiducia e della mitezza quando “la malattia si arrende” alla “parola esatta”, al dire sublime che si spoglia e che perdona.

ESTRATTI

Dopo Auschiwitz nessuno abita più
le ceneri dei comignoli
dei pochi ebrei a righe,
la memoria agisce nel buio,
e non è casa la casa di nessuno

***

La povertà è un miracolo
di queste sciarpe rosse,
la malattia si arrende
quando la ringraziamo
con la rovina dichiarata a bassa voce
mentre codesta lingua non è più straniera
e morte, nel mio tedesco, è una preghiera.

***

L’amore è stato ospite qui
dove colsi un variopinto fiore
che resistette alla guerra
riposarono qui le parole
quella che fu appena pronunciata
senza perché è un filo d’erba.

***

Perché non siete i guardiani del cielo,
perché non lasciate apparire la terra?
Ai rapaci che sorvolano il nord,
che vanno verso sud
con la preda feroce
riemergono con le facce da vivi.

_____

Roberto Carifi (Pistoia 1948) è riconosciuto come uno dei maggiori autori contemporanei per l’originalità e per la vastità della sua opera poetica, per i raffinati scritti filosofici e per le traduzioni di Rilke, Trakl, Bataille, Flaubert, Weil per citare soltanto le più note.

Ha pubblicato numerose raccolte di poesia tra cui Obbedienza (Crocetti, 1986), Amore d’autunno (Guanda, 1998), Madre (Le Lettere, 2011), Il gelo e la luce (Raffaelli, 2015) e Amorosa sempre (La nave di Teseo, 2018).

Con AnimaMundi ha  pubblicato Ablativo assoluto (2021) nella collana di poesia “cantus firmus”.

Alessandro Fo, “Filo spinato”

DAL RISVOLTO DI COPERTINA

Il filo spinato del titolo è quello che, trattenendo il nonno di rientro da un assalto durante la Grande Guerra, gli salvò la vita. Senza quel filo non ci sarebbero stati il padre del poeta, né la zia Bianca, né lo zio Dario, né il premio Nobel di quest’ultimo. Incontriamo poi in questo libro un ricco romano del IV secolo, di cui rimane pressoché solo il nome: ma fu grazie a lui se il giovane Agostino poté studiare. Senza di lui, niente Confessioni. E poi, ancora, una borsetta di perline trovata fra le macerie della Seconda guerra mondiale e conservata durante la prigionia per essere regalata a una futura nipote, che ora l’ha riposta cosí gelosamente da non riuscire piú a trovarla. La consolazione di un declivio fiorito lungo la strada che conduce a un lavoro logorante. Una pagella del 1934, nella quale un 6 in matematica fa ancora recriminare dopo piú di ottant’anni l’alunna che lo ricevette. Un garage da sgomberare, in cui giace un tesoro di lettere di Ripellino. L’avvento salvifico di vecchi libri sbrindellati nella cella di una prigione. Le poesie di Alessandro Fo raccontano piccoli episodi come ripresi da vecchie foto, sempre con la speranza che qualcosa resti, dopo la fine di ogni storia. Sempre con la certezza che tra lo scomparire e il riemergere ci sia un filo sottile, spinato o no, a cui tutti siamo appesi.

 

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Alda Merini, “La Terra Santa”

Alda Merini

COMMENTO DI FABRIZIO FANTONI

Splendide e strazianti le poesia di Alda Merini contenute nella raccolta “La Terra Santa” del 1984.
La terra Santa è il manicomio nel quale è rinchiusa la poetessa, luogo di oscurità e solitudine, di conoscenza e introspezione, luogo in cui la poesia affiora e si rafforza.

Il manicomio, nel quale “l’esistenza è negata”, come in un inferno, è vissuto da Alda Merini come uno stato d’animo, una condizione annientante che trascina giù verso il basso e, prima ancora che ce ne possa accorgere, si diventa reclusi, prigionieri.

Eccola lì, Alda, sola, disorientata. Obbedisce a chi detta le regole di una vita che non riconosce… e allora la poetessa si affida alla “divina follia” che ha depositato in lei i “versi della riscossa” e del riscatto. Una poesia che diviene atto di resistenza, sconfinamento.

______

Manicomio è parola assai più grande
delle oscure voragini del sogno,
eppur veniva qualche volta al tempo
filamento di azzurro o una canzone
lontana di usignolo o si schiudeva
la tua bocca mordendo nell’azzurro
la menzogna feroce della vita.
O una mano impietosa di malato
saliva piano sulla tua finestra
sillabando il tuo nome e finalmente
sciolto il numero immondo ritrovavi
tutta la serietà della tua vita.

Il dottore agguerrito nella notte
viene con passi felpati alla tua sorte,
e sogghignando guarda i volti tristi
degli ammalati, quindi ti ammannisce
una pesante dose sedativa
per colmare il tuo sonno e dentro il braccio
attacca una flebo che sommuove
il tuo sangue irruente di poeta.
Poi se ne va sicuro, devastato
dalla sua incredibile follia
il dottore di guardia, e tu le sbarre
guardi nel sonno come allucinato
e ti canti le nenie del martirio. Continua a leggere

Giannino di Lieto, “Il gesto antico e nuovo della lingua”

Giannino di Lieto

LA LINGUA INQUIETA E LA LINGUA DI UN POPOLO

 IDA TRAVI

Nel Breviario inutile, supplemento a “L’Ortica” del marzo 2003, al secondo paragrafo, titolato Della Comunicazione, Giannino di Lieto scrive: “Una Società di parlanti è attraversata da una ragnatela o intersezioni, le Società di Discorso. La configurazione di una Società di Discorso è circolare, quindi fondamentalmente chiusa”.

La lingua del discorso sembra vincente, sembra unificante solo perché è chiusa.

C’è molto di costrittivo nel suo unificare, c’è una perdita di libertà nel Discorso pubblico.
C’è una finzione. Passare attraverso il discorso pubblico, senza il coraggio della
poesia, vuol dire uscirne spellati.

La Società di Discorso chiude, non lascia parlare; la scrittura di questa Società di
Discorso
zittisce l’altro. Ecco allora che la parola poetica si ribella, forza il Discorso
chiuso, e all’improvviso apre un varco, sia nel passato che nel futuro.

Il varco è in realtà uno spiazzo millenario nel quale irrompono le civiltà che forse dormono, ma non sono ancora estinte. Dormono accanto a un futuro prossimo senza tempo.

Nello spiazzo millenario, se pur frantumato e scaduto, si fa vivo un essere antico, che mostrandosi come nuovo, riemerge dalle tempestose acque della storia.

Nessuno può sapere in che rapporto sta con l’ombra. Questa è cosa che non si può dire, ma solo poeticamente indicare, come farebbe un bambino col dito teso, come farebbe un muto indicando qualcosa di “profeticamente” accaduto.

Il tempo della capra
quando si munge piegati sul ginocchio
era uno spiazzo estivo,
ombra in corsa d’acqua
la fatica saltellante negli squadri cavi
graffiare del naufrago le mani
povere piante
come d’antico vivere:
il grido si è spellato sulla bocca.

Giannino di Lieto, Indecifrabile perché (“Giochi verticali”, p. 31)

Indicare poeticamente (silenziosamente) è un gesto antico e nuovo insieme. È gesto antico e nuovo in ogni lingua, in ogni civiltà. Questo gesto poetico racchiude un silenzio che si salva anche nella parola pronunciata. E un silenzio sonoro unisce contemporaneamente ciò che sta fuori – all’aperto – e ciò che batte – dentro – con il pendolo, al muro della nostra casa.

Vivere in punta:
se l’alba brucia i boccoli dell’aria
come bolle scoppiano i tempi iridescenti
oscilla fra muri
un pendolo d’incenso
nella moltiplicazione
l’anima è riflessa in fuga d’oro.

Giannino di Lieto, Indecifrabile perché (“Un pendolo”, p. 41)

Questo interno, in cui l’anima si mette in fuga d’oro, è simile allo spiazzo estivo in cui campeggia “l’ombra in corsa d’acqua, quando si munge piegati sul ginocchio”: siamo in quell’interno-esterno in cui il mondo non può coincidere coi suoi nomi e con la voce di chi quei nomi chiama. Eppure coincide con il gesto silenzioso di chi le cose addita, il sempre vivo, il minacciato che non muore mai, venuto allo spiazzo a scompaginare la quiete.

Siamo in quell’interno esterno-esterno dove si parla la lingua dei vecchi e dei bambini. La lingua d’un popolo. Quella non scritta. La lingua prima. La lingua del corpo-voce che nomina il mondo come se fosse la prima volta che appare. La lingua materna. Giannino di Lieto riparte da questa prima lingua, e la scavalca. Continua a leggere

Nasce l’archivio di Enzo Cucchi. Creato come un videogame è una straordinaria invettiva contro il sistema dell’arte

E S C L U S I V A

DI FABRIZIO FANTONI

 

Spiazzante e imprevedibile in ogni sua manifestazione Enzo Cucchi si conferma, ancora una volta, come il più “fuori legge” fra tutti gli artisti contemporanei.

La sua creatività scontrosa, che non si sottomette ad alcun canone predefinito si manifesta anche nella costituzione dell’archivio digitale che raccoglie l’intera sua produzione artistica.

Enzo Cucchi rompe le regole accademiche dell’archiviazione creando un vero e proprio videogame che consente di giocare con le opere dell’artista: un nuovo e più democratico criterio di consultazione e fruizione del materiale che sia accessibile a tutti ,anche alle giovani generazioni.

Al di là delle apparenze il nuovo progetto di Enzo Cucchi si rivela come un gesto di sfida (prima ancore che un gesto artistico) contro la insopportabile commercializzazione dell’arte contemporanea.

Questo aspetto è messo in luce molto bene da Alessandro Cucchi che nel suo articolo compie un’invettiva impietosa e lucidissima dello stato attuale dell’arte contemporanea, denunciando apertamente la falsità e l’opportunismo di molti personaggi che tessono le fila dell’arte contemporanea

 

ARCHIVE GAMIFICATION

DI ALESSANDRO CUCCHI

Enzo Cucchi

…”era troppo fico giocare all’archivio!”
“Hai visto quel mostro al sesto quadro? E’ spuntato da dietro l’albero, mi ha fatto saltare in aria!”
Vorrei fossero queste le prime impressioni di chi si approccia al mio archivio.
Entusiasmo & Aspirazione.
Invece oggi l’archiviazione è intesa come una pratica noiosa, passiva, vecchia.
La fruizione di un archivio tramite un metodo nuovo.

Osservando il movimento dell’Arte contemporanea, la sensazione più piacevole che si può provare credo sia il vomito.
Un sistema che dovrebbe essere all’apice di un’ideale piramide culturale (l’Arte è il termometro più sensibile che la società ha per misurare il proprio andamento estetico quindi etico), oggi è preda della peggior specie di persone che esistano.
Sei un fotografo non bravo a fare le fotografie? Troverai lavoro sicuramente nel sistema dell’arte.

Enzo Cucchi

Sei un falegname che non è in grado di tirar su mobili e sedie? Il tuo futuro è allestire mostre.
Hai studiato giurisprudenza per diventare notaio ed entrare nel secolare ufficio di tuo padre, possibile erede di atti notarili e mafie istituzionali, ma per poca voglia o perspicacia non riesci proprio a concludere gli esami? Fatti crescere una bella barba, mettiti dello smalto alle unghie, e presentati come artista. Le mostre personali fioccheranno.
Sei una ragazza dell’alta borghesia (forse addirittura nobile), ti annoi tra i tuoi privilegi e non vuoi fare la fine di quell’alcolizzata di tua madre? Proponiti come performer impegnata socialmente, una body-art post-concettuale presentata come fosse un panino di McDonald, Kassel sarà una tua meta certa.
Hai tre cliniche private in dote ma fare lo psichiatra ti sta stretto? Proponiti come artista, e alla prima offerta di ruolo istituzionale, accettala, diverrai il direttore di uno dei poli dell’arte contemporanea più importanti del paese. Continua a leggere

Piero Bigongiari, “L’enigma innamorato”

Piero Bigongisri

COMMENTO DI ALBERTO FRACCACRETA

La poesia di Piero Bigongiari, crescendo dai concimi di una dizione che può essere definita biblica – a patto che l’aggettivo sia letto non soltanto stricto sensu ma anche nella sua accezione più larga, nell’occorrenza di un’arcana solennità –, non poteva fiorire per acclamazione di pubblico. È infatti una lirica insidiosa, elusiva, a tratti severa, che rilascia un nettare melodico (a differenza del primivitismo betocchiano).

Eppure dietro alle sinuosità formali si incrociano significati sfingici, legati da un rapporto non esattamente (non del tutto) “ermetico”, come ci si aspetterebbe, bensì allegorico-metafisico, insomma lungo quella linea discontinua che scorre da Browning e Baudelaire.

I versi di Bigongiari non appartengono di rigore né alla poésie pure di marca simbolista né al «classicismo paradossale», al ragionamento modernista. Sono un ibrido, un ircocervo.

Certo è che Carlo Bo lo considerava «il più concettualistico rappresentante del movimento [ermetico] nella sua fenomenologia fiorentina». Nondimeno l’obscurisme della penna, al pari del Barocco pittorico che egli predilesse assieme alla moglie Elena, sin dall’inizio si muove sull’asse di una saturazione di motivi, spesso confinante in quell’«oltranza manieristica» (Pavarini) che ricompone un mondo nella sua impermeabile perfettività: e di lì, stabilita l’insufficienza del reale, oltre l’orizzonte di un’algida lontananza.
La tentazione che Bigongiari sia dunque un poeta per poeti è scottante e deriva dai presupposti filosofici con cui sorge la sua ispirazione. Continua a leggere

A Milo De Angelis, nel giorno del suo settantesimo compleanno

Milo De Angelis, ph. Giampaolo Lai - Ortona, 1986

Oggi 6 giugno 2021, è un giorno importante. Ricorre il settantesimo compleanno di uno dei maggiori poeti europei del nostro tempo: Milo De Angelis.

Auguri Milo, Buon Compleanno!

Lo rivedo così, ritratto in una foto a me particolarmente cara scattata da Giampaolo Lai che suggella il nostro primo incontro a Ortona, nel 1986. Milo era di fronte a me. Era estate, l’estate di una  notte infinita. L’estate in cui restammo svegli e parlammo di poesia per tutta la notte. Lo ricordo seduto, nello spazio immenso della poesia, nello spazio infinito di ciò che è eterno e che non avrà mai fine.  Il libro che mi regalò era “Somiglianze” (Guanda, 1976). La dedica per me in calce al libro: “A Rò, per più di una vita”. Rò, (Rhò, Rho), è il nome di un comune in provincia di Milano. Rò, un nome notevole per me, perché Rò non è solo uno dei comuni più antichi della Lombardia,  è anche un nome affettivo, che stabilisce un legame profondo e identifica l’unicità del “luogo” in sé, della persona, di ogni persona. E, per Milo De Angelis, – come leggerete nella poesia che segue – l’unicità fondatrice del “luogo” configura l’atto poetico,  il gesto atletico, il rito arcaico, antichissimo, che si ripete come un dovere esistenziale e originario: “per più di una vita”.

(Luigia Sorrentino)

 

La somiglianza

Era
nelle borgate, camminando in fretta
quell’assolutamente
oltre
che dai libri usciva nella storia
radendo le bancarelle, d’estate.
Domanderemo perdono
per avere tentato, nello stadio,
chiedendogli di lanciare un giavellotto
perché ritornasse l’infanzia.
Non si poteva
ma la somiglianza era noi
nell’immagine di un altro, ravvicinato, nel sole
volevamo trattenere il nostro senso
verso lui
in un gesto da rivivere: chi poteva sancire
che tutto fosse al di qua?

Prese la rincorsa, tese il braccio…

Da: Somiglianze, Milo De Angelis, (Guanda, 1976)

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L’imparzialità della poesia

“Dizionario critico della poesia italiana 1945-2020” a cura di Mario Fresa (Società Editrice Fiorentina, 2021). Il curatore l’ha definito in una recente intervista “uno stimolo alla conoscenza”.

NOTA CRITICA DI GIUSEPPE MARTELLA

Qualche tempo fa mi è capitato di pubblicare su Facebook in tono semiserio un post provocatorio dove affermavo di voler acquistare questo libro per vedere chi manca.

Mario Fresa non è intervenuto nel breve dibattito che ne è seguito, ma mi ha subito scritto, rimproverandomi la poca serietà dell’intento e invitandomi a leggere e studiare attentamente il volume piuttosto che semplicemente consultarlo, poiché dietro c’era un immenso lavoro di coordinamento e di riflessione da parte di una equipe di critici molto agguerrita. Io gli risposi che certo lo avrei fatto, facendogli notare però che dizionari, enciclopedie, atlanti ragionati e quant’altro, sono fatti proprio per essere consultati all’occorrenza piuttosto che studiati.

Quando ho iniziato a leggerlo, un paio di giorni fa, la dichiarazione di intenti che trovo fin dalle prime parole della Premessa, recita infatti: “questo dizionario intende essere uno strumento di consultazione, di memoria e di informazione.”

Poi cerco invano un indice dei poeti censiti per farmi una prima idea dell’impianto complessivo dell’opera, dal momento che nella stringatissima premessa (poco più una pagina) i criteri della scelta e l’intento dell’opera non vengono affatto esplicitati al di là delle generiche parole suddette, del criterio temporale di includere poeti che hanno esordito dopo il 1945, e delle affinità elettive fra questi ultimi e i critici cui sono stati affidati.

Si tratta dunque di una mappa ecumenica della poesia italiana dal dopoguerra ai nostri giorni, che annovera poco più di 250 poeti in ordine alfabetico, senza un indice di consultazione, e 53 redattori che invece l’indice ce l’hanno ma nell’ordine inconsueto dei nomi piuttosto che dei cognomi, di cui non comprendo lo scopo se non insinuando il sospetto maligno di confondere le acque, poiché poi buona parte di questi redattori appaiono anche nel novero dei poeti.

Questo è il quadro che il lettore medio può ricavare in partenza, in un’opera che manca del tutto di una cornice critica e di una spiegazione della ratio che la regge.

Non gli resta pertanto che mettersi pazientemente in cammino seguendo l’alfabeto degli eletti. E così faccio, ovviamente sorvolando sulla lettura di molte schede, per il semplice motivo che diversi autori già li conosco bene, altri abbastanza da non volerli approfondire oltre. Mi appunto solo alcuni nomi che mi riservo di esaminare a tempo e luogo e annoto alcune cose che mi colpiscono per lo più sfavorevolmente.

Anzitutto, l’eccessiva ampiezza del periodo scelto ha costretto i redattori a fare delle schede stringatissime, da cui spesso non risulta il tenore e il valore dell’opera prescelta. Sicché al lettore non specialista (tranne forse solo nel caso dei mostri sacri che magari conosceva già) non rimane che annoverare una serie di presenze fantasmatiche piuttosto che di profili nitidi.

In secondo luogo, nello spazio asfittico complessivo, alcune schede risultano a mio parere troppo estese ed altre troppo compresse rispetto al valore dell’autore in questione. Un esempio per tutti: Bartolo Cattafi ha una scheda di mezza paginetta mentre Biagio Cepollaro ne ha una di lunghezza doppia, quando fra i due sussiste un abisso di valore, dal momento che il primo è uno dei maggiori poeti del secondo Novecento.

Ad Alfredo De Palchi poi, encomiabile traduttore e divulgatore della poesia italiana in Nord America ma poeta assai mediocre, viene riservato uno spazio quattro volte maggiore. Continua a leggere

In memoria di Gabriele Galloni

Gabriele Galloni

Per festeggiare il l 26esimo compleanno del giovane poeta Gabriele Galloni collaboratore di Pangea, scomparso prematuramente all’età di 25 anni,  il 9 giugno 2021, si terrà al teatro San Raffaele di Roma, in zona Trullo, via San Raffaele, 6 alle  17.30, un evento in suo nome con letture di poesie tratte dai libri di Gabriele.

Lo ricorderanno gli amici  poeti: Marcello Veneziani, Ignazio Gori, Davide Cortese, Antonella Rizzo, Mina Pugliese, Giorgio Ghiotti, Ilaria Palomba, Ilaria Grasso, Emanuela Dottorini, e tanti altri.

Nel corso della serata i cantautori  Andrea del Monte e Leonardo Mirenda si esibiranno con dei loro brani.

Sarà presente anche Gianni Caruso, Presidente del Premio Poesia città di Fiumicino, alcune istituzioni, il regista Carmine Amoroso, il fotografo dei poeti Dino IGNANI.

Grazie alla disponibilità di Pino Cormani, Direttore Artistico del teatro San Raffaele e della Compagnia Teatrale” IL CILINDRO” è stato possibile pensare a questo evento.

L’organizzazione è stata curata da Gianfranco Teodoro.

Parteciperanno alla manifestazione amici e parenti e insegnati della scuola Cine TV Roberto Rossellini di Roma. Continua a leggere

Vittorino Curci, il poeta e il sassofonista

Vittorino Curci

La parola poetica nasce dal silenzio. Solo dal silenzio. Questo sembra dirci Vittorino Curci in questo nuovo libro in cui certo non mancano spigolosità, spaesamenti, colpi di scure sulla lingua (fino all’utilizzo di parole ed espressioni inventate come “quartali” o “vèrbate collura”). Il tutto però sembra muoversi verso una schiarita, forse per il peso che ogni parola, ogni sillaba, assume nel contesto di una prassi compositiva che, sospinta da
una forza ineluttabile fatta di passione e verità, trova il suo fulcro nel legame indissolubile tra immagine e suono.

TESTUALITA’ DEI CORPI

1.

a te si addice il torpore che festeggia
la vita, il formicolio della quinta ora.
al primo svoltare
è questo il giorno, il vocativo conciso
della macchina del tempo
costruita con le tue mani.
e poi facce, facce una sull’altra.
di ciò che è stato
è rimasto appena un grido

ma anche questo è un tempo
un precipizio di luce
sugli anni che non vedremo.
e sono confusi i pensieri, confusi
i gesti che ci portano alla frontiera
di una terra diversa, ereditata

2.

il pittogramma del buon principio,
come una profezia dei boschi, si fissa
per sempre nei tuoi occhi dove
l’ipnagogico sillabare del fuoco
da luoghi lontani, africani
clessidra la forza lustrale del disarmo
e il magistero intonso dei dannati.
riportati a terra, niente è come prima…
nessun pentimento, neanche un cenno
all’albatros depennato al primo rigo…
alla febbrile assenza di un respiro…
alla piovana sequenza di un nome
tra voci sbussolate e nude sulle dune

3.

nel ventunesimo delle fortune mancate
la nostra terra è un disegno sulle carte,
il dono assente dei quasiversi orchestrati
per violini scacciamosche.
gli oscurati portano semi nel pugno, luce
imperitura di chi mai pensa alla resa
e al vessillo cencioso dei malvagi
che misura il tempo della fuga e il lontanare
dei frammenti rosicchiati al buio.
ieri invocavamo l’infinire del rubato
per disossare completamente il mare.
la notte per le mani spianava il cielo
a apostrofi di comete…

4.

dal corridoio con le luci al neon
scendiamo nell’interrato delle partite
perse, nell’obitorio degli annegati…
l’orecchio buono del silenzio
cade nella pania del talento
e ci esorta a lasciare senza tornaconti
l’andare a capo del braccio e questa
vigilia su cui declina un piccolo sole

 

SEGNALI DI FUMO

 

è giusto che si facciano un’idea del prezzo, che controllino
ogni cosa. hanno solo respirato aria. l’aria
di sempre. l’aria di tutti. ma spesso la luna dei pozzi
ci ripensa. utilizza il tempo a suo piacimento
la città industriale si sveglia al ticchettio di un orologio
[fermo.
memoria dei linfomi. pugno di consonanti in un vicolo
[cieco.
nebbia alle sei del mattino.
le scolaresche, dopo l’appello, sono pronte.
se potessero tornare indietro…

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“Parole spalancate”, il Festival Internazionale di Poesia di Genova 2021

Dal 10 al 19 giugno torna a Genova il Festival Internazionale di Poesia “Parole spalancate”, che inaugura la nuova estate culturale dopo la pausa forzata causata dal Covid con la sua ventisettesima edizione.

Come ogni anno la poesia viene presentata in tutte le sue forme e in rapporto alle altre arti, in particolare musica, teatro, cinema e arti visive, attraverso decine di eventi gratuiti tra letture, performance, concerti, incontri, mostre, installazioni e proiezioni.

Nonostante le difficoltà legate alla pandemia, il programma – finalmente tutto in presenza – è assai ricco.

Tra gli ospiti c’è il gradito ritorno di Frankie hi-nrg mc, che proporrà il reading “Faccio la mia cosa. Il rap e tutto il resto”, ispirato anche dal suo ultimo libro omonimo (Mondadori).

Nel 700° della sua morte, Dante viene ricordato con una serie di eventi, tra cui “Dante tra i genovesi”, una lettura che coinvolge la città attraverso personalità della cultura, dell’impresa e delle istituzioni coordinata da Francesco De Nicola e in collaborazione con la Società Dante Alighieri e il network Piazza Dante.#Festivalinrete di cui fa parte Parole spalancate.

Dante è oggetto anche del reading-concerto “Dante tra il tramonto e l’alba” di Alessandro Timossi con Andrea Nicolini e del concerto “Dante mediterraneo” di Jamal Ouassini e l’Ensemble Terra Mater, che declina il capolavoro di Dante nelle diverse lingue del Mediterraneo.

Il Festival celebra anche Charles Baudelaire in occasione del suo bicentenario, con il reading-concerto “Jazzspleen” con il Wind Tales Quartet, in anteprima nazionale e con l’incontro con Roberto Mussapi dal titolo “Il Cigno: sogno e tormento in Charles Baudelaire”..

Una serata speciale in collaborazione con il festival Elettropark è dedicata a John Giorno, figura-chiave della poesia orale americana, con letture, filmati inediti, dj-set e l’installazione di una sua opera di grandi dimensioni.

Un altro omaggio è tributato a Giorgio Caproni, con la lettura scenica di e con Eugenia Del Bue, una delle voci emergenti più interessanti del teatro italiano. Continua a leggere

Yang Lian, da “Origine”

Yang Lian

The Landscape in the Room

thirty-two years old heard enough lying
no landscape can ever again enter this room
a corn-faced stranger
stands at the door hawking putrid stones
displaying tongue-fur a kind of eternity ground between the teeth

they or you are both cold cold enough to want
to be vomited up like the profane pictures on the walls
memory is a whole squad of weakening addresses
autumn’s bearded weeds dead under a bare yellow-gold foot

Someone (leaning) by the window hears the herds of stars disappear
the night-long wind’s sound seems like falling pears
the empty room is thrown away

wavering and wavering again in your naked flesh
dismemberment like sky and water
wet sun forgot everything as it howled in pain
no landscape can ever again enter this landscape
to do you to death

until the last bird has also escaped into the sky
colliding within that hand frozen into blue veins

wherever you lock yourself
there the room is fixed spacious echoes
recite the darkness
bury your heart’s only landscape

lie

Il paesaggio nella stanza

a trentadue anni ha udito abbastanza menzogne
alcun paesaggio potrà entrare ancora in questa stanza
uno straniero dal volto banale
sta davanti alla porta divulgando pietre putrefatte
mettendo in mostra i peli sulla lingua una specie di territorio tra i denti

loro o tu siete freddi freddi abbastanza da volere
venire rimessi come i quadri profani sui muri
la memoria è un intero drappello di indirizzi affievoliti
come l’erbaccia barbuta dell’autunno morta sotto un piede nudo giallo-oro

Qualcuno (affacciato) alla finestra sente la mandria delle stelle scomparire
il suono del vento che dura tutta la notte assomiglia al cadere delle pere
la stanza vuota viene buttata via
oscillando e oscillando ancora nella tua carne nuda
smembrata come il cielo e l’acqua

il sole bagnato ha dimenticato tutto mentre urla dal dolore
nessun paesaggio potrà entrare mai più in questo paesaggio
a farti morire

finché l’ultimo uccello non sia scappato nel cielo a sua volta
scontrandosi in quella mano congelata nelle vene blu

ovunque ti chiuda
là la stanza è bloccata echi spaziosi
a recitare l’oscurità
seppellisci l’unico paesaggio del tuo cuore

menti Continua a leggere

Alla Casa della Poesia di Milano con Milo De Angelis e Viviana Nicodemo per rivivere gli ultimi giorni di vita di Sylvia Plath

Milo De Angelis e Viviana Nicodemo

Evento a cura di Milo De Angelis, organizzato dalla Casa della Poesia di Milano, 10 giugno 2021, 19:30 –  voce recitante Viviana Nicodemo.

La serata sarà trasmessa sul canale Youtube della Casa della Poesia di Milano.

INTRODUZIONE DI MILO DE ANGELIS

Proponiamo questa sera alcune testimonianze che riguardano l’ultimo periodo della vita di Sylvia Plath. Sono poesie, soprattutto, ma anche brani dell’epistolario – in particolare le lettere alla madre – e un testo di Ted Hughes a lei dedicato e intitolato Lo sparo, tratto dal suo libro Lettere di compleanno. Qui siamo nel 1962 e all’inizio del 1963. Qui siamo vicini alla morte, se pensiamo che Sylvia Plath si uccide con il gas lunedì 11 febbraio del 1963.

Qui tutto parla di morte. Ma anche di poesia, Ma anche di perfezione. Morte, poesia, perfezione. Un trittico potente e antico, un trittico che viene dal mondo classico. Si direbbe che proprio sulle soglie del disastro, sull’orlo del baratro la poesia della Plath raggiunge il suo culmine. L’alto e il basso si congiungono. La vetta e il precipizio coincidono. Il sublime e la caduta tra le rocce si stringono in un patto inviolabile, in un’alleanza finalmente raggiunta. Mai la poesia di Sylvia Plath era stata così perfetta. Mai era stata così perentoria, così definitiva, capace di congiungere la vita e la morte, le immagini di un’infinita, trepidante bellezza con le forze oscure e spettrali della fine, la potenza di un fiore con il cadavere dei bambini acciambellati, l’alba dei fiordalisi e i papaveri di ottobre con il sapore aspro del Talidomide.

Sylvia Plath appare qui come una guardiana dell’Ade, una sacerdotessa della Morte, una figura sacrificale che rinuncia alla sua esistenza personale per avere in cambio la perfezione di un verso, che si distrugge come essere umano per rinascere come poeta, per giungere a noi soltanto come poeta, come parola compiuta e impeccabile. E questi versi hanno la forza allucinata di un congedo che da una parte è netto, secco, ultimativo – non c’è mai nulla di patetico nei congedi della Plath – ma dall’altra porta con sé tutte le presenze palpitanti della vita intravista e perduta.

Dopo il naufragio, Sylvia non ha voluto raggiungere a nuoto la riva ancora una volta, non ha voluto sfuggire ancora una volta alla morte che la spiava fin da quando era bambina. Il mosaico si è frantumato, la persona chiamata all’anagrafe Sylvia Plath, trent’anni, nata a Boston sotto il segno dello Scorpione, la persona Sylvia Plath si è spaccata in mille frammenti, la sua anima non ha retto gli urti violentissimi della sorte.

Viviana Nicodemo in un frame della sua lettura, drammatica e indimenticabile di Sylvia Plath, 10 giugno 2021

 

Il colpo di scure si è abbattuto sul vetro fragile di una giornata. Ma le tessere di questo mosaico, ciascuna di queste tessere è diventata una parola, un’immagine saettante capace di restituirci un’altra verità che non è più soltanto quella di una vita dolorosa ma che, passando attraverso questo dolore, è diventata la bellezza rivelatrice della sua poesia.

Poesia che ora ascolterete nella traduzione di Anna Ravano.

La voce è quella di Viviana Nicodemo. Continua a leggere

Clemente Rebora (1885 – 1957)

Clemente Rebora

O PIOGGIA DEI CIELI DISTRUTTI

O pioggia dei cieli distrutti
che per le strade e gli alberi e i cortili
livida sciacqui uguale,
tu sola intoni per tutti!
Intoni il gran funerale
dei sogni e della luce
nell’ora c’ha trattenuto il respiro:
bussano i timpani cupi,
strisciano i sistri lisci,
mentre occupa l’accordo tutti i suoni;
intoni il vario contrasto
della carne e del cuore
fra passi neri che han gocciole e fango:
scivola il vortice umano,
vibra chiuso il lavoro,
mentre s’incava respinta l’ebbrezza.
Ma tu, ragione, avanzi:
onnipossente a scaltrire il destino,
nell’inflessibil mistero
a boccheggiare ci lasci;
ma voi, rapimento e saggezza
in apollinea gioia
in sublima quiete,
al marcio del tempo le nari chiudete
o mitigando l’asprezza
nella fiala soave dell’estro
o vagheggiando dall’alto
la vita, che qui di respiro in respiro
è con noi belva in una gabbia chiusa!
Un’eletta dottrina,
un’immortale bellezza
uscirà dalla nostra rovina.

Clemente Rebora, da Frammenti lirici, Libreria della Voce, Firenze, 1913 Continua a leggere

Il segno e la poesia. 25 libri d’artista di Giulia Napoleone

Giulia Napoleone, Biblioteca cantonale di Lugano, 27 maggio 2021, in occasione della mostra “Il segno e la poesia. 25 libri d’artista”

A Lugano, nella Biblioteca cantonale da giovedì 27 maggio 2021 è in corso la mostra
Il segno e la poesia. 25 libri d’artista di Giulia Napoleone.

Il legame di un’antica amicizia lega la Biblioteca cantonale di Lugano a Giulia
Napoleone. L’artista è già stata infatti ospitata in passato in questi spazi con alcune
opere. Del resto, col suo lavoro di meditazione sulla pagina scritta e sulla parola, si
pone in linea perfetta con le scelte espositive dell’istituto che, negli ultimi anni,
mirano a indagare questo particolare aspetto della creatività.

Da queste considerazioni è nato il desiderio di collaborare in vista della realizzazione
di una mostra. Giulia Napoleone ha così appositamente creato per la Biblioteca
cantonale di Lugano 25 libri d’artista.

Giulia ha scelto una serie di poeti, inserendo in queste nuove meditazioni molti dei suoi consueti compagni di viaggio e numerosi altri amici, tra cui diversi ticinesi: Adonis, Annelisa Alleva, Antonella Anedda, Marco Caporali, Maria Clelia Cardona, Massimo Daviddi, Roberto Deidier, Milo De Angelis, Biancamaria Frabotta, Gilberto Isella, Maria Gabriela Llansol, Fabio Merlini, Pietro Montorfani, Alberto Nessi, Elio Pecora, Yves Peyré, Giancarlo Pontiggia, Fabio Pusterla, Roberto Rossi Precerutti, Rocco Scotellaro, Luigia Sorrentino, Brunello Tirozzi, Maria Rosaria Valentini, Marco Vitale, Simone Zafferani.

Sono nati così gli splendidi libri d’artista, una collezione di opere che si distinguono per varietà di formato e soggetti, la cui unicità risiede principalmente nel fatto che Giulia Napoleone non ha soltanto realizzato le immagini, ma ha anche composto le pagine, individuato e trascritto i versi, scelto con cura gli elementi fisici – carta, matite, inchiostri… – che dovevano accompagnarla in questo lavoro. Questi elementi influiscono infatti in modo determinate sul risultato finale, non soltanto negli aspetti più evidenti, ma anche nei flussi più impercettibili che chiedono di essere riconosciuti da una osservazione più attenta.

Giulia Napoleone, manoscritto con tre disegni con poesie di Luigia Sorrentino tratte dall’edizione francese di Inizio e fine, (2016) Début et Fin, traduzione di Joelle Gardes, (Al Manar, 2018)

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Maria Clelia Cardona, “I giorni della merla”

Maria Clelia Cardona, credits ph Dino Ignani

I SEMI DELLA GIOIA

 

La gioia è un campo recintato
dove germogliano semi dispersi –
l’invasiva gramigna delle
menti nostre inebriate, la  malva rosa
che pur ferita dal falcetto svetta,
la campanula azzurra che rampica a terra
e l’ardore del sole in sé chiude.

 

SEMI SMARRITI

 

Trasvolano nella volta notturna della mente
stelle cadenti intorno a un desiderio
che tremola in basso – esile appello –
semi celesti di felicità
smarriti, germoglianti forse altrove
in oltrumano grano bianco.

 

CICLAMINI

 

Come spesso una frana di gran scena, una lite screanzata
fa deviare il corso delle storie. Ci si ritrova
in un cammino cieco, una strada sterrata senza uscita,
invaghiti dall’autunnale, nascosto apparire dei ciclamini –
fiori che vivono vicini, ma ognuno
a sé.
La voce blesa del navigatore avverte: « Errato, errato, tornate
indietro, se potete. Se.».

Da: I giorni della merla, di Maria Clelia Cardona, Moretti & Vitali, 2018 Continua a leggere

Marco Munaro, “Le falistre”

Marco Munaro

Lo senti l’odore fresco nell’erba
premere contro la faccia schiacciata
per terra? Fa male? Prendimi il braccio,
stòrzamelo dietro la schiena
fino a quando se non grido, pietà!

***

Prima di tutto l’odore, di maggio,
e poi magari anche i fioretti, quando
le risa delle bambine feriscono
l’aria e le candele rubate accese
per loro bruciano di desiderio.

La luce monta s’inselvatichisce,
gli uccelli diventano proprio pazzi
come nei libri di lettura, e file
di operose formiche vanno e vengono
verso la dispensa in cucina mentre
ronzano calabroni e coccinelle
e l’erba è alta come in una fiaba.

La notte non verrà neanche stanotte.
La luna è piena e rossa ed il profumo
delle rose stordisce: sei seduto
sulla soglia di casa, insonne, annusa
la terra bagnata nelle mutande

***

Devo uscire – aria invernale
o primaverile ma tersa –
e apparire nell’orto.
Devo sfasciare tutto.

***

Ricorda il male che,
per il tuo bene, ti hanno fatto.

Continua a leggere

Flavio Santi, “Quanti”

Flavio Santi

Ma io che vorrei
scriverti migliaia di
bronzee lettere, con una
busta aperta che a ogni
metro o chilometro variabile
si riempia delle cose:
ghiande da strada, balconi
andati all’aria, giberne
ghiacciate, fossati e
rammendi o anche frammenti così:
«Che storia e che
svolo, piccolo mio
appartamento, o randa o cucina,
dove dal soffriggere di cipolla o di mare
penso alle sue mani, al
suo sale». Anche così.
E per francobollo una nottola,
un cherubino, un animale,
un fine funerale.

***


Rievocazione di battaglie

Ma fuori le cicale
scialavano
la quota termica destinata
ed esplodendo
diventavano stelle
e le nuvole erano
la forma della loro sete.
La neve in tivù si ruppe
subito e apparve
la Moana al porno,
evviva dissero.
Il videoregistratore accolse
la cassetta e partì,
lento treno.
Era la giovane lavandaia che invecchia
nella strada,
era lei nel mezzo che sbuffava.
Ma dio mio che
pena non svolta
nel viso assecondato,
che festa mai seria
in quelle rughe fonde
come damigiane,
era la Moana al porno.
Ora la bocca
è piena di vuoto,
la fica occupata
da qualche tarlo.
Era la Moana al porno:
ora è polvere, ossa,
era già tanto magra. Continua a leggere

Victor A. Campagna, “Nel suo nome”

Victor A. Campagna

Per dare un nome a Dio
occorrerebbe nascondersi dietro
un roveto – le rose spente
guardano – aspettare sottecchi poi
che l’autostrada svuoti d’anima
la serie di dossi appena intuiti
dal vetturiere; poi nei vettori
di quei destini – le macchine – dettare
il nero di un fato sconquassato.

****

Per trovare questo dio
bisogna prima cercare
dei ricettari al banco frigo
di un ipermercato qualsiasi:
nel cartellino troveremo
l’indizio di dio, perché
nei numeri associati a realtà
sono irrealtà croniche
che prendono forma
sotto carte, patine e dorature
e poi strazi e straziami; il denaro
è il più chiaro esempio per cui
di fronte alle ossa dei Minotauri
siamo riusciti a definire meglio
di ogni statua quel che significa
dio: numero tra numeri,
decimali, centesimi.

Dio è numero e di numeri
verrà composto: codici binari,
treni assopiti all’orma coerente
dell’umano consenso.
Da queste basi
nacquero l’esigenza
e il nome di un dio minore. Continua a leggere

Una poesia di Mario Benedetti

Per mio padre

Sta solo fermo nella tosse.
Un po’ prende le mani e le mette sul comodino
per bere il bicchiere di acqua comprata,
come tanti prati guardati senza dire niente,
tante cose fatte in tutti i giorni.
Intorno ha una cassettiera con lo specchio,
due sedie scure, un armadio, l’incandescenza minuscola di una stufa.
Dei centrini, la stampa di una natività con il rametto di ulivo,
un taccuino, dei pantaloni, delle cose sue.
Davanti il cielo che è venuto insieme a lui,
gli alberi che sono venuti insieme a lui. Forse una ghiaia di giochi
e dei morti, che sono silenzio, un solo grande silenzio, un silenzio di tutto.
A volte l’acqua del Cornappo era una saliva più molle,
un respiro che scivolava sui sassi.
A volte tutto era l’uccellino del freddo disegnato sul libro di lettura
vicino a una poesia scritta in grande da imparare a memoria.
A volte niente, venire di qua a prendere il pezzo di cioccolato
e la tosse, quella maniera della luce di far tremare le cose,
gli andirivieni, il pavimento stordito dallo stare male. Continua a leggere

Seamus Heaney, “Field Work”

Seamus Heaney, ph. Luigia Sorrentino – Roma, maggio 2013

RECENSIONE DI ALBERTO FRACCACRETA

 

L’espressione field work nella sua lingua originaria non evoca solo l’ambito georgico, ma sembra presupporre la ricerca scientifica «sul campo». Nel 1979 Seamus Heaney, dopo il graffio politico e metafisico di North (1975), manda alle stampe la sua quinta silloge (l’ultima in ordine di tempo pubblicata in Italia, ancora grazie alla cura generosa di Marco Sonzogni e Leonardo Guzzo), che segna un passaggio inderogabile all’interno della vicenda poetica ed esistenziale dell’autore irlandese: registra cioè con i dieci Sonetti di Glanmore, cuore pulsante dell’opera, il travagliato trasferimento (di un «émigré interno») da Belfast a Dublino, dall’Ulster all’Eire. Il «lavoro sul campo» si rende dunque tanto più necessario quanto più urgente: Heaney sente di dover conciliare la contemplazione all’impegno civile con un approccio lirico orientato sulle cose, prone e sicure, nel momento in cui il suo paese sta soffrendo una lacerante lotta intestina (sintomatica è la traduzione dell’episodio dantesco di Ugolino, posta in chiusura di libro).

Quali sono i temi principali della raccolta? «L’altezza della poesia — commenta Guzzo nell’introduzione —, la malinconia del ricordo, la memoria personale e familiare, l’amore carnale e spirituale (espresso con le metafore naturali, splendide e inconsuete, della lontra e della puzzola)». Così il sapore sapido delle ostriche che risveglia «al verbo, al puro verbo», l’isola «piena di rumori sconsolati», l’omphalos «invisibile» e «inviolato», il sorso d’acqua che ingiunge di ricordarsi del donatore, la giovane Musa gutturale («mentre la sua voce fluiva e sguazzava nel riso / mi sentivo un vecchio luccio ornato di piaghe / che sogna di nuotare lambendo vita dalla bocca tenera») sono segnali lampeggianti non della rivendicazione di un’unità algida e ideologica, bensì di un senso di appartenenza al reale, vischioso, terrigno.

Il tradurre — attività che impegna Heaney in quegli anni di profondo cambiamento e di un (problematico) ritiro-clausura nel mestiere di poeta — diviene lo strumento epistemologico a presa diretta con cui agguantare la sfuggente essenza del mondo, effettuare il transito di umanità («Vocali arate dentro altre: terra aperta. / Il febbraio più mite in vent’anni / è bande di foschia sopra i solchi, un non-suono profondo / vulnerabile al distante gargarismo dei trattori»). Anche l’amore coniugale, fatto di momenti di gaudio onirico («Tutto quanto ho di te è un bosco di betulle tra i lampi») e comprensibili incomprensioni («Lei calerebbe tutti quanti i poeti dentro il nono cerchio / e li aggancerebbe, denti nei crani, le lingue a lambire i cervelli»), è il luogo in cui testare le drenate e le arature della vanga — da sempre un Leitmotiv heaniano —, nel barbaglio lucido dell’istante («tregua sulle nostre roride facce sognanti») e nell’estatico confondimento di due nature in una («il terreno / germoglia e ti tinge / il dorso della mano come una voglia — / mia unica terra d’ombra, sei macchiata, macchiata alla perfezione»). Continua a leggere

Vittorino Curci, “La ferita e l’obbedienza”

Vittorino Curci

“Credo che da sempre il principale compito affidato al poeta sia quello di liberare le parole per rigenerare il linguaggio. In questo nostro tempo però il poeta si fa carico di un altro compito, non meno importante: quello di verificare se siamo ancora vivi.”

Vittorino Curci

ESTRATTI

 

Vittorino Curci, “La ferita e l’obbedienza” (Prima edizione 2008, I libri di Icaro).
Dalla seconda edizione ampliata dall’autore sono estrapolati  gli ESTRATTI qui pubblicati, (2017 Spagine).
Spagine è un periodico di informazione culturale dell’Associazione Fondo Verri presidio del libro di Lecce.

 

1. I testi necessari

De quoi souffres-tu?
De l’irréel intact dans le réel dévasté.

René Char

Voglio raccontare queste figure. Non posso ignorarle. Sono figure eloquenti, compatte, intrattabili.
La verità della poesia è nel suo farsi confine e legge della sua stessa inutilità.
Il destino e gli sguardi si sono incrociati. Le ferite cantano.
Il poeta è colui che per debolezza o necessità alza lo sguardo, e così facendo si accorge di non avere più le vertigini.

Non sto qui con la faccia da scemo di chi vive in un mondo bellissimo che vorrebbe spiegare agli altri.
Il pianeta è ammalato e altro non ci è dato conoscere che il punto in cui ci troviamo.
Tra le cose più giuste da fare, quell’immergersi e imparare di cui parla Benn nel primo verso di Aprèslude.

Di che soffri?
Dell’irreale intatto dentro il reale devastato.

Parole condotte alla luce, battute sul corpo. I frantumi di un vaso che nessuno può mettere insieme.

“Faccùlo faccùlo” gridò più volte il ragazzo ritenendo che un solo “faccùlo” non rendesse a sufficienza l’idea di quanto fosse arrabbiato.

La stanchezza dei nostri conflitti è diversa. L’irreale ci è scoppiato addosso.
Noi siamo lanciatori di coltelli.

Con Rimbaud e Mallarmé la poesia moderna ha avviato un processo spirituale che non ha precedenti nella storia dell’umanità, una vera e propria rivoluzione incentrata sul linguaggio a cui, per la prima volta, viene data la possibilità di parlare apertamente di se stesso.
Le parole infatti non sono del poeta. Anche se egli arriva al punto di inventarle, esse di fatto non gli appartengono. E allora, se le parole non sono del poeta, di chi sono? Della comunità linguistica cui il poeta appartiene? Oppure dell’umanità nella sua interezza?
Se queste domande hanno senso – e se hanno un senso, indicano una direzione nella quale cercare – io dalla mia esperienza ho imparato che nella vita di ogni giorno si usano le parole per dire qualcosa.

In poesia invece sono le parole che vogliono dire qualcosa. Scrivere poesia perciò vuol dire essenzialmente ascoltare.

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Le poesie in prosa del danese Carsten René Nielsen

Carsten René Nielsen

NOTA DI LETTURA DI DAVIDE CORTESE
(Genova, 2021)

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Leggendo le prose di Quarantuno oggetti di Carsten René Nielsen (Taut, 2021) si ha la certezza di avere sotto al naso uno poeta fiducioso: fiducia verso la propria scrittura, verso la «metafora» che ne comprende l’insieme e anche verso i propri lettori. Fiducioso, sì, però nei confronti di chi scivolerà fra i suoi testi la fiducia non sembra essere riposta nella capacità di un approccio corretto, quanto di seguire in maniera ligia i suggerimenti che l’autore dissemina. Le prose, infatti, sono scritte a testimonianza di se stesso e con un gran da fare di ornamento. La pratica è questa: a partire da un oggetto («cannuccia», «frigorifero», «motosega» ecc.) si costruiscono scene – quasi tutte isometre, suggerendo così l’idea di serie – che ospitano o si deformano fino ad assumere aspetti meccanicamente stranianti.

La scrittura di Nielsen, già pubblicato in Italia nel 2014 per EDB, era stata indicata come un «surrealismo nordico» e, in effetti, scorrendo questi Quarantuno oggetti, non sono poche le volte in cui i poeti del movimento si affacciano. Ma l’autore avverte: le sue prose non hanno «niente a che vedere col surrealismo»; e c’è da credergli: anche se l’ostinata stravaganza dei testi spinge ogni volta a chiedersi il perché di cosa si va leggendo, quella si compie nell’esatto contrario: non indica un sovrappiù soggiacente agli oggetti e nemmeno qualcosa che occhieggia sopito.

Le prose suonano a vuoto. Nessun rimando. Ancora, in un altro testo, Nielsen poggia una mano sulla spalla del lettore e dice (equiparando la «metafora», la sua, a un «tappeto»): «Gli avevo spiegato che le metafore sono, discutibilmente, inevitabili ma che ciò non significa che debba sollevare un angolo per vedere se sia stato spazzato qualcosa lì sotto […] puoi sollevare un angolo […] sotto la metafora c’è solo il pavimento».

L’aspetto generale del libro e l’intento dell’autore sembra essere quello di una provocazione, raggirando il lettore fino al punto in cui tirerà il libro contro al muro: costretto a sfilare davanti a un autoritratto in forma di «poeta» diffuso e rimandato; il prossimo «quadro», la prossima prosa sarà quella decisiva.

Nielsen non lascia nemmeno la costernazione di dover apprendere ciò. Previdente anticipa e suggerisce la più giusta reazione: «per tutto il giorno sta seduto a guardarmi con il suo stanco sguardo malinconico. Sono certo che mi odia. Anch’io farei lo stesso. Sono io, dopotutto, che gli ho dato questo lavoro».

 

ESTRATTI

 

CALZINI

 

Salgo sul podio, avendo questa volta scelto di illustrare scene dalla Bibbia con due marionette fatte con vecchi calzini. È un fiasco tremendo. Vengo chiamato pervertito e blasfemo. Non solo i cardinali, ma anche il papa, usano le peggiori maledizioni contro di me. C’è un bel po’ di distanza tra me e gli spettatori furiosi, ma non riesco a evitare di essere colpito da schizzi di sputo. Rientrato in camera mi faccio la doccia e capisco all’istante come avrei dovuto farlo. Gli arabeschi delle frasi girano lentamente nel mio cranio come giostrine illuminate dai riflettori. Più tardi, mentre la Guardia svizzera fa le sue ronde notturne, sto seduto sorridente sotto il firmamento del gigantesco letto a baldacchino e ricomincio da capo: «Che luce sia», dice il calzino. Continua a leggere

Rilke, “Lettere a un giovane poeta”

Rainer Maria Rilke

NOTA DI LETTURA DI ALBERTO FRACCACRETA

Nell’autunno del 1902 il giovane austriaco Franz Xaver Kappus viene a sapere dal sacerdote Horaček che l’emergente poeta Rainer Maria Rilke aveva frequentato la scuola militare di Sankt-Pölten, nella quale il sacerdote era stato insegnante di religione.

Dall’Accademia militare di Wiener Neustadt dove Franz Xaver Kappus legge furiosamente i libri rilkiani, il giovane decide di contattare l’autore appena ventisettenne.

Incomincia una corrispondenza epistolare — dal tardo autunno 1902 al 5 gennaio 1909 (la prima e l’ultima sono di Kappus, dieci in tutto le missive del praghese) — che è in realtà la chiarificazione di un magistero poetico tra i più importanti e vivi del Novecento.

Le Lettere a un giovane poeta, pubblicate nel 1929, tre anni dopo la morte di Rilke, sono ora ristampate dal Saggiatore con una bella prefazione di Valerio Magrelli, che chiosa: «Siamo nel cuore della poetica di Rilke, per cui l’amore e la morte sono “compiti, che noi portiamo nascosti e trasmettiamo ad altri senza aprirli”. Nel laborioso movimento della trasformazione in cui il nuovo entra in noi come “un elemento estraneo” o un “ospite”, occorre sempre attenersi al “difficile”, e giungere ad appropriarsene dopo un sofferto itinerario esistenziale».

Kappus apre il suo cuore all’unico possibile amico, al quale riconosce la dignità di mentore, e Rilke sorprendentemente fa lo stesso: non risparmia nulla di sé, delle sue convinzioni letterarie, delle sue preferenze artistiche. Non lesina raccomandazioni, ammonimenti, lui che a quella giovanissima età viaggia per l’Italia e ha già pubblicato una quindicina di opere (!).

 

Mirabile la prima lettera, datata al 17 febbraio 1903, in cui Rilke risponde alla richiesta di un schietto giudizio sulle poesie di Kappus: «Mi chiede se i suoi versi sono buoni. Lo chiede a me. Prima lo ha chiesto ad altri. Li manda alle riviste. Li confronta con altre poesie e si inquieta se certe redazioni respingono i suoi tentativi. Ora — giacché mi ha consentito di darle consigli — la prego di abbandonare tutto questo. Lei guarda all’esterno, cosa che, più di ogni altra, ora non dovrebbe fare. Nessuno può darle consigli e aiuto, nessuno. C’è un unico mezzo. Si immerga dentro di sé. Indaghi la ragione che le impone di scrivere; verifichi se affonda le sue radici nell’intimo del suo cuore, confessi a sé stesso se le toccherebbe morire qualora le venisse negato di scrivere. Soprattutto questo: si chieda, nell’ora più quieta della notte: devo scrivere?». Continua a leggere

Addio a Giancarlo Majorino

Giancarlo Majorino

NOTA DI MAURIZIO CUCCHI

Ho avuto la fortuna di incontrare Giancarlo Majorino quando ero ancora poco più che un ragazzo, e di considerarlo da subito uno dei maestri a cui avere il privilegio di rivolgermi.

In lui è stata decisiva, e per certi aspetti inimitabile, la forza del pensiero complesso e della sua capacità di calarlo nei dettagli espressivi e innovativi della sua forma poetica. Un pensiero, oltre tutto, quanto mai vivo nella quotidianità dell’esperienza, e attivo nella identità di una parola lontana da ogni possibile condizionamento letterario, ma al contrario proveniente – nella piena consapevolezza della sua scrittura – dai termini concreti del reale vissuto.

Il suo lavoro poetico è stato “sperimentale” ben oltre le linee di un’avanguardia – quella dei suoi più o meno coetanei – costituitasi in gruppo, introducendo termini del rapporto con la contemporaneità e con la parola ricchi di interne tensioni, tensioni acute nella visione critica del contesto in cui lui stesso sapeva perfettamente di essere immerso, eppure sempre mosse da un irrinunciabile gusto naturale per la vita, per la sua incomparabile e in fondo misteriosa sostanza, capace di produrre insieme meraviglie e orrori.

Ciao, Giancarlo, ti ringrazio per avermi ascoltato e non cesserò, finché sarò in vita, di esserti fedele e riconoscente amico.

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E’ morto Giancarlo Majorino

Giancarlo Majorino

Lutto nel mondo della poesia. Se ne va Giancarlo Majorino, nato a Milano, il 7 aprile 1928. Poeta, insegnante e drammaturgo italiano è scomparso stamattina, nella sua città d’origine, Milano, all’età di 93 anni. E’ stato Presidente della Casa della Poesia di Milano, dal 2005, anno della sua costituzione, a oggi.

L’ultimo suo libro è stato pubblicato nel 2018, La gioia di vivere (Mondadori, Collana Lo Specchio) dalla quale è tratta la poesia che qui vi proponiamo.
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davvero bell chiaro troppo
di non so quanto
e soltanto chi sta sotto
potrà comprendere rivivere
sia Gesù sia Marx l’han detto

e poesie non notizie (dopo, dopo)
nonché’ l cervello di uno dei ceti medi
come qui può cominciare a scrivere
chi sta sopra non può dirigere niente
chi sta sotto potrebbe ma è assai difficile

ma poi quando un uomo grida aiuto
un uomo una donna una vecchia un bimbo
è come se il mondo si fermasse
case mute zitte finestre chiuse
tutto ciò parla o o urla o tace sale s’agita

 

Da: La gioia di vivere (Mondadori, 2018) Continua a leggere

L’ “Odissea” di Kazantzakis, evento on-line

Giovedì 20 maggio 2021 – 19:30

L’ “Odissea” di Kazantzakis – memory lane + anteprima (80′)

LINK PER DIRETTA VIDEO: https://youtu.be/MS3L729RQW0

La serata di oggi, 20 maggio 2021, organizzata dalla Casa della Poesia di Milano è a cura di Milo De Angelis.
Voce recitante: Viviana Nicodemo.
Sarà presente Nicola Crocetti.

In occasione della sua uscita in volume (Crocetti, 2020), riproponiamo la serata del 15 maggio del 2019, in cui Milo De Angelis presentava l’”Odissea” di Nikos Kazantzakis nella traduzione di Nicola Crocetti, che ha lavorato per molti anni a questo magnifico poema dello scrittore greco (autore tra l’altro di “Zorba il greco”) e ora finalmente è giunto al termine di questa impresa titanica.

L’”Odissea” di Kazantzakis, pubblicata per la prima volta nel 1938 e composta di 24 canti – come le lettere dell’alfabeto greco e come i poemi omerici – è ricchissima di invenzioni linguistiche e neologismi che hanno fatto disperare tutti i traduttori del mondo. Ma in compenso ci immerge in una scena epica grandiosa, rinnovando fin dalla radice il suo protagonista, Ulisse: tornato a Itaca e annoiato dalla monotona atmosfera del luogo, egli riprende il suo infinito viaggio e cerca un nuovo significato per la sua vita e per la nostra.
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Luisa Delle Vedove, “Nella consuetudine del tempo”

LUISA DELLE VEDOVE

I

un silenzio terso
muove dalle pietre
memorie e solitudini,
qui nel greto il vento ha suoni erosi
solo gli animali docili alle tane
si tengono stretti
al senso della pioggia

II

non posso dire delle foglie
dei giri ampi prima del cadere
di quel secco lieve sull’asfalto,
ho visto un ramo tremare
giovane nelle foglie
la luce metterlo in disparte,
come dire “è l’autunno”
ai gridi alti degli uccelli
anche se il morire
è in qualcosa di grande?

III

una nebbia come un’insonnia
si ripete ossessiva,
dico – taci, non chiamare altre voci!
ma la terra
– l’ora che cresce –
ha i passi sotterranei di tanti;
tra i rami
senza carne
si addensa un alito
dov’è lo sconosciuto? –
cosa vuole dirmi
con quell’alito
che si asciuga così in fretta?

IV

brulica ancora il giorno
tra le lontane case,
la sera nel dopo si posa
e il silenzio alla sua ultima riva
ne divide piccolo
e grande il mare,
dove picchi di roccia
aspettano nudi i venti

V

in questa notte disabitata
– in questo luogo –
guardo le luci accese:
non dureranno molto,
il buio qui è più denso
e sulla riva più stretta del giorno
non so quanto di sabbia rimane

VI

ora che l’invernale attanaglia
i fusti nudi dei pioppi,
nel petto la terra
con un gemito si dissoda
nelle braccia profondamente il fiume,
qui potrei morire
e non sarebbe violenza,
ma un dissolversi lento in polvere
e suono

VII

l’aria è ampia
piena di stelle,
le ultime mani tremule
sulle betulle
e il vento il vento…

– siamo qualche movimento verso il dopo
e già si muore
qualche movimento
e appena appena un poco –

oh, immensa notte
c’è come un pulsare d’eterno
in questo tacere delle cose
un’attitudine
e il tuo pulsare
ha salde tenebre

e dirti non basta

immensa e notte

immesa e notte!

 

 

 

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Raymond Carver (1938-1988)

Raymond Carver

Ultimo frammento

E hai ottenuto quello che
volevi da questa vita, nonostante tutto?
Sì.
E cos’è che volevi?
Potermi dire amato, sentirmi
amato sulla terra.

Raymond Carver

Quando ha scritto questa poesia, Raymond Carver aveva quarantanove anni, (nel 1987) era malato di cancro e sapeva che sarebbe morto in tempi brevissimi. “Ultimo frammento” è dunque una delle ultime poesie che Raymond Carver ha scritto nella sua vita.

Fu pubblicata postuma nella raccolta “Orientarsi con le stelle”.

E’ diventato l’epitaffio di uno dei maggiori narratori statunitensi del XXI secolo.

IL VOLUME

Antonio Spadaro nel suo nuovo volume “La scrittura di Raymond Carver, (Edizioni Ares, 2020) scrive: “Nella poesia di Carver troviamo la radice profonda della sua ispirazione letteraria, una poesia fortemente concentrata sul quotidiano, di cui, anche attraverso un linguaggio ordinario, riesce a esprimere efficacemente le tensioni fondamentali: un certo spaesamento iniziale, la paura della morte, il bisogno di essere amato, di essere salvato, di comunicare in modo sincero.” Continua a leggere

Zeichen, il poeta che orienta il pensiero

Valentino Zeichen

Il poeta

Presumibilmente,
sembro un poeta di elevata rappresentanza
sebbene la mia insufficienza cardiaca
ha per virtù medica il libro «cuore».
Abito appena sopra il livello del mare
mentre la salute, la purezza, la ricchezza
e gli sport invernali
stazionano oltre i mille metri.
Perciò mi ossigeno respirando l’aria
dei paradisi alpini
così arditamente fotografati
dagli scalatori sociali
nonostante la pericolosità dei dislivelli.

A Evelina, mia madre 

Dove saranno finiti
la veduta marina,
il secchiello e la paletta,
e i granelli di sabbia
che l’istantaneo prodigio
tramutò in attimi fuggenti,
travisandoli dal nulla
in un altro nulla?
Dove sarà finito l’ovale
di mia madre
che fu il suo volto e
che il tempo ha reso medaglia?
Perché non mi sfiora più
con le sue labbra,
dove sarà volato quel soffio
che raffreddava la
mia minestrina?
Dove le impronte di quel
lesto e disordinato
sparire delle cose?
In quale prigione di numeri
è rinchiuso il tempo?
Rispondimi! Dolore sapiente,
autorità senza voce.

La Poetica

Nel tagliarmi le unghie dei piedi
il pensiero corre per analogia
alla forma della poesia;
questa pratica mi evoca
la fine perizia tecnica
di scorciare i versi cadenti;
limare le punte acuminate,
arrotondare gli angoli sonori
agli aggettivi stridenti.
È bene tenere le unghie corte
lo stesso vale anche per i versi;
la poesia ne guadagna in igiene
e il poeta trova una nuova Calliope
a cui ispirarsi: la musa podologa.

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Fabio Scotto, “A. L’abbandono”

Fabio Scotto

DALLA PREFAZIONE
DI STEFANO CARRAI

La poesia d’amore è la più difficile di tutte perché il rischio di scivolare nello stile da canzonetta o da bacio Perugina è sempre in agguato. Perciò questo nuovo libro di poesia di Fabio Scotto è sorprendente, perché la ferita straziante prodotta nell’anima dall’abbandono da parte della donna amata stilla dolore in gocce di poesia pura. Si potrebbe dire che esso rappresenta il versante disforico della raccolta In amore pubblicata qualche anno fa dallo stesso autore, ma bisogna avvertire subito che il testo ha una completa autonomia. Anzi, più che di una aggregazione di liriche, si tratta di un libro vero e proprio, strutturato come un lungo prologo costituito da una lettera in versi d’ispirazione dichiaratamente majakovskiana, seguito da una serie di più o meno brevi frammenti lirici, che penetrano nell’animo come una sequenza di punte tanto luminose quanto lancinanti.

 

Sai cos’è un volto senza più dentro te?
Una cornice vuota, l’assenza di ogni forma.
Il tempo si è fermato in quell’istante di gelo.
Hai voltato le spalle e sei uscita senza dire nulla.
Incredulo, in silenzio, ho fissato i passi che facevi
verso la macchina; ad ogni passo un tonfo,
una sincope, un arresto del cuore.

Non serve ricostruire, non voglio scrivere
la cronaca di uno sfacelo.
Voglio dire quel che resta
quando tutto è distrutto, quella polvere sul vuoto,
tracce azzurre di ciglia.
Mi guardo dentro
c’è una casa diroccata dove giocammo,
ed era infanzia.
La tua voce bambina mi cullava ogni notte
eri sorriso, ascolto, abbraccio,
riparo da ogni pioggia improvvisa,
caldo cuore, capanna.
Sentivo questo tepore avvolgente
contro tutto il niente che credevo d’essere,
ignaro della minaccia dell’abisso; ora la vedo,
crocifisso a queste otto e un quarto di nebbia e buio,
oltre i vetri.

Ottobre. Dove sei adesso?
Con chi parli ora? Che mani stringi di notte
quando tremi per il ventre contratto dal gonfiore?
A chi pensi dopo me, se più a me non pensi,
i piedi freddi tra i lenzuoli stesi come sudari?
Sai cos’è stringere un cuscino come fosse te?
Sai quando le parole respinte ti restano in gola
come rospi a piagarti l’ugola?
Sai l’insonnia feroce, fissare per settimane i muri
con gli occhi sbarrati fino all’alba?
Conosci i dieci nomi del dolore?
Attesa
Ansia
Ancòra
Adesso
Assenza
Atroce
Averti
Allarme
Arreso
Alessandra.
Neanche una sigaretta per sparire dentro il fumo
ormai sono nessuno
non ho più né corpo, né nome, né voce
respiro per procura, benevola, la natura
mi ha concesso momentanea estradizione
Vivo fuori di me, fisso il me che con te sono stato
qualcosa l’ha guastato per sempre
una carie ovunque ormai lo mina
fin dentro le ossa.

Cosa è stato?
Non bastavano due mani ad abbracciarti?
Non vedevi la mia gioia se arrivavi?
Eri tutto per me, la biondezza del mondo,
luce azzurra degli occhi, il calore di un amore
che si dice, ed è carne generosa,
seno turgido che accoglie, umidità di labbra,
gemiti da far tremare le pareti della stanza,
tenera carezza su ogni pelle salvata
dal martirio dell’assenza,
parola ogni sera prima di dormire,
il sempre, l’ora, il non-finire,
se nevica e guardiamo fuori
al riparo da ogni ghiaccio, da ogni insidia.
Mi proteggevi, ti proteggevo. Era noi due.

L’ho visto entrare quella sera a cena, a Bassano,
mentre parlavo con la collega polacca.
Sedersi al nostro tavolo,
tu accanto a me, già più con me.
La sua scenetta plurilingue da piazzista-predatore
per tender l’esca, come a ogni congresso
(a volte funziona, c’è chi abbocca:
recitare Carducci, sorrisucci…).
Vi ho visti a un metro da me
parlarvi fitto all’orecchio
come già io non ci fossi più.
Poi i passi verso l’uscita,
il gioco dei contatti, l’indomani.
Dicevi e non dicevi, ma ascoltavi
qualcosa che minava il nostro bene.
Così è stato, il resto lo sappiamo. Continua a leggere