Alberto Bertoni, “Quasi un’autofiction”

Alberto Bertoni Castelnuovo Rangone, Poesia Festival 6 marzo 2022AUTORITRATTO
da un’idea di Luigia Sorrentino
a cura di Fabrizio Fantoni

°°°°

di Alberto Bertoni

 Volevo fare una narrazione storica, sì, ma che cogliesse soprattutto il passaggio dalla vita senza storia di tutte le infanzie al momento in cui il ragazzo comincia a diventare sociale, a capire se stesso. […] Ho cercato proprio di cogliere il primo palpitare dell’embrione sociale: per questo, forse, si potrebbe dire che il mio racconto è ancor più “viscerale” che storico. […] È una legge ferma, questa: che anche le viscere sono un mondo, che anche l’infinitamente piccolo ha tutte le caratteristiche del mondo più vasto che lo contiene.

(Giorgio Bassani)

Infanzia modenese   

 

Da un po’ di tempo, vado a letto presto. Tuttavia non ricordo i miei sogni e continuerò a non ricordarmeli. So che è un segno di insensibilità: ma, a contrappeso, ben fissati nella memoria volontaria, conservo tre ricordi vivi, che forse equivalgono a sogni, lontanissimi nel tempo.

Il primo è una scena a luci basse, nel tinello della mia casa di via Salvioli 21, prima periferia sud di Modena, dirimpetto alla linea dell’Appennino, io sul seggiolone, mia nonna che mi prepara una minestra succulenta, con un formaggino dentro, una pappa da bambino, che avevo molta voglia di mangiare, essendo stato da subito (ed essendo tuttora) un gran goloso. A un certo punto mia nonna si avvicina a questa minestrina, proprio quando mi appresto a divorarla, con una lattina verde scuro e un cucchiaio nell’altra mano, pieno di un liquido gialloverdognolo (era l’olio Sasso) con il quale vorrebbe rendere ancora più gustoso e nutriente il mio piatto. Io mi ricordo nitidamente – questo dipende senz’altro dal montaggio in tempi successivi di narrazioni diverse del ricordo – che di testa do un colpo al cucchiaio e lo faccio volare. Negli anni ho anche fatto riecheggiare nel mio udito interiore la frase che mia nonna – una dialettofona spontanea – deve aver pronunciato nella circostanza: “Al ragazȏl a-n gh’ piès menga l’òli”, cioè “Al bambino non piace l’olio”. Da allora, infatti, ho mangiato solo burro e strutto perché l’olio d’oliva, in tutte le sue forme ma soprattutto quando soffrigge con la cipolla, mi trasmette istintivamente e immediatamente l’impeto del vomito. A restare indelebile, di questo possibile sogno o lontanissimo flash, è la percezione tuttora molto nitida di quanto erano fioche e basse le luci nel tinello piccolissimo borghese che abitavamo, mentre sempre impagabile – a tutte le ore del giorno, in tutte le stagioni dell’anno – ho trovato e trovo la luce di quello specifico paesaggio emiliano, fra pianura e prima collina: pareggiata solo dai raggi obliqui di un’unica ora vespertina, in Provenza o California. Quella del mio protoricordo doveva essere una sera del 1957, al massimo del 1958, anni di pieno boom economico, a sentire i sociologi. Ricordo questo semibuio, che tuttora mi dà fastidio, come del resto il fioco e il catacombale, a meno che non si tratti di candele in una chiesa romanica: e preferisco le luci potenti delle partite di calcio o delle corse di cavalli in notturna, magari alogene nonostante la crisi energetica, perché le luci basse mi costringono a intrecciare infanzia e cimitero.

Il secondo ricordo, o sogno (in senso cronologico è forse il primo ricordo della mia vita, ma è molto più sfocato dell’altro), consiste nella linea blu del mare a Marina di Carrara, l’emozione della spiaggia, della sabbia che brucia sotto i piedi, è l’estate del ’56, ho quindici o sedici mesi. Un po’ cammino già (a muovermi e a biascicare sillabe sono un soggetto precoce) e mi ricordo lo slancio emotivo di quella visione primaria, il mio staccarmi dalle mani dei miei genitori (mio padre a destra, mia madre a sinistra) e lo scatto verso questa linea blu per tuffarmici dentro. Naturalmente mi acchiappano prima che io riesca a toccare l’acqua, ma dopo ho rivissuto altre volte lo stesso “convulso” – un sentimento radicato in mia madre – di quella spinta istintiva verso la riga scurissima del mare, contro la luce abbacinante dello spazio attorno. Sarà per questo che mi piacciono molto i quadri che sanno rappresentare in modo incisivo gli orizzonti: ma alla fin fine, non mi piace affatto tuffarmi nel mare senza che nessuno mi prenda al volo un attimo prima dell’impatto, di quel brivido di gelo che dentro di me equiparo da sempre alla morte.

Il terzo ricordo è sul balcone di casa ed è legato a un senso travolgente e spaventoso di vertigini: ne soffro tuttora, al punto che, modenese purosangue, non sono mai salito sulla Ghirlandina per paura di dovere, potere o volere sporgermi da un’altezza tanto estrema: che poi sono solo 86 metri, cioè nulla, a paragone dei grattacieli che poi avrei contemplato dal basso, attanagliato da un senso di vertigine non inferiore a quello che avrei provato raggiungendone la cima, di Manhattan, di Chicago o di Tokyo… A ogni modo, mi rivedo su questo balcone al terzo piano, attratto e respinto dal vuoto, mentre calcio un pallone rosso, poi lo prendo in mano, lo calcio ancora contro la ringhiera, quasi in un caleidoscopio spaventoso, nel rutilare di questo rosso accoppiato alla sensazione e alla tentazione suicida della profondità e dell’abisso che sono in agguato lì, come i puma sui rami, appena oltre la rete contro la quale scaglio il mio prezioso pallone. Queste sono, di fatto, le tre scene primarie che stanno tuttora alla base del mio immaginario.

 

Gioie, dolori, perplessità

 

A loro si affiancano le prime gioie: certi doni di Natale, innanzi tutto. Ci sto ancora sfrecciando sopra, adesso e qui, sulla prima bicicletta con le ruotine quando, lungo l’ampio corridoio di casa mia, scorrazzo su e giù per l’appartamento; o quando calcio il mio primo pallone di cuoio regolare contro l’armadio a muro che fa da porta, con l’atto definitivo e l’esito devastante che ovviamente m’impedisce di ripetere il gesto oltre la prima e la seconda volta: e così di diventare un calciatore anche solo decente. Poi mi ricordo un paio di guantoni da boxe che mi procurano una gioia pura, benché adesso la boxe mi risulti fastidiosa. E quindi la mia gioia pura coincide con l’attesa (che, come tutte le vere attese, mi sembra infinita) dei doni di Natale verso il tardo, tardissimo pomeriggio della vigilia, quando i nonni mi portano in giro con qualche scusa, così che mio padre e mia madre possano preparare i pacchi sotto l’albero. Questa è la gioia pura, intanto: altre ne seguiranno, però appena più contaminate dalla consapevolezza intellettuale e dalla capacità di fare architettura dell’attimo presente.

Ed eccola qui, qualcuna di queste altre. In una fase molto precoce, i primi dischi dei Beatles. Parlo ancora della scuola elementare (con l’Università l’unica bella e davvero formativa della mia vita), dove ho la fortuna di avere un compagno di classe, Massimo Mati, il cui padre vende dischi e quindi compro da lui – scontati – i 45 giri dei Beatles in tempo reale, cominciando con Please please me e Twist and shout verso la fine del ’63, a 8 anni: canzoni ma soprattutto ritmi (le parole ancora incomprensibili: e insomma la mia prima lezione di vera poesia!) che ascolto maniacalmente in giro per tutta la casa grazie al “mangiadischi” Philips, che intanto mi son fatto regalare in uno dei miei Natali bambini. Di quel vagabondare mi ricordo l’esperienza di choc, di spiazzamento che infliggo a nonni e genitori, in rapporto alla musica leggera – il melodramma è un’altra storia – che apprezzano loro, fra Claudio Villa e Gianni Morandi, con qualche tiepida tolleranza per Domenico Modugno.

Ma un altro motore di gioia pura sono le prime volte allo stadio a vedere il Modena e poi – più di rado – l’Inter. Il primo bacio – un giorno di gennaio alla Montagnola di Bologna – con la tipa che ho molto amato negli anni dell’università e che in questo quasi mezzo secolo è diventata la mia migliore amica (per un esercizio trasformativo piuttosto raro, nella sfera dell’umano), dopo esser stata un Tu fondamentale per l’evoluzione della mia poesia: e la scoperta, mentre avvicino le labbra alle sue già dischiuse, che lei è identica a Claudia Cardinale come appare, si muove, guarda nella scena più erotica di Vaghe stelle dell’Orsa di Luchino Visconti. E il mio inconscio comincia a interrogarsi su come possa un gay tanto esposto a varcare in modo altrettanto trascinante la soglia erotica del femminile (e a rappresentarla), quando il no di partenza diventa un sì più veloce e rapinoso di un fiume in piena: ne avrei avuto conferma di lì a poche settimane, leggendo il primo volume della Recherche di Proust… Un’altra gioia erotica sarebbe poi coincisa un lustro dopo con l’inizio della storia con Adriana, oggi la mia prima e unica moglie, nel 1981: ma questa è una gioia che ha che fare con la scuola e ne parlo fra un po’.

Poi vengono le gioie legate alle letture, alle scoperte letterarie. Il 23 dicembre del ’74 è il giorno in cui inizia per me l’insegnamento letterario di Ezio Raimondi e ricordo ancora nitidamente la gioia di certe sue lezioni che sento particolarmente riuscite ed empatiche. Come adesso e qui, per esempio (ma è già un giorno d’autunno del ’75), quando Raimondi entra in aula col solito passo dinoccolato, per leggere e commentare alcune ottave del Tasso relative al combattimento di Tancredi e Clorinda, nel XII canto della Gerusalemme liberata. Adesso e qui, nell’attimo preciso in cui si sprigiona per me la gioia della poesia letta all’unisono con la lettera metrica di Tasso a Giovanni della Casa: poesia incandescente di Amore/Morte e riflessione metrica legate insieme a un’altezza siderale. Proprio adesso e qui, quando ccomincio a penetrare nei meccanismi che aprono corpo e intelletto alla poesia: adesso e qui che sento fino alle fibre più riposte e segrete del mio essere che la poesia non è solo tema o solo stile o documento di storia letteraria o tantomeno mero trasporto sentimentale ma che è anche e soprattutto movimento della lettera, musica interiore, canto, fraseggio e ritmo orchestrati in profondità. La poesia è la sua metrica profonda, ispirazione e cognizione dello studioso e dell’insegnante che sarei anni dopo diventato.

E via!, alla fine, abbiamo d’improvviso vent’anni nel cuore di questi Settanta molto ideologici, suicidi e liberi. Io mi abbandono all’istinto, come ho sempre fatto e farò anche in futuro, e scelgo la poesia, la lettura, la passione della conoscenza che ogni atto di lettura davvero responsabile induce, contro l’ideologia pura: sono qui, con qualche amica e amico, sulla soglia di uno degli innumerevoli cortei che partono dalla nostra Via Zamboni, vorremmo e non vorremmo entrarci, eskimi e passamontagna imperano, dominano le tinte scure e le barbe: non ci riesco però, ci provo e non ci riesco a intonare lo slogan dominante “W Marx, W Lenin, W Mao Tse Tung” (con la coppia Castro/Guevara su uno sfondo appena più anarcoide), il mio slogan è il “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo” del Montale 1925, non meno antifascista di questi miei compagni, di studi e di età. Semmai, da quel movimentista (e un po’ situazionista) ingenuo e inconsapevole che sono, di slogan ne preferisco un altro, che riascoltato con le orecchie di oggi suona come un puro flatus vocis, esempio di totale autonomia dei significanti: “Attento Malfatti, faremo un nuovo maggio/ ai tuoi parlamentini: boicottaggio!” Ma chi ricorda più il ministro democristiano della Pubblica Istruzione di allora, Franco Maria Malfatti, pessimo fra i pessimi ministri dell’Istruzione e dell’Università a venire? E soprattutto chi ricorda più quei “parlamentini” che si proponevano d’imbrigliare in istituzioni di rappresentanza studentesca a dir poco cervellotiche la contestazione generale di quegli anni dall’anima già di piombo?  Però questo slogan me lo ricordo ancora molto bene, il lavoro della lettera senza referente si vede che mi è assai più congeniale…

E in contemporanea ecco che vivo le gioie e i dolori di una comprensione non di rado difficoltosa e precaria: quei vertici e quegli immediati sprofondi che si legano a processi conoscitivi sempre più ardui, dunque slegati dall’istinto puro e talvolta molto lenti, molto lentamente delibati e centellinati, quando, per esempio alla fine di un certo libro, mi accorgo che la mia prospettiva è costretta a un salto di qualità e di profondità: e penso alle letture rapinose, ripetute più e più volte, spesso cieche ma di una cecità nutrientissima, di Benjamin, di Foucault, di Tynjanov.

 

Darmi all’ippica

 

In mezzo al tumulto di questo processo formativo, a fare da collante e da denominatore comune domina per me l’esperienza dell’ippica, che è la mia prima, profonda pulsione assieme estetica, esistenziale e conoscitiva, nonché uno dei miei principali strumenti di comprensione e di interpretazione del mondo. E, c’è poco da fare, il mio romanzetto di formazione si è consolidato a partire dal 1970, nella salacorse modenese di via Belle Arti, invece che nell’oratorio della mia parrocchia. Lì ho imparato umanità e nichilismo, generosità ed empietà, oltre ad un’applicazione sistematica della cosiddetta Legge di Murphy: se qualcosa può andare male, certamente ci va. Tuttavia, quando arriva nell’ordine una scommessa trio che tu hai studiato e che, dopo il tuo studio, la corsa ha soddisfatto, beh, quella è una gioia ermeneutica (per introdurre un parolone che ha molto che fare col mio lavoro universitario) molto spiccata.

Per esempio, adesso che è un altro sabato d’inverno, sono di nuovo qui, all’ippodromo del trotto di San Siro, a Milano. La Scala del troppo, come la chiamano conoscitori molto meglio ferrati di me: è il 18 novembre del 1989, fa buio ed è piuttosto freddo, per la stagione. Alla sesta corsa è in programma il Gran Premio delle Nazioni, la più importante classica autunnale del nostro trotto. Sono in lizza alcuni dei più forti cavalli europei, fra i quali un autentico fuoriclasse come l’americano (di nascita) ma oggi scandinavo (di scuderia) Mack Lobell. L’allevamento italiano è difeso da un cavallo in ascesa, ma non ancora consacrato campione, Indro Park, di proprietà triestina, ma in allenamento tra Ferrara e Bologna, per le cure di un padre e di un figlio assai bravi, Giancarlo e Lorenzo Baldi, che lo guida. Non è un pomeriggio particolarmente fortunato, sto perdendo qualche decina di migliaia di lire. A un certo punto, presso uno dei bookmakers dell’ampio parterre del più bel trotter italiano, compare un numerino magico – 8 – accanto al nome di Indro. Perso per perso, estraggo fulmineo dal portafoglio le ultime diecimila lire che posso permettermi di perdere e – all’unisono con uno sparuto gruppo di tifosi – chiamo il nome del cavallo amato e intasco il biglietto con lo scarabocchio del nome e dell’eventuale vincita: ottanta contro dieci. Non sono (né mai sarò) nazionalista, nell’ippica i numeri scaramantici, i nomi amati, i localismi d’ogni credo e natura trascinano quasi sempre nell’abisso: no, ho seguito la carriera di Indro, ne intuisco il potenziale e 8 contro 1 mi sembra una quota grassa e appropriata. Certo, sono abbastanza esperto per sapere anche che i cavalli a quella quota vincono piuttosto di rado, soprattutto nei Gran Premi, dove i valori sono consolidati. Ma un po’ d’occhio clinico ce l’ho e la sgambatura del prode bolognese è stata uno spettacolo: fluida, potente, perfetta d’andatura. Ed eccomi qua, strizzato sulla grande tribuna dell’ippodromo: siamo almeno in diecimila, i cavalli si allineano dietro le ali dell’autostart (la corsa è sui duemila metri, due giri completi di pista) e di colpo scende un silenzio surreale. Mack Lobell, col numero all’esterno di tutti (l’otto, appunto), impiega circa mezzo giro per conquistare il comando e a quel punto rallenta. L’italiano è quarto in corda, in posizione di risparmio, ma completamente chiuso dagli altri cavalli. A quattrocento metri dalla fine Mack scatta imperiosamente, ma così facendo permette a Indro di vedere la luce: Lorenzo (per una volta nella vita) è prontissimo a muovere le redini e il nostro cavallo parte come una schioppettata, rivelandosi anche lui un fuoriclasse. In retta d’arrivo appariglia l’americano e a cento metri dal traguardo passa imperioso, per vincere nettamente.

Io non so cosa sta succedendomi, mi sento lievitare, come se la folla che mi circonda e mi assorbe mi permetta di spiccare il volo: senza sapere come né perché, mi ritrovo in pista a festeggiare, abbraccio questo e quello e di colpo mi colpisce l’afrore del sudore di Indro, il tendersi spaventoso dei suoi muscoli, la profondità ai limiti della sopravvivenza del suo rifiatare, la sua testa grata e intelligente che ringrazia senza il minimo cenno di spavento quei forsennati che lo circondano. E vorrei essere d’Annunzio, cioè lo scrittore italiano che ha capito e descritto meglio di ogni altro la bellezza atletica e leggiadra del cavallo in corsa. Ma non lo sono, ahimè, e al di là della povertà di questo resoconto ripescato dalla memoria più di trent’anni dopo l’evento, ricordo anche che nella calca mi spezzo in due gli occhiali e a Modena ci torno sulla mia Panda 30, al buio e semicieco, con difficoltà e rischi notevoli per la mia incolumità, e però come transumanato in una gioia incontenibile e durevole, che sembra dotare d’un paio d’ali quella macchina modesta, un vero ronzino… E tuttavia che palpito, che trionfo condiviso, che pienezza indelebile del sentimento…

Quando poi – sempre a San Siro – avrei visto il mitico Varenne per la prima volta, nel luglio del ’98 (nella circostanza da cui poi ho ricavato il mio titolo poetico Ho visto perdere Varenne), secondo per mancata fiducia del suo guidatore, mi sarei accorto di avere un campione ancora più grande davanti agli occhi: non toccava letteralmente terra. Quella fu un’emozione pura, come quando nel luglio del ’77 avevo visto i campioni del galoppo ad Ascot, piombare impetuosi a 65 km all’ora in retta d’arrivo: un’impressione estetica e atletica assolutamente straordinaria.

Tornando alle ragioni del mio amore per l’ippica, confesso subito che non è facile comunicare una manìa, tanto più alle persone care. Prima delle altre dominanti, la poesia e i dialoghi col femminile, il vino rosso e l’Inter, per esempio, è per l’appunto sbocciata in me bimbo ancora piccolo questa delle corse al trotto, senza che nessuno dei miei familiari (in particolare mio nonno e mio padre, i responsabili della mia educazione sportiva) abbia fatto qualcosa per trasmettermela. Ogni corsa, un racconto. Si comincia a casa, con la lettura del programma. Ogni nome di cavallo è collocato nel suo contesto: i “colori” di scuderia che difende, i nomi del guidatore e dell’allenatore, la distanza sulla quale si disputa la contesa (al trotto, un miglio o due chilometri), il modo in cui viene data la partenza (autostart o giravolte su se stessi, per le corse a handicap), la cronistoria delle prestazioni precedenti, i rapporti riflessivi e interpretativi che tale cronistoria ingenera, il commento del giornalista e l’elezione dei favoriti. Si hanno insomma a disposizione tutti gli elementi preliminari necessarî a “farsi un’idea”, perché a tale esercizio di filologia del profondo segue poi un’elaborazione tutta individuale, fondata su spirito critico, ragionamento, competenza personale, sensazione impalpabile. Solo all’ippodromo, insomma, oltre che nelle aule universitarie davanti ai miei studenti, continuo a dare il mio meglio e a concentrarmi davvero, proprio per l’identità profonda fra l’esperienza della poesia e quella ippica: un’esperienza diretta di percezione amplificata del mondo e delle parole, dei ritmi e dei suoni necessarî per articolare un pensiero potenziato fino alla visione, da dividere davvero con qualcuno, perso in fondo a uno spazio e a un tempo che non potranno né dovranno mai più coincidere con quelli dell’autobiografia sommaria di chi parla.

Dopo, last but not least, mi sovvengono le occasioni nelle quali ho avuto l’opportunità di ascoltare in viva voce certi grandi maestri di letteratura: una volta Montale, a Firenze nel ’77 senza avere il coraggio di allungargli la mano, dal momento che mi trasmise l’indelebile impressione di essere lì per caso o per sbaglio; un’altra volta, a Modena, un Sereni invece gentilissimo, poco tempo prima che morisse; a Bologna un algido ma impressionante (per dominio dell’atto critico) Genette; a New Haven, grazie al tramite di Paolo Valesio, un pranzo dirimpetto al fascinosissimo e implacabile borbottìo di Harold Bloom; e, ancora a Firenze, una conferenza del grande formalista (e narratore in proprio) Victor Sklovskij, senza capire una parola perché si esibì in russo: ma tono e voce mi permisero invece di capire tutta la sua umanità esperta e coltissima, perché lui che assomigliava all’Hercule Poirot di Agatha Christie serbava in sé e trasmetteva il lampo negli occhi e l’abisso nella voce del Novecento più assoluto, quindi di Majakovskij, Bulgakov e Pasternak, ma anche delle purghe staliniane, della ricerca letteraria condotta in situazioni sociali e politiche terribili com’erano terribili le condizioni nell’Unione Sovietica – ancora stalinista, era il 1976 – di allora. Nel volto di Sklovskij era inciso tutto questo e nello stesso tempo vi si rispecchiava la cultura sperimentale del futurismo e dei formalisti russi, del rapporto col testo che era stato proprio dei lettori e degli interpreti più straordinari di Dostoevskij e di Tolstoj: e non avevo ancora mai sentito il nome di Bachtin…. Quella fu un’emozione potentissima e, comunque, anche oggi l’esperienza di ascoltare una bella poesia dall’autore/autrice che la legga con consapevolezza e passione non trasmette un’energia da poco, perché s’irradia fino alle tue zone più segrete, le tue terre di nessuno, trasportandoti in un altrove di libertà e forza immaginativa pressoché assolute. E allora Baldini e Heaney poco prima di morire, lettori straordinari di Pascoli in qualche aula della mia Alma Mater…

Va da sé, che non c’è osmosi possibile, fra ippica e letteratura: sono due mondi antropologicamente, culturalmente e direi politicamente incommensurabili. Eppure, questa osmosi finisce da sempre per compiersi, nella mia psiche e nella mia quotidiana esperienza di vita, sotto il segno di una tanto inesausta quanto necessaria metamorfosi.

 

Prima l’Inter (e la poesia)

 

Il desiderio e il bisogno di poesia, comunque.  In me incubavano fin dagli anni delle scuole elementari, ma si sono manifestati con forza autonoma e consapevole nel 1967, quando avevo dodici anni, a partire da due impulsi: il primo provocato dall’antologia adottata nella mia classe delle scuole medie inferiori, che era Leggere, edita da Zanichelli, dove venivano riportate poesie di tre poeti ancora vivi, Montale, Ungaretti e Quasimodo. Mi piacque e mi colpì molto l’idea che ci fossero poeti ancora viventi di cui era lecito studiare i testi a scuola: fino ad allora avevo pensato che, se si aveva bisogno di poesia, ci si potesse iscrivere solo a una Dead Poets’ Society. Poiché mia madre era maestra elementare e i miei genitori mi avevano inculcato fin da piccolissimo l’idea che il mio dovere/mestiere era quello scolastico, alla scuola avevo attribuito una funzione piuttosto sacrale, che qualche volta – per colpa prima della matematica e poi, al Ginnasio, del greco – mi procurava incubi, ansie da prestazione e malesseri psicosomatici sparsi. Oggi, naturalmente mi piange il cuore, nel constatare che i miei studenti ventenni di laurea triennale, alle medie superiori hanno letto sì e no qualcosa di Ungaretti e di Montale, due poeti nati nell’Ottocento, e nulla degli autori e delle autrici nati invece nel Novecento, a partire da quelli straordinari degli anni Dieci: Sereni, Caproni, Luzi, Bertolucci.

Tornando alla poesia, di Quasimodo non ricordo granché, non l’ho mai amato tanto, a parte la faccenda dello stare soli sul cuor della terra, feriti da un raggio di sole, prima della subitanea sera. Di Giuseppe Ungaretti ho subito ricordato molto bene, invece, con una punta d’ironia ancora inconsapevole, il

M’illumino
d’immenso

di Mattina, ma ancora più vividamente mi ricordo l’amore, il trasporto immediati per Meriggiare pallido e assorto di Montale. Io prestavo già un’attenzione quasi maniacale al linguaggio (sulle questioni soprattutto dei sinonimi e dei significati multipli di una stessa parola interpellavo continuamente mia madre, fin quando – un bel giorno – lei non ha più saputo rispondermi) e di quella poesia mi sconvolse l’uso ripetuto dei verbi all’infinito. Allora soffrivo di noie frequenti, improvvise e devastanti, soprattutto quando i miei genitori e i miei nonni per i mesi interminabili di luglio e di agosto mi trascinavano a Marina di Carrara, a far vita di spiaggia: siccome sono stato sempre insonne (e dunque non ho mai consumato pennichelle o siestas), il “meriggiare” l’ho vissuto sulla mia pelle e, benché a dodici anni non fossi ancora affetto dal male di vivere, questo meriggiare pallido e assortomi coinvolse moltissimo, tanto da essere anche oggi – quasi mezzo secolo dopo – una delle mie poesie preferite. Evidentemente lo era anche di Montale, visto che su quella poesia ha accreditato la probabile bugia di averla composta addirittura nel ’16, senza che di allora sia mai stata ritrovata una traccia autografa: e ciò può significare soltanto che l’autore stesso attribuisse a Meriggiare una funzione particolare, accreditandola ai suoi vent’anni. Montale, poi, ha agito tanto in profondità, dentro di me che – quando nel 1969 superai l’esame di Terza media con il massimo dei voti, Ottimo – chiesi ai miei genitori due regali: l’edizione integrale degli Ossi di seppia, allora disponibile in quelle bellissime edizioni dello “Specchio” Mondadori che sembravano avvolte in una carta da pacchi; e la “prima volta” all’Ippodromo Arcoveggio di Bologna. In quel caso si sacrificò mio padre che, da dipendente ferrarista e da pioniere pallavolistico del tutto alieno all’ambiente ippico, mi accompagnò una torrida domenica di giugno a tifare per le imprese trottistiche di un prode Ettorone, magistralmente pilotato da un guidatore che si chiamava Luciano Bechicchi, curiosamente coetaneo di mia madre, novembre 1928…

La passione delle poesie lette sfogliando a caso (e senza la guida dell’insegnante) la mia antologia scolastica, un Leggere che mi suonava come imperativo, trovò un corrispettivo esistenziale, il primo vero correlativo oggettivo delle mie angosce adolescenti. Si parlava di uomo occidentale “in crisi”, allora, la filosofia dominante era l’esistenzialismo predicato da Sartre e da Moravia… Ma la mia personale crisi di dodicenne inquieto (che già per l’appunto comprava e “divorava” i dischi dei Beatles ed aveva cominciato a leggere thriller ogni sera prima di provare a dormire) era più prosaicamente motivata da un’infelicità calcistica. Infatti, nel maggio-giugno del ’67 la mia squadra del cuore, l’Inter, aveva perso nel giro di pochi giorni la Coppa dei Campioni in finale col Celtic Glasgow a Lisbona e lo scudetto, sconfitta a Mantova per colpa di una papera clamorosa del suo portiere Sarti, a favore della Juve: io ne subii uno choc molto violento, tanto che fu quella una delle rarissime volte in cui singhiozzai disperatamente in pubblico. In proposito, è curioso il fatto che la grande maggioranza dei poeti più importanti del secondo Novecento sia stata o sia tifosa dell’Inter, da Vittorio Sereni a Giovanni Raboni, da Luciano Erba a Maurizio Cucchi, da Tiziano Rossi a Umberto Fiori, da Giampiero Neri a Fabio Pusterla, da Mario Benedetti a Giancarlo Sissa, da Fabio Scotto ad Andrea Gibellini, da Maria Luisa Vezzali a Marco Sonzogni, così scendendo per li rami…

Ragionandoci su, mi pare in realtà un fatto piuttosto naturale che l’Inter sia la squadra per antonomasia poetica, data l’oggettiva “pazzia” della sua fisionomia calcistica e della sua storia, fra trionfi e abissi, conquiste inaspettate e crolli cocenti, anche se – come ogni poeta che si rispetti in rapporto ai suoi lettori – noi gli arbitri non li abbiamo mai comprati. Quindi, anche la fede nerazzurra indicava una specie di vocazione nascosta o di Edipo anticipato, manifestati la prima volta una domenica sera del ’60, in una sala da pranzo pretenziosa e polverosa di luci ancora bassissime e tutte simili a fiammelle fugaci e tombali, davanti a un notiziario sportivo trasmesso dal televisore appena acquistato, in braccio a mio padre juventino sfegatato, quando – con la perfidia e il candore dei miei cinque anni – gli chiesi: “Papà, qual è la squadra più nemica della Juve?” E lui rispose d’acchito: “L’Inter!”, prima che io con un gran sorriso gli ribattessi: “Allora io sono per l’Inter”: e così fu per sempre. Fra l’altro, a definire meglio l’eroismo edipico della mia scelta, quello non era ancora il tempo dell’Inter campione di tutto allenata da Helenio Herrera (la cui formazione è ancora la più bella delle possibili preghiere laiche: Sarti; Burgnich, Facchetti; Bedin, Guarneri, Picchi; Jair, Mazzola, Domenghini, Suarez, Corso), ma di quella – molto più modesta – di Lindskog e Masiero, Bugatti e Angelillo. Dallo choc delle due tuttora immedicabili sconfitte del ’67, per le quali piansi lacrime caldissime, sia dopo la finale di Lisbona che dopo la partita di Mantova, scaturirono durante l’estate immediatamente successiva i miei primi afflati poetici, in un’atmosfera plumbea, sulla spiaggia di Marina di Carrara, un giorno d’agosto in cui il cielo era così minaccioso che a noi villeggianti di città era stato interdetto il bagno. Così, dopo che alcuni gabbiani si erano avvicinati a riva, chiesi una penna e un pezzo di carta alla stupita proprietaria dello stabilimento balneare dove avevamo cabina e ombrellone, una burbera signora Egizia, perché mi si era affacciato alla mente questo verso, che non voleva più andarsene:

Volano i gabbiani in un volo senza senso

Il primo verso da me concepito! Brutto senza redenzione, va da sé. Sventuratamente la poesia poi continuava e forse finiva anche, ma anni dopo l’ho buttata via e per fortuna non ne ricordo alcun altro passaggio, a parte questo incipit melenso e appunto “senza senso”.

Però mi resi conto che, siccome la poesia la scrivevano dei signori anziani sì, ma nel ’67 tutti ancora vivi e magari raggiungibili al telefono (erano anni in cui si discuteva della teleselezione integrale, poi entrata in vigore nel ‘70: bastava un prefisso per raggiungere qualunque numero attivo sul territorio nazionale) o di persona, forse qualcosa di intimo avrei potuto scriverlo anch’io, avvalendomi di quel meccanismo piuttosto particolare – col suo andare a capo “prima”, in Ungaretti anche “molto prima” – che era il verso, discorso spezzato dentro. Da allora non ho più smesso. Il mio amore per Montale è diventato viscerale, anche se poi ho incontrato e conosciuto tanti altri poeti da amare, su tutti Vittorio Sereni e Giovanni Giudici, lui molto frequentato anche di persona negli ultimi anni del Novecento.

In primo luogo, devo dire che dopo non è stato sempre facile salvaguardare questa attrazione fatale per la poesia, anche per ragioni di appartenenza generazionale e di un’origine radicata a Modena, città antipoetica per antonomasia, nel cui dialetto l’epiteto di “poeta” è quasi automaticamente sinonimo di “matto”. Sì, nell’ultimo anno del Liceo Classico, il mitico professore d’Italiano, Domenico Melli, dedicò un intero sabato che doveva essere destinato al Latino a commentare certe poesiole che gli avevamo passato io, Paolo Garuti (un futuro esegeta biblico e padre domenicano), Leonardo Benassi (un manager dell’abbigliamento) e Carlo Bajada (destino da ingegnere): fu cortese, ma non tanto incoraggiante, anche se – col senno di poi – credo invece che il suo finto distacco intriso d’ironia (di me disse che non sospettava che io potessi essere tanto innamorato!) sia stato fin troppo indulgente. Nell’autunno di quello stesso anno, matricola a Lettere, mi sono accorto subito che il fatto stesso di scrivere poesie non era visto di buon occhio. Per chi scriveva poesie nella Bologna del 1974, se non si voleva essere d’acchito definiti fascisti (quasi sinonimo di “lirici”) c’era quasi un dogma da seguire, quello dei cosiddetti “poeti novissimi”, cioè – per dirla molto brutalmente – conveniva scrivere poesie che non si capissero, prive di referente logico, sintatticamente esplose, linguisticamente sperimentali e dunque semanticamente intransitive. Proprio in quegli anni Settanta veniva infatti celebrandosi il divorzio fra la poesia come produzione e la poesia come ricezione, come lettura: un divorzio di cui la poesia sta ancora pagando – nella cognizione comune ma non solo – conseguenze molto serie.

In quel decennio a dominante politica, ideologica, sociologica, critica, teorica, linguistica, psicoanalitica (sulla scia dei grandi scrittori/pensatori francesi di secondo Novecento, Barthes Foucault Genette Blanchot Althusser Derrida Lacan), la poesia uscì rapidamente dall’orizzonte di acculturamento e di ricezione dei non specializzati e dei non addetti ai lavori. E questo è poi rimasto un difetto spiccato della poesia contemporanea, almeno in Italia, tanto che negli anni Settanta il virtuale “per tutti” proprio della funzione poetica venne trasferito ai cantautori, al punto che ai poeti veri, quelli che la musica alla parola sanno imprimerla dall’interno, attraverso il linguaggio, quella facoltà di parola condivisa, destinata a un ascolto e a una fruizione “sociali”, non è stata più restituita. Comunque, è un dato non contestabile che, in Italia, i cantautori hanno dato il loro meglio proprio in quel decennio, gli anni Settanta del Novecento, componendo testi di canzoni non di rado assimilabili a testi poetici e comunque percorsi da un’energia e da una capacità di rifiuto del banale tutte poetiche: basta pensare a Guccini, Lolli, De Gregori, De André, Dalla, Battiato, Fossati, Vecchioni, Branduardi, Bertoli, Nannini, Bennato, Gaber, Jannacci e qualche altro.

La poesia, più o meno sotterraneamente, non ha però mai smesso di accompagnarmi anche in quegli anni di apprendistato e di formazione. Nel chiuso della mia stanza, a Modena, io continuavo infatti a leggere i miei autori preferiti, magari difficili, talvolta oscuri ma mai incomprensibili, come Montale, come Sereni, come lo stesso Ungaretti o come Giudici, Risi, Caproni, Raboni, scoperti in solitudine su qualche scansia appartata delle librerie che frequentavo, la Feltrinelli a Bologna e Rinascita a Modena. In seguito, ho cominciato ad amare molto i poeti anglosassoni e quelli americani, in particolare gli esponenti della beat generation, arrivandoci attraverso Bob Dylan e i protagonisti musicali della West Coast californiana. E nel 1980 m’imbattei in Ora serrata retinae, il libro sorprendente fino ai limiti dello choc di un coetaneo addirittura un po’ più giovane di me, Valerio Magrelli, con il suo dettato ironico e trasparente, sul piano semantico; e nel poemetto Il disperso, di Maurizio Cucchi, nel quale m’identificai in modo quasi naturale, nonostante che la linearità degli enunciati vi fosse fortemente perturbata, com’era perturbata nei due “Novissimi” che nel mio apprendistato universitario avevo imparato molto presto ad apprezzare (e anche a tentar di imitare), Edoardo Sanguineti per quel libro straordinario – ove Dante e Gozzano davvero si combinano – che è Postkarten, del ’78; e Antonio Porta, che con Passi passaggi ebbe nel 1981 il coraggio e il talento di cambiare completamente fisionomia alla sua radice neoavanguardistica.

In quel periodo, in realtà, si creò una forbice abbastanza abissale nella mia esperienza poetica: proprio nel momento in cui imparavo gli strumenti del mestiere e cominciavo a fare il critico – che è la cosa che tuttora mi riesce meglio – e a diventare anche un critico spero rigoroso grazie alla lezione di Ezio Raimondi, la poesia assumeva per me la dimensione di un vizio privato, che come i vizi veri praticavo soprattutto di notte (allora ero molto più insonne di adesso), e che sentivo come radicalmente estraneo rispetto alla strada letteraria imboccata all’Università. Tanto è vero che proprio la poesia fu la prima vittima della mia naturale reazione, quando nel marzo del ’77 venne ucciso dalla Polizia, a Bologna in via Mascarella, un mio coetaneo compagno di studi, Francesco Lorusso. Ero in giro anch’io quella mattina e tutt’attorno si respirava davvero un clima plumbeo, di assassinio voluto e cercato di un “ribelle” che a quel punto avrebbe pagato per tutti.

Quando, qualche giorno dopo, si sarebbero celebrati i funerali di Lorusso, invece di andare a Bologna a parteciparvi, per reazione presi il cassetto dov’erano contenute tutte le poesie che avevo scritto fino ad allora, quindi anche Volano i gabbiani in un volo senza senso, e le buttai nel cassonetto della spazzatura (allora Modena era una città all’avanguardia, nella raccolta dei rifiuti…): così non posseggo né ricordo più alcun testo poetico composto prima del 12 marzo ’77, senza che la letteratura italiana abbia subìto per questo la minima perdita. Dopo, ho continuato a scrivere in modi diversi, attraverso tappe evolutive non sempre coerenti, fino a oggi, tendendo ad anteporre le scoperte e le inclinazioni del lettore alle esperienze del poeta in prima persona, quasi per un connaturato abito mentale. Ma la poesia è stata sempre una compagna irrinunciabile, una passione bruciante che ha finito per trasformarsi in una questione prima assolutamente privata (poi sempre più pubblica) di sfogo, di riflessione, di rivelazione, di preghiera, di esibizione pubblica, di contatto, di dialogo, di pensiero, di foglio di diario a fine di memoria, che mai nei decenni successivi si è interrotta. Tanto è vero che non passa giornata della mia vita senza che io legga o rilegga una poesia.

Se qualcuno oggi organizza un festival di poesia ben fatto, sicuramente sale, piazze e teatri si riempiono e agli incontri partecipano molte persone. Lo vedo anche attraverso i festival che ho contribuito a organizzare io, come il PoesiaFestival delle Terre dei Castelli attorno a Modena, giunto nel 2019 alla quindicesima edizione, un traguardo tutt’altro che facile; oppure attraverso quelli a cui vengo invitato come critico o come poeta, fra i quali il mio preferito è Pordenonelegge, grazie al lavoro di uno dei primi amici veri e sodali che mi sono fatto nell’ambiente poetico, Gian Mario Villalta. I libri, invece, non si leggono proprio più: la poesia nella sua forma libresca non si compra né si vende né si promuove né si discute (se non entro cerchie ristrette e specializzate), e proprio non le riesce di venire accolta dentro l’orizzonte di acculturamento o di cognizione del lettore medio (posto che ne esista ancora qualcuno). Naturalmente questo “stato dell’arte” porta a un corollario: in funzione di calamite, ai festival vengono invitati a leggere poesie attori e attrici di fama teatrale o televisiva. Quasi mai, però, costoro leggono bene la poesia perché molto spesso la forzano ai timbri e alle intonazioni artificiali della propria voce impostata secondo tecnica da scuola di teatro, oltre che magari al birignao o alla gestualità che ha dato loro un successo di audience, evitando di studiarla e di eseguirla come quella partitura musicale che essa invece è: con l’ovvia conseguenza che, se un poeta va a capo a un certo punto, bisogna introdurre una pausa, il verso va rispettato, mentre gli attori tendono a non farlo. Hanno anche la sfortuna che dopo un modello straordinario come quello di Carmelo Bene, negli ultimi tre decenni del secolo scorso, nessun altro è stato mai più capace di leggere la poesia con quello stesso istrionismo trascinante e con la qualità anche tecnica e tecnologica dei suoi spettacoli, assistiti e illuminati da una competenza di interprete coltissimo e – assieme – straniato, sintetico ed empatico. Certo, esistono eccezioni, soprattutto fra i più giovani e l’eccezione che mi è più cara, per consuetudine e sintonia, è Diana Manea.

A ciò si aggiunga che, fra i poeti e le poetesse della mia generazione, molti leggono bene perché tutti siamo coinvolti nei festival, nelle performance, nelle occasioni di lettura pubblica, con le punte eccezionali di Giuliano Scabia e di Mariangela Gualtieri, che nasce attrice (di teatro di ricerca, col teatro della Valdoca) ma che – da poetessa di qualità – è riuscita a combinare scrittura e performance come oggi in Italia nessun altro. Con storie e lingue poetiche molto diverse, anche Livia Chandra Candiani, Patrizia Cavalli e Vivian Lamarque sono ottime esecutrici (salutate da un successo di ascolto ben diffuso e “popolare”) dei loro testi, peraltro belli anche nella versione scritta. Credo sia parte della formazione di un poeta che attraversa l’attualità saper porgere bene i propri versi attraverso un’efficace lettura ad alta voce, ma non tutti ci riescono.

C’è da dire subito che, quando leggo le poesie di altri/e (purché bravi/e davvero) prevale un istinto di (ri)conoscenza, accompagnato dalla volontà di fare silenzio dentro di me per accogliere meglio l’esperienza verbale altrui. Quando invece scrivo in prima persona, prima si profilano uno spunto, un’ombra, l’impressione fuggevole di essere sul punto di dire o di descrivere o di raccontare qualcosa: e affiorano insomma da chissà dove le prime parole o tracce sonore. In questo caso, m’impegno a ogni costo ad acchiappare l’occasione, il rèfolo mentale, e allora posso trovarmi in qualunque circostanza o situazione, ma cerco in ogni modo di appuntarmi quella iniziale, remotissima eco sul primo supporto in cui m’imbatto, pezzo di carta ma oggi più spesso – anzi, quasi sempre – iPhone o iPad. Però, per cominciare a trarre da queste suggestioni germinali una sequenza o una possibilità di poesia in via di compimento, ho bisogno di essere nel mio antro/studio di Modena o al mio tavolo di lavoro a Bologna. E devo poter immergermi in un silenzio fisico e metafisico, oltre che in una condizione di solitudine. Infatti, l’esito/testo per il quale – dopo che i primi due versi sono venuti quasi come un dono celeste – le parole vaganti tra mente e orecchio a un certo punto si compongono in una tessitura “poetica”, cioè ritmico-musicale e assieme topico-referenziale, dipende da uno stato di concentrazione assoluta.

A quel punto, però, anche il tema della poesia, oltre alla sua dominante intonativa (ironica, assertiva, interrogativa o affermativa che sia), comincia necessariamente a prender corpo e a guidarti nella scrittura. Poi, in un tempo ancora successivo, scrivere l’intera poesia, perché sia almeno una poesia decente, è questione di lavoro, di tecnica artigianale, di tensione inventiva. E per me c’è stato a lungo (ora purtroppo non più) il rapporto fisico con un foglio e una penna stilografica, dopo la prima gittata scritta al telefonino, perché solo dopo 2 o 3 stesure riporto sul computer il testo che è venuto intanto profilandosi: da quel momento in poi le eventuali varianti (numerose e spesso dilatate nel tempo, io sono un tipo quasi sempre insoddisfatto di me stesso, anche se non lo dimostro) avranno solo una forma elettronica, andando dunque disperse.

 

Leggere per scrivere

 

In ogni caso, soprattutto nel contesto storico-sociale di oggi, la poesia è più importante leggerla: meglio, imparare a leggerla, impresa difficilissima perfino per gli addetti ai lavori, tra i quali mi colloco ovviamente anch’io. Poi, se uno affina il gusto e comincia a impadronirsi di una propria facoltà originale nell’uso della lingua di cui è parlante nativo e del codice poetico, allora anche scriverla diventerà un ottimo esercizio inventivo. L’importante è che chi si affida per questo fine e in questa chiave alla propria scrittura personale, sia poi molto prudente rispetto all’idea di voler subito pubblicarla, di credere di essere subito un poeta, di presupporre d’aver composto un testo capitale per la sopravvivenza dell’umanità. Tutti noi, come ha affermato di recente il Premio Nobel peruviano Mario Vargas Llosa, viviamo secondo la mentalità e i meccanismi un po’ pubblici un po’ subliminali di una società dello spettacolo e tutti ambiamo in primo luogo a soddisfare i nostri narcisismi. La poesia vera, invece, non dà spazio ai narcisismi, è qualcosa che lotta ontologicamente contro il narcisismo. Il leggere, in particolare, è l’antidoto migliore che io conosco (e ogni giorno sperimento in dosi omeopatiche) contro narcisismo e superficialità. E caso mai diventassi ministro dell’Istruzione, la mia riforma imporrebbe il ripristino di tutte quelle tecniche necessarie per migliorare la lettura: dettati, riassunti orali e scritti, parafrasi, poesie (soprattutto novecentesche, va da sé: al bando gli arcaismi inutili!) a memoria dalle elementari all’esame di maturità, letture ad alta voce…

E comunque: prima di tutto, la poesia è davvero un concretissimo fare quando la faccio, ma per me rimane un fare attivo soprattutto quando la leggo. Attraverso questo gesto di per sé impegnativo del leggerla, la poesia mi ha salvato la vita (interiore, ma forse non solo) molte volte e me la salva tuttora ogni giorno. Ribadisco che io non passo neanche un giorno senza aver letto almeno una poesia e che in me affiora prima di tutto un atteggiamento che riconosce la poesia come prezioso meccanismo verbale – dunque dialogico – nel quale trasmetto anche un senso, se si può dire così e se un senso poi esiste davvero, alla mia interiorità più profonda, confrontandomi con le invenzioni e i ritmi di altre voci straordinarie. Fare oggi affermazioni del genere può esporre anche al ludibrio dell’anacronismo e dello snobismo. Ed è vero, a occuparmi o – meglio – a intridermi quotidianamente di poesia mi sento un po’ come l’ultimo dei Mohicani, ma già viviamo in mezzo a tanti soggetti (uomini e donne) up-to-date a ogni costo che la cosa, se presa con l’autoironia dovuta, non mi dispiace poi troppo.

Scrivere la poesia, invece, è tutt’altro problema. Quando mi accade, entro davvero nella dimensione di forgiare il linguaggio che mi affiora prima alla mente e poi alla bocca: l’idealità e il sistema di valori acquisiti c’entrano solo a livello inconscio; e vivo un’esperienza che è molto più vicina di quanto si pensi a quella del gioco. È anche (in cooperazione con me) la lingua a identificarsi come il primo strumento che produce un senso moltiplicato, fatto di significati, di suoni che s’inseguono si imitano s’impastano; e di echi inusitati e strani che non smettono di risuonarti per molto tempo, a volte anche per giorni, tra lingua e orecchio. E insisto sul fatto che leggere e scrivere poesia sono due processi distinti, due meccanismi molto diversi: mentre per l’appunto io non posso vivere neanche una giornata senza leggere una poesia, indipendentemente dal fatto che sia una lettura professionale o privata, passo molte giornate e talvolta diverse settimane senza scrivere neanche un verso.

Da quanto sto affermando, non è difficile comprendere che i testi per me capitali – ormai una piccola moltitudine, una vera comunità degli animi – non sono miei, ma di autori e autrici ben più indispensabili: nonostante l’oscillare delle mode, un ruolo primario continuano per me ad avere le poesie di Eugenio Montale, da sempre l’autore col quale avverto una sintonia profondissima, in tutte le parti e le manifestazioni della sua lunga storia inventiva. In proposito, ricordo che al liceo, per contestare un professore di filosofia con cui non avevo feeling, durante le sue ore leggevo platealmente o Montale o un giallo di Simenon, di Maigret. Montale è stato per me anche la salvezza dalle astrazioni del linguaggio della filosofia che non ho mai amato e che adesso amo ancor meno di allora. La filosofia mi sembra una disciplina finita in perigliose secche, coi fardelli – a gravarla – dello storicismo e della metafisica (e quindi, dal mio punto di vista, fanno oggi eccezione solo le riflessioni di Wittgenstein e di Deleuze, faticando molto a riconoscere come veri filosofi i neurobiologi in gran voga oggi), completamente estranei al mondo contemporaneo, mentre la poesia (e anche la narrativa, quando ne è capace) mi sembrano sempre più dentro al nostro tempo.

Ecco, Montale è stato proprio uno straordinario compagno di vita, un luogo e un modo di conoscenza e di piacere, l’ho sviscerato, letto e riletto e, quando si è trattato di donare un testo critico per i settant’anni del mio maestro Ezio Raimondi, nel ’94 per la prima volta ho scritto un saggio su di lui, sulle due Conclusioni provvisorie della Bufera e altro, dunque sul Montale più politico e kafkiano. Fin lì Montale era rimasto solo un autore di capezzale e di piacere privato, mentre per festeggiare Raimondi ho cominciato a lavorarci professionalmente. Qualche anno fa ho pubblicato un libro nel quale ho raccolto tutti i miei saggi dedicati a Montale, intitolato – su suggerimento dell’amico poeta Emilio Rentocchini – Montale, in conclusione, a indicare una volta di più il ruolo decisivo incarnato da questo poeta nel mio processo di formazione e anche nel mio percorso di insegnante. Il fatto è che questo processo non si è ancora compiuto del tutto e presto quel libro (nel frattempo esaurito) vedrà una nuova edizione, sensibilmente riveduta e ampliata. Le conclusioni, in poesia, è sempre la poesia stessa a deciderle, non certo il soggetto in carne e ossa che vi è coinvolto.

Naturalmente, è altrettanto chiaro che la poesia nella mia storia unisce il lavoro alla passione. Non è che io divida il mondo tra chi ama la poesia e chi non la ama. Ho molti amici che non hanno mai letto una poesia, dopo le scuole elementari. E non è vero nemmeno che esprimo giudizi sulle persone o sulla realtà in base al mio amore per la poesia. Su di me – però – la poesia ha inciso tanto, anche perché la poesia nella mia vita si è affacciata e tuttora si affaccia in forme diverse. Per esempio, dopo quella per Montale, ho nutrito e nutro ancora una passione molto forte per Vittorio Sereni. E poi, da quando sono andato la prima volta per motivi professionali negli Stati Uniti alla Brown University di Providence, nel Rhode Island (era l’autunno del ’94), lì ho cominciato a conoscere da vicino gli autori di lingua inglese, che tuttora sono quelli che mi piacciono di più, che traduco qualche volta e con i quali intrattengo un dialogo piuttosto stretto: Philip Levine su tutti, ma anche Emily Dickinson, il quartetto Yeats Eliot Pound Stevens, Charles Wright (quello senz’altro più vicino alla mia poetica), Frank O’Hara, Charles Simic, Tony Harrison, Brendan Kennelly, Seamus Heaney, Philip Larkin, Simon Armitage e qualche altro. A questo proposito scatta un paradosso: io non amo affatto la lingua inglese, benché sia la sola lingua straniera di cui ho studiato la grammatica, ma mi detesto abbastanza quando sono costretto a biascicarla. Soprattutto, essendo già un po’ sordo, non ne intendo quasi per nulla la phonè quando è un anglofono a rivolgermi la parola. Però la poesia di lingua inglese, sia americana che inglese e soprattutto quella irlandese, mi sembra di livello molto alto, riesce a nobilitare la lingua attraverso la quale viene veicolata e mi offre un impasto unico di approccio realistico-geografico, di memoria ancestrale, di narrazione con personaggi e di tensione metafisica ma non confessionale che incarna molto da vicino il mio ideale di poesia.

 

Il cibo della poesia

 

Essendo, come ho detto in principio, un gran goloso, sono anche convinto che la poesia abbia conquistato un ruolo tanto importante nella mia vita perché ha molto che fare con il cibo. Infatti, come la poesia si scrive e si legge con tutto il corpo – la voce, la bocca, la lingua – e non solo nel silenzio della mente, così il cibo soddisfa assieme una funzione di nutrimento e di piacere che dal corpo si trasmette allo spirito. Inoltre, il cibo è per me il primo e principale elemento di socializzazione con le persone, grazie anche alla sua natura molto ambigua e alla sua doppia faccia: buona e cattiva, quando – come me – si tende a essere recidivi nel peccato di gola; e, più seriamente, quando si constata lo spreco che noi opulenti del mondo occidentale ne facciamo, mentre in altre realtà si muore quotidianamente di fame. Magari ci fosse uno spreco altrettanto diffuso di poesia (letta e da leggere), nel nostro mondo così civilizzato!

A ciò vorrei aggiungere la valenza poetica del cibo, già a partire dalla metafora iniziale del Simposioe del Convivio, che si situa con Platone alle origini del pensiero occidentale, per non parlare poi dell’evento liturgico dell’Ultima cena di Cristo. Ogni poeta degno di questo nome ha messo in scena in qualche modo una tavola imbandita o comunque una percezione, una sensazione o una ricerca, più o meno spasmodica, del cibo. Il cibo, essendo una grande metafora del nutrimento umano, è anche una grande metafora dell’uomo e della sua capacità di socializzare, di fare amicizia senza fare guerra.

Per non parlare del legame fisiologico, oltre che simbolico, fra il cibo e il linguaggio: entrambi passano per la bocca. Il cibo in concreto attraversa gli organi di trasmissione del linguaggio nel momento in cui entra dentro di noi e naturalmente obbliga a prendere in considerazione il problema molto complesso del rapporto con la parola. È cattiva educazione, e spesso è anche rischio di soffocamento, parlare mangiando. Se si parla non si mangia e se si mangia è meglio non parlare. Meglio non parlare a bocca piena. Lo insegnano le nonne ai nipoti ed è, non dico un tabù, ma una delle regole del nostro vivere civile: regola che io troppo spesso trasgredisco, proprio perché cibo e parola sono troppo indissolubilmente legati. Ciò dimostra che solo all’apparenza si tratta di due cose che si negano a vicenda. Quando la parola si occupa di cibo, lo insegue, lo descrive, lo canta: ma, nello stesso tempo, il cibo deve farsi da parte ed essere fino in fondo deglutito, quando deve lasciare libero corso alla parola, che è un nutrimento non meno fondamentale del corpo e dell’anima.

In particolare, per me modenese il cibo è legato alla convivialità quindi al dialogo, a una situazione generalmente amichevole ed è molto legato al viaggio. Il cibo infatti è anche scoperta del luogo, nonostante io soffra di forti idiosincrasie, per esempio verso l’olio e tutte le verdure. Lo ricordavo proprio all’inizio: il mio ricordo primario è legato al cibo, al mio odio per l’olio. Mangio solo burro e strutto e i cibi cucinati con l’olio mi infliggono anche oggi che ho 65 anni un immediato impeto di vomito.

Naturalmente quando sono diventato adulto ho cominciato a viaggiare e il piacere della scoperta antropologica ha un poco limitato questa mia idiosincrasia, perché per esempio mi sono acceso di un amore viscerale per la Sicilia, dove con l’olio condiscono perfino le arance. In qualche caso, allora, ammetto di aver fatto valere la componente culturale su quella istintiva, per cui ho mangiato anche cibi cucinati con l’olio. Non posso dire di averli amati, ma certamente il viaggiare mi ha insegnato a sperimentare i cibi autoctoni dei luoghi visitati. Per esempio, l’atto di coraggio sommo della mia vita, attraverso il quale voglio ricordare lo Stefano Tassinari scrittore, mio amico molto caro che è mancato nel maggio del 2012, fu in Perù nel 1981. Era lui il mio principale compagno di questo viaggio per entrambi formativo (un viaggio che fu anzi, per entrambi, un autentico spartiacque fra giovinezza e vita adulta) e a un certo punto attraversammo una provincia sperduta delle Ande, a un’altezza media di oltre 4.000 metri. Durante un pranzo domenicale in una trattoria molto popolare, frequentata dalla gente del luogo, scoprimmo che la specialità locale era una specie di topo in umido, non un topo di fogna, ma comunque un animale tipo una nutria o un rat musqué o qualche altro topesco roditore. Io ebbi il coraggio, fui l’unico del gruppo italiano, di ordinare il piatto per provarlo. Ebbi però un colpo di fortuna perché il piatto, essendo la specialità del luogo, era andato a ruba ed era finito. Venne un cameriere sconfortato e imbarazzato a dirmi ‘Purtroppo è finito con la sua ordinazione..’. Me la cavai con una trota salmonata. Insomma l’atto di eroismo lo avevo compiuto, ma naturalmente non assaggerò mai più quella specie di topo: e lo dico con profonda soddisfazione.

 

Letteratura e destino

 

Aver nominato Stefano Tassinari, un finissimo e combattivo intellettuale/scrittore ma soprattutto un grande amico, morto di cancro a 56 anni, mi porta fatalmente a riflettere sul destino. Per me il destino – se lo si intende come un sentimento e non come un concetto: io diffido molto delle astrazioni concettuali, anzi tendo a rifiutarle in blocco – è qualcosa di profondamente umano, che ha sicuramente una componente casuale perché è chiaro che, per forgiare il nostro destino, devono concorrere tutta una serie di elementi sui quali noi non abbiamo alcun controllo. Da questo punto di vista sono anche molto fatalista e non di rado scaramantico, da bravo scommettitore ippico.

Se parliamo invece del destino come esperienza, esce subito la mia radice profondamente modenese e quindi profondamente padana: una radice tutta concreta, legata proprio al concreto delle esperienze, a ciò che si può toccare con mano, che si può percepire coi sensi e respirare, come la nebbia, i paesaggi, l’orizzonte piatto, i pioppi, lo stormire delle acque e delle fronde insieme, certi odori, anche violenti, di campagna, la cultura del maiale. Tutti questi elementi, naturalmente, hanno forgiato nel profondo la mia esperienza di destino, nel senso che io, alla fine, credo nell’homo faber e nell’uomo che, a un certo punto, ha la responsabilità non solo delle proprie parole ma anche del proprio lavoro, del proprio ruolo, della propria condizione nella realtà, vale a dire nel suo contesto sociale. Il destino è una somma di elementi. Certamente c’è una componente casuale ma c’è anche una dimensione della propria formazione, delle proprie passioni, dei propri desideri, delle proprie utopie che, in qualche modo, lo formano e, alla fine, lo mettono in azione: dna, storia familiare, provenienza geografica, istruzione, incontri personali, passioni istintive e gusti formati da chi si frequenta, malattie: quante sono le variabili che contribuiscono a forgiare un destino individuale…

Nel mio caso, poi, la passione per il calcio e, ancor più forte, quella per l’ippica, mi hanno insegnato che alla fine di tutto, fortuna e sfortuna si equivalgono. Il problema è quello, nell’umano, di non considerare mai i momenti più sfortunati e più neri delle specie di punizioni divine – in questo, mi è chiara l’importanza “negativa” del libro di Giobbe nella Bibbia. Dall’altro lato, i momenti di fortuna non possono essere trasformati mai in una forma dionisiaca di piacere puro o di edonismo sfrenato, che è una delle malattie gravissime dell’epoca che stiamo attraversando, ma devono essere a loro volta controllati, ridotti a proporzione, imbrigliati. Il destino è un concetto molto contraddittorio e stratificato, di cui comunque l’individuo rimane in buona parte responsabile, dal mio punto di vista.

Io credo moltissimo nella dialogicità, in quella che, con una parola forse un po’ edulcorata e un po’ troppo cattolica per i miei gusti, possiamo chiamare amicizia. E credo nella possibilità di un destino che si forgia insieme. La frase paradossale dello scrittore modenese Antonio Delfini (“Se avessi avuto altri amici, o non li avessi avuti affatto, sarei diventato un grande narratore, prima della caduta del fascismo; e dopo lo sarei rimasto”) è profondamente vera. Certo l’amicizia, come tutto ciò che è umano, in primo luogo i sentimenti, è storica, in divenire, non è eterna. Nulla nell’umano è eterno, permanente, inviolabile, però io dagli amici, dalle varie possibilità di amicizia che ho avuto, devo dire più spesso dal mondo femminile che da quello maschile, ho tratto diversi elementi cardinali nel mio processo di maturazione. Ne è esempio sommo la trasformazione del mio “folle amore” universitario in un’amicizia che ha sublimato qualsivoglia forma di sessualità e di bisogno ossessivo di frequentazione diretta. E in ogni caso questa piccola pedagogia sentimentale la condivido più con le amiche di sesso femminile che con gli amici maschi, con i quali mi è stato e mi è più difficile uscire dal trittico Poesia, Ippica, Inter. D’altra parte, sono convinto che il genere femminile sia più avanti rispetto al genere maschile in questo scorcio di epoca che stiamo attraversando: e la poesia della prima fase di XXI secolo che è già alle nostre spalle è lì a ricordarcelo ogni giorno, con una netta prevalenza qualitativa e quantitativa delle voci femminili sulle personalità maschili.

Insieme col mio grande concittadino Antonio Delfini lo ribadisco: se non avessi avuto gli amici che ho avuto, i compagni di classe che mi sono capitati in sorte, gli amori che ho vissuto, i libri che ho letto, certamente il mio destino sarebbe stato diverso. In fondo, sono entrato a insegnare all’università quando non ci pensavo più, a 37 anni, perché la concorrente favorita nel concorso che poi ho vinto io (autunno 1992) ha mancato la sua corsa, in termini trottistici con un’inopinata rottura sul traguardo. Quindi sono diventato professore universitario quando mi ero ormai persuaso che a vita avrei fatto il professore di scuola: e non mi sentivo per niente sminuito, a patto che potessi continuare a scrivere e studiare. Lo sono diventato per un colpo di destino perché io – che avevo presentato domanda “per fare numero”, cioè per dimostrare alla comunità scientifica non c’era un’unica candidata a meritare il posto da Ricercatore – non ho fatto niente perché questa persona fallisse il compito concorsuale. Non ho minimamente agito per farla perdere, né con preghiere, né con esorcismi, né con altre modalità accademiche. Da quell’evento io ho cambiato mestiere, da professore in un istituto tecnico di Modena sono diventato ricercatore all’Università di Bologna e la mia vita ha preso una piega differente. Lo stesso vale per la poesia, perché se non avessi lavorato a Bologna, non avrei frequentato due giovani autori di grande qualità creativa come Giancarlo Sissa e come Vito Bonito: molto semplicemente, la mia esperienza poetica si sarebbe svolta prevalentemente a Modena e sarebbe stata molto diversa, più limitata e “rievocativa”. In ogni caso avrei scritto cose diverse e dialogato con personalità diverse, un po’ più limitate.

È evidente che su questo incide anche una dimensione di fortuna o – come io preferisco – di destino. Ma il destino senza l’acquisizione di una competenza e senza la capacità di incanalare per una via di professionalità la propria passione (qualunque essa sia) non può incidere più di tanto sulla direzione e sullo svolgimento positivo di una vita. Di certo, dal mio osservatorio di insegnante di ragazzi di 20 oppure di 22-23 anni, mi sono accorto che negli ultimi 3-4 anni c’è stato un adeguamento generazionale alla precarietà e quindi una capacità di sfruttare le proprie doti intellettuali, spirituali, emotive, molto più forte di quella della generazione immediatamente precedente, cioè di quella che adesso sta fra i 30-35 anni, che è stata una generazione più difficile da educare al rapporto con le competenze letterarie. Questa ultimissima è una generazione altamente ignorante, nel senso etimologico del termine, per cui i suoi componenti non hanno più le basi delle specifiche discipline per le quali si iscrivono all’università. Però è anche una generazione tutt’altro che presuntuosa e quindi molto più avventurosa ma anche molto più aperta, che mi dà  fiducia e che mi insegna molto ogni mattina quando entro lì a parlare di letteratura contemporanea con loro e per loro. Mi sento ascoltato e sento che fanno uno sforzo notevole per capire e io apprezzo molto questo sforzo che mi arriva in forma di energia di ritorno, con intuizioni spesso sorprendenti e per me spiazzanti, in positivo. Per cui, mentre fino a 7-8 anni fa uscivo dall’aula stremato e quasi sempre disilluso, adesso esco dall’aula sempre stremato ma con l’aggiunta proficua di una bella carica umana dentro. Non so se questo è destino, però è comunque un fatto collettivo e generazionale che mi trasmette una gran fiducia nel futuro: anche nel futuro della poesia, naturalmente.

 

Scrivere per leggere

 

Poi, certo, alla fine affiora sempre la questione della scrittura in prima persona. Capita una mattina di alzarsi e dire: “Oggi può essere un giorno di poesia”, che vale in realtà un “oggi forse scrivo”, perché c’è un movimento che sta coagulandosi e che ha bisogno di essere disteso in una serie di frasi versificate, ritmate, plasmate dentro un crogiuolo metrico. Sono giornate in cui la prima parola che mi viene in mente appena mi sveglio è una parola che fluisce in modo anche musicale e sono le giornate in cui appunto a bassa voce mi dico: “Oggi potrei scrivere una poesia”. Bisogna anche “aver qualcosa da dire”, però, e spesso invece, anche nei giorni in cui il pensiero fluisce in forma musicale, accade che non si disponga di un oggetto, di un evento, di una piegatura particolare del reale, di un Tu destinatario/a del discorso o di un paesaggio (non importa se interiore o esteriore) da modellare, da esprimere: e che non sia presente un interlocutore davanti agli occhi del cuore e della mente a cui urga di comunicare qualcosa che non sia già stato detto così. In questo caso “negativo”, la giornata che sembrava possibile per comporre una poesia finisce in sé e quel fluire abbastanza armonioso della lingua nella mente o sulla punta delle labbra magari viene fatto confluire in qualche conversazione più o meno casuale, oppure in qualche telefonata, senza che venga nemmeno abbozzato un inizio di poesia. Mentre invece un artista figurativo o un narratore in quella stessa circostanza avrebbero comunque tracciato qualche segno o limato qualche paragrafo chiamandoli magari ad assolvere una funzione decorativa o ad essere integrati in un progetto a venire…

Invece, nel caso della poesia, il linguaggio comporta anche una tensione epifanica, un’esigenza trasformativa e una direzione di verticalità (auto)conoscitiva che non possono essere soffocate del tutto né imbrigliate in un atto di puro artigianato linguistico. Aggiungo che, dopo questa prima gittata nel giorno giusto, di cui prendo l’appunto brutale, un tempo con carta e penna, oggi sull’iPhone, soprattutto se sto camminando o guidando, dopo è molto importante, lungo, impegnativo il lavoro tecnico, vale a dire il lavoro di composizione e proprio di orchestrazione di una musica verbale più profonda e molteplice, rispetto a quella impetuosa della prima gittata. Ci sono poesie che ho scritto vent’anni fa, di cui sono ancora largamente insoddisfatto e che cerco di tanto in tanto di riscrivere, ma delle quali – dopo questi tentativi allungati nel tempo – sono ancora più insoddisfatto. Allora mi sorge il dubbio se prima di morire arriverò mai al compimento cui ambisco, perché la composizione di una poesia richiede un lavoro artigianale che può durare anche anni e anni. Io tendo a correggermi continuamente, a non essere mai appagato, a limare, a cercare di migliorare perché, alla fine, questa specie di monumento, di icona, che è la poesia compiuta ha bisogno di funzionare in tutte le sue parti. Quindi si può essere autori che si accontentano di quello che è venuto, oppure autori che portano il labor limae quasi a un eccesso nevrotico, anche dopo che il testo in questione è stato pubblicato. E io appartengo senz’altro a questa seconda categoria.

Rimane poi vero che in poesia ho cercato e cerco tuttora di dar forma a quello che è rimasto incompiuto, oscuro, contraddittorio e sepolto nei territori molto accidentati, pietrosi, spiraliformi del mio inconscio o anche della mia emotività più oscura e razionalmente inspiegabile. Qualche risposta è senz’altro venuta. Ripeto che io non cerco la poesia: in certe giornate particolari mi viene in mente un inizio, questo inizio lo appunto e quando ho un po’ di tempo provo ad andare avanti… così viene la poesia… poi la leggo, rileggo, correggo, ricorreggo anche nell’arco di mesi o di anni. Non è che io scriva le poesie con intenzione, le poesie che si scrivono con intenzione in genere sono poesie bruttissime. Ispirazione non è una parola di cui aver paura e sono d’accordo con Giovanni Giudici, su questo: ci sono giorni in cui uno può scrivere una poesia perché il linguaggio gli fluisce in un certo modo e ci sono giorni invece completamente sordomuti. In quei giorni in cui si può scrivere una poesia, se si ha qualcosa da dire attraverso la poesia, quel qualcosa dentro vien fuori e prende a mano a mano forma. L’artigianato è un processo tecnico che può occupare intere settimane, dopo si rifinisce, si cambia una parola, il ritmo di un verso, si lavora sulla disposizione e l’architettura degli accenti, dopo c’è tutto un lavoro tecnico sul linguaggio e sul metro.

La poesia, infatti, è in primo luogo una forma di igiene linguistica, vale a dire un atto di selezione e di salute che si compie attraverso la lingua e che sulla lingua si rifrange, in positivo. Un grecista di Oxford, Powell, afferma che Omero avrebbe addirittura inventato l’alfabeto per poter fermare i poemi che tratteneva nella memoria e che erano l’ultima fase di elaborazione di un processo creativo lunghissimo e plurale: così sottraendoli al fluire distruttivo del tempo. Dante ha sicuramente inventato e plasmato la lingua che tuttora parliamo a scopo di poesia per la sua Commedia, creando una mediazione geniale fra il dialetto municipale fiorentino che coincideva con il suo “parlar materno” (tutti noi parliamo con il timbro verbale di nostra madre) e le magnifiche, nobili, complesse architetture lessicali e sintattiche del latino. Se uno legge le poesie giovanili della Vita nova o delle Rime, si accorge che dentro ci risuona il dialetto municipale fiorentino, mentre la Commedia è composta in un’altra lingua che corrisponde a ciò che chiamiamo volgare illustre e poi italiano. Quindi non è raro che i capostipiti, gli scrittori archetipici di una tradizione e di una civiltà, abbiano plasmato le lingue scritte, a fine originario e principale di poesia.

La poesia, inoltre, è un atto d’igiene linguistica perché richiede una parola precisa due volte: precisa da un punto di vista semantico perché in genere c’è un’unica parola o un unico giro d’espressione che dice quello che vuoi dire nel profondo; ma precisa anche da un punto di vista ritmico-musicale. In una lingua sillabico-accentuativa come l’italiano, la musica nelle parole si ottiene attraverso l’organizzazione e la distribuzione degli accenti nel verso, nonché attraverso il lavoro del significante (l’involucro sonoro e/o iconico delle parole, la loro endiadi di vocalità/letteralità) e le diverse, molteplici strategie formali del testo poetico, per cui la parola poetica produce un’osmosi fra il significato logico degli enunciati e il ritmo, i timbri, i suoni delle lettere che compongono le varie parole. Quindi quella della poesia è una parola esatta due volte: da un punto di vista logico-referenziale e da un punto di vista ritmico-musicale. Cogliere questa perfezione su entrambi i piani, facendoli interagire creativamente, appartiene all’artigianato del grande poeta, anzi è ciò che distingue il grande poeta dal semplice estensore di versi.

Il mito ci presenta il primo poeta per eccellenza, Omero, come cieco/veggente. Veggente è una parola che mi fa abbastanza paura e che in fondo in fondo mi persuade poco. Ma Omero di sicuro era cieco e di sicuro è stato proprio lui ad aver risillabato nella sua mente e poi trascritto l’Iliade e l’Odissea, circa otto secoli prima di Cristo: questi sono già fatti enormi, anche perchè sono due opere profondamente diverse l’una dall’altra. Mentre l’Iliade è il sigillo arcaico della poesia degli eroi e dei cataloghi nomenclatori, oltre che di una storia più guerresca che amorosa, svolta  entro un mondo rituale, l’Odissea è il primo libro moderno, il primo libro del nostro stesso tempo, della modernità occidentale, nel senso che l’Odissea è la storia umanissima di un eroe che porta a compimento un viaggio conoscitivo e un ritorno: quel ritorno che procura dolore, quel ritorno che non si vuole portare mai a conclusione perché si sa che, quando si raggiunge l’ultima meta, giunge a definitivo compimento anche la parte più importante della propria vita. Ulisse è l’eroe psicologico, l’eroe umano troppo umano, per ripetere la formula di Nietzsche. Dato per certo che Omero abbia messo per iscritto entrambi i poemi, vuol dire che Omero, aldilà della sua cecità produttrice di veggenza, aveva un’idea già profondamente artigianale della poesia, perché se mette il suo nome e gioca la sua unica identità su due testi così differenti, così differenziati e così epocali in modo assolutamente diverso, antitetico direi, è chiaro che aveva un’idea della poesia proprio come fare, come artigianato, non tanto come abbandono a un’idea unitaria e monodirezionale di mito, ma come storicizzazione del mito e sua trasformazione in elemento romanzesco.

 

Cura

 

“Cura” è uno dei termini più polisemici della lingua italiana. “Cura” è la cura che uno fa quando è malato, ma entra anche nella determinazione dell’aver cura e del “prendersi cura”: e ciò comporta che a cose, situazioni, persone si riservi un’attenzione speciale. Credo che la poesia possieda entrambe queste valenze. La cura m’interessa più della fragilità e ricordo con piacere il titolo attribuito da una poetessa, Donatella Bisutti, ad alcune sue condivisibili riflessioni in cui afferma che La poesia salva la vita: in questa possibilità mi riconosco molto, la poesia può davvero salvare la vita. Non si sostituisce ai farmaci, ma è essa stessa farmaco che migliora uno stato spirituale e cognitivo: fa vivere meglio.

Infatti, la poesia al livello più alto (e sottolineo questa proprietà: cioè, prima di tutto la poesia degli altri, la poesia dei più bravi e delle più brave di noi, che si sono succeduti/e nell’arco dei tre millenni della nostra civiltà occidentale) è una cura di sé, una forma efficace di autoterapia, perché obbliga a quell’atto molto misterioso (e molto difficile da conquistare, soprattutto oggi), che è il fare silenzio dentro di sé. Per ottenere questo scopo, occorre mettere per qualche ora a tacere il brusio delle proprie ansie, il bisbiglio ininterrotto della chiacchiera attraverso cui le nostre sensazioni di superficie reagiscono d’acchito e d’istinto alla realtà, il vociare caotico dei propri momenti di passività, il mai sopito rumore di fondo provocato della propria difficoltà nel rapportarsi con il mondo, nonché lo schema dei propri automatismi rassicuranti, che in realtà sono solo manifestazioni di quella psicopatologia della vita quotidiana che Freud, più di un secolo fa, aveva già descritto e interpretato con tanto acume. Da questo punto di vista la poesia è una cura in primo luogo dell’udito interiore, del grado di auscultazione profonda del nostro essere e della sua trasformazione in parola originale (non originaria, sia chiaro: non siamo entità metafisiche, bensì anche corporali e fisicissime). E poi la poesia è una cura perché coincide con l’apertura all’altro da sé e con l’accettazione che il nostro spazio interiore sia invaso da una voce, da un ritmo, da una lingua altrui, scaturita da un altro e diverso soggetto, il quale in un primo momento può anche farci arrabbiare e può addirittura darci fastidio.

Tutti sappiamo benissimo, per esperienza diretta, che nei rapporti umani quasi mai tutto è automatico o facile. Nel caso della poesia, se è presa non come sfogo del proprio narcisismo e quindi accolta come bisogno di lettura molto prima e molto più che come scrittura, coincidendo con un’autentica disponibilità etica a farsi invadere dalla parola altrui, essa può assumere in effetti anche una funzione terapeutica. Certo, deve essere soccorsa dal supporto di ciò che chiamiamo gusto, nel senso che uno il gusto deve cominciare a forgiarselo dentro di sé, percepirlo, rafforzarlo, temprarlo, migliorarlo nel corso del tempo, perché una poesia cadùca, una poesia facilona, una poesia che dà semplicemente luogo a sentimenti corrivi espressi in un linguaggio arcaico (cioè ancora falso-leopardiano o falso-dannunziano) come se fossero sentimenti speciali porta poco lontano: e in quel caso la cura rimane solo un blandissimo palliativo. Una poesia vera è una poesia che ti lascia sorpreso, spiazzato e che compie su di te un effetto di straniamento, cioè ti fa vedere con occhi diversi qualcosa che nello srotolarsi dei giorni ritenevi domestico e abituale. Date queste condizioni, se la poesia che riesci a percepire, ad abbracciare, a portarti dentro, a introiettare è una grande poesia, e se quindi tu hai affinato il gusto giusto per adibire la poesia a una tua medicina dell’interiorità, allora questa voce poetica può dar luogo a un effetto terapeutico molto efficace. Infatti, nel momento in cui parla dei sentimenti-limite, per eccellenza umani, che sono l’amore e la morte, nel momento in cui obbliga ad affrontare a faccia nuda quei dedali riuniti dal tratto comune della malattia (si può essere ugualmente malati nella psiche e nel corpo e di ciò ugualmente morire), la poesia viene in soccorso e aiuta a percorrere i propri meandri, a orientarsi nei propri labirinti interiori.

Come ho appena raccontato, il giorno prima dell’11 settembre del 2001 ho ricevuto la diagnosi di Alzheimer per mio padre e mia madre – che era già sofferente psichiatrica a sua volta, senza che io me ne fossi accorto, per dabbenaggine e ottimismo colposo – ha deciso di mettere la testa sotto la sabbia, di non riconoscerla, di non accettarla, anche se io già sapevo in cuor mio da almeno quattro anni che mio padre era affetto da questa malattia terribile. Anche il mio mondo è crollato, in sincronia con le Twin Towers di New York (città da me amatissima), e ho capito che con questo crollo mi sarebbero arrivati addosso il disastro economico e quel disagio psichico e psichiatrico che mi avrebbe di lì a poco confuso e travolto, essendo per di più figlio unico e percependo intuitivamente che mia madre fingeva di essere una roccia di resistenza e che in realtà si sarebbe apprestata ad affondare anche lei insieme con mio padre. Non ho detto a voce alta: “Mi resta la poesia”, ma alla fine è andata proprio così. Nella dilapidazione inarrestabile dei piccoli risparmi dei miei genitori e del mio Io profondo, davvero mi sono rimaste soltanto la partecipazione cooperante della mia compagna e la poesia.

Da quel momento, in pratica per dieci anni, ho scritto unicamente della malattia e della demenza dei miei due genitori. E mi sono accorto, a mano a mano che scrivevo una poesia dopo l’altra, che questo scrivere diventava una specie di salvezza, di cura, di sfogo, di coinvolgimento che mi erano diventati necessari. Così, a un certo punto  ho visto che avevo ormai raccolto i materiali per una storia della malattia di mio padre, dai primi sintomi e atti alzheimeriani fino all’ultimo, quando l’ho raccolto moribondo sul pianerottolo di casa e in pratica gli ho chiuso io gli occhi, come racconto nella poesia che nella prima edizione concludeva, che oggi invece apre Ricordi di Alzheimer e che si intitola Commiato.  A un certo punto, siccome la poesia non sono io che vado a cercarla, ma è lei che viene chissà da dove a pescarmi, mi sono accorto che mi interessava scrivere soltanto di quello e che un simile approdo monotematico della mia poesia nascondeva anche un intento e un bisogno di natura patologico-curativa.

Tra l’altro, io non credo affatto – e ci tengo a ripeterlo con forza – che una poesia provocata da un vero dolore esperienziale sia una poesia automaticamente bella. Bisogna che le parole siano due volte appropriate, che il ritmo dei versi sia appropriato, che ci sia una necessità assoluta dello scrivere in versi, perché chi ti autorizza ad andare a capo prima che la riga sia finita? È un patto che si costituisce fra te e il lettore. E perché il patto sia soddisfatto occorre che anche il lettore sia d’accordo, non è che andando a capo così come viene si è scritta una poesia. Il dolore puro, se non ci sono dietro anche una tecnica, un artigianato, una competenza della storia della poesia, in sé e per sé vale poco perchè sicuramente, siccome sono passati sulla terra dalla comparsa dell’homo sapiens in poi diversi miliardi di individui, nulla di ontologico o di ontogenetico ci diversifica, belli e brutti, buoni e cattivi, onesti e truffatori, pensatori e operai, ricchi e poveri: tutti abbiamo la stessa sensibilità di fondo, tutti abbiamo amato i nostri genitori, i nostri parenti, i nostri amori, tutti abbiamo sofferto per la loro morte, tutti sappiamo in quanto esseri umani che siamo destinati a morire. Quindi, su questa base di sentimenti, di emozioni, di sogni, di orrori assolutamente comuni in quanto esseri umani, il poeta deve, attraverso il linguaggio e anzi proiettandosi dentro il linguaggio – questo fatto è fondamentale – assicurare e assumere un  punto di vista diverso sulla realtà, anche per un piccolo dettaglio che nessuno ha mai percepito in quel modo: se no, perché scrivere una nuova poesia se non si introduce nulla di nuovo rispetto a una poesia già esistente? Tanto vale leggere a fondo la poesia già esistente, immedesimarcisi.

Poi, per affermare – come ha fatto James Hillman, lo psicanalista americano – che i poeti hanno dimenticato il destino terapeutico della loro attività, bisogna imboccare una strada che non so se possiede davvero una direzione necessaria. Dipende anche da quale tipo di civiltà accoglie la parola dei poeti. Per essere riconosciuti o definiti poeti bisogna essere almeno in due, bisogna avere un interlocutore o degli interlocutori, quindi oggi io non darei la colpa ai poeti, anzi oggi in Italia ci sono molti più poetesse e poeti bravi che non narratori, forse per via della tradizione petrarchesca che ha sempre vinto sulla tradizione narrativa, allegorica (in senso dantesco) e prosastica, però il problema è che questi poeti non hanno interlocutori e, se io pronuncio i nomi di Mario Benedetti o di Gian Mario Villalta o di Maurizio Cucchi o di Milo De Angelis o di Gianni D’Elia o di Valerio Magrelli o di Giancarlo Sissa o di Antonella Anedda, pochi li conoscono. Quindi la frase di Hillman avrebbe ancora senso in una Arcadia o in una società ideali, come forse in Europa oggi ne esistono solo in Irlanda, in Russia o in parte in Germania o in certe città invisibili in cui i poeti fanno parte del tessuto civile, le loro poesie sono lette quasi in tempo reale e loro dispongono di un pubblico di persone disposte a dialogare, a discutere, a distaccarsi anche dalle proprie opinioni: un regno di Utopia dove ai poeti fosse affidata la funzione che adesso rivestono da noi Camilleri o Saviano. In Italia questo non succede assolutamente, quindi non si possono incolpare i poeti-perfetti-sconosciuti di non avere un pubblico che risponde loro. Dunque, non è responsabilità dei poeti aver dimenticato la propria potenzialità curativa, è la società di cui fanno parte che non tiene conto della possibilità curativa che appartiene alla poesia.

A tal proposito, però, io starei molto attento: e non esagererei nel dire che la poesia automaticamente cura. Insisterei piuttosto sul presupposto per cui la poesia è una forma di altissima civiltà legata alla caratteristica più umana di tutte, che ci distingue da tutti gli altri esseri viventi, che è il linguaggio, la adopera in una chiave mentalmente e spiritualmente ecologica, conoscitiva e potenziata perché mette il ritmo, la musica, la suggestione degli impasti letterali accanto al valore degli enunciati logici, enormemente potenziandoli. In questa chiave, che comprende anche il gioco, la meraviglia, la gamma di sentimenti più ampia possibile, una grande poesia può salvare da una situazione di disagio psicologico o psichiatrico o interiore o sociale. Però non è che se una persona disturbata mentalmente va da un medico che gli dice “Legga tutte le poesie di Montale”, questo – dopo averle lette – se ne va guarito. Il medico coscienzioso gli prescriverà in primo luogo i farmaci più appropriati, poi – in un secondo tempo – modellerà sulle reali esigenze del suo paziente una procedura terapeutica particolare di cui la poesia può entrare a far parte. Voglio dire che se metto in mano una poesia a uno che sta dando di matto, non gli risolvo la patologia psichiatrica. La poesia è sempre un rapporto, non è una monade, non è che io risolvo i miei problemi leggendo una poesia. La poesia è un lento apprendimento, una lenta costruzione, la tessitura di una sensibilità, di un paesaggio interiore che accoglie la visione della poesia come visione anche sorprendente, quindi alla fine curativa, ma solo alla fine di un processo prima emotivo, poi percettivo, infine conoscitivo.

Come ho detto prima, io ho cominciato questo processo nel ’67, a dodici anni: e se incombe davanti a me un pomeriggio particolarmente buio in cui tutto mi va male, leggo un libro di poesie per uscirne, ma questa pratica ha radici molto profonde, viene da lontano. Non credo nella letteratura come cura prescritta con funzioni, posologie, dosi, pratiche terapeutiche ripetibili per tutti i pazienti e applicabili a specifiche patologie. A essere coinvolto in un protocollo omeopatico della poesia dev’essere per forza un soggetto aperto alla conoscenza attraverso il linguaggio, all’uso specializzato, potenziato, ritmato, musicale, emotivo, visivo, visionario del linguaggio, quindi prima occorre un addestramento prolungato e specifico alla poesia.

Noi adoperiamo o perdiamo tanto tempo e tante energie per imparare lo yoga, una lingua straniera o la briscola: o – ancora – a impratichirci nel tennis, nel tango o nella dieta vegana. Allo stesso modo, bisognerà occupare una parte non infima della propria vita per entrare nello specifico e nella competenza tecnica della poesia, arte plurimillenaria: cos’è una sillaba, cos’è una rima, cos’è un verso, perché si va a capo, perché l’informazione è concentrata all’inizio o alla fine e quindi nelle soglie di ingresso e di uscita piuttosto che al centro del discorso, come invece accade nella prosa. Una competenza va sempre conquistata, studiata, infine domata. La poetry therapy non esiste se io prendo una persona e le dico: “Adesso leggi una poesia e vedrai che domani stai bene”. Questa sarebbe soltanto una via di fuga, semplificata, semplicistica. Prima va compiuto un lungo processo di educazione alla poesia, individuato un soggetto che abbia questa disponibilità interiore a far risuonare il linguaggio in un’altra forma nella propria acustica più intima, scelto un testo adatto, costruito un gusto o almeno i presupposti di un gusto migliorativo: e si dovranno perciò somministrare grandi poeti e non piccoli poeti.

La poesia, infatti, è a rischio elevato di finzione, di infingimento, di mimesi passiva propalata da qualcuno che si finge poeta, che finge di trasmettere poeticamente qualche sentimento eletto, mentre inanella soltanto una serie di banalità: insomma, il confine fra alta poesia e mediocre poesia (da qualche tempo, nella poesia italiana si è fatto largo il “fenomeno” Guido Catalano: ecco, quella è non poesia dalla quale stare alla larga, è mera finzione di poesia) è sottilissimo e allora come elemento aggiuntivo, come elemento ecologico, come elemento di dialogo e di comunicazione e non come terapia d’urto, alla fine di tutta questa (salvifica) procedura, la grande poesia potrà anche essere usata in forma terapeutica.

A ciò si deve aggiungere che la poesia attraverso la metafora, che è una sua parte costitutiva, porta sempre dentro di sé un’esperienza di transfert, di trasferimento, di trasloco, di uscita da sé stessi, di passaggio attraverso. Anzi, letteralmente, la metafora implica un trasporto attraverso e/o oltre, il trasporto di un significato da un campo semantico proprio a un campo semantico improprio, perciò implica sempre un salto logico, ideale e trasformativo molto forte. E siccome sostengo che non esiste nessuna poesia vera o bella senza una metafora dentro, è chiaro che la metafora possiede questa dimensione traspositiva, vocata a portarti in un altrove, con tutto quello di positivo e negativo, di sorprendente e misterioso, che ci può essere nel viaggiare attraverso, fino a raggiungere un altrove. A volte può essere anche una via di fuga abbastanza facile, può essere una forma di nirvana. La poesia, e soprattutto la funzione poetica attraverso la canzone, hanno anche questa funzione di catarsi spicciola, provocando un’immedesimazione con le zone più corrive e superficiali della sentimentalità umana: e alla funzione poetica può appartenere anche il passaggio attraverso questa superficialità condivisa da una massa. Compito della poesia alta è penetrare da questa superficie verso gli abissi più oscuri e dolorosi del nostro essere. Certo, non si deve né si può essere troppo maniacali nel considerare poeti solo Dante o solo Shakespeare o solo i grandissimi: in realtà, esistono poesie più o meno appropriate per tutte le occasioni, per tutti i momenti della giornata, per tutte le psicologie, per tutte le storie esistenziali e le esperienze, che sono diverse per ognuno di noi. Ed esiste una poesia “media” (alla quale anch’io nel mio piccolo spero di contribuire) che può agire da terreno o brodo di coltura per la poesia davvero somma.

“Cura” può anche coincidere con un metodo nuovo, metaforico dunque linguistico, di riformulare su un altro piano, con una destinazione eminentemente transitiva e dialogica, la propria esperienza vissuta. Ma questo accade solo quando tutti gli ingredienti del testo poetico riescono ad armonizzarsi in un piatto riuscito. Una simile dimensione di commestibilità, di nutrimento, di concretezza appartiene alla fisionomia storica della poesia, che è costituita di tanti ingredienti: ma non sempre gli ingredienti si integrano nel modo più appropriato e non sempre si serve un piatto appetitoso, magari anche usando gli stessi ingredienti di poesie invece riuscitissime. Tutto può trovare una sintesi alta anche in un testo brevissimo come Soldati, un foglio di diario datato luglio 1918, che mi piace ripetere adesso:

Si sta come
d’autunno
sugli alberi
le foglie

È un testo che riprende un’immagine plurimillenaria di Mimnermo, dei lirici greci, e che descrive la fragilità della vita umana assimilandola a quella di una foglia, che Giuseppe Ungaretti risillaba dal cuore delle trincee della Prima guerra mondiale, imprimendo questa enorme forza dentro le fibre più riposte della parola, per cui, benché riprenda un mito ormai conosciutissimo, diffusissimo, lo ripete con un’energia straordinaria, che a cent’anni di distanza ti entra dentro come se Soldati fosse stata scritta oggi. Con sorprendente immediatezza, diventi anche tu partecipe dell’esperienza di Ungaretti, che è un’esperienza di limite, perché l’attesa di vita di un fante nelle trincee della Prima guerra mondiale era brevissima e la vita fondata su un principio di precarietà che il poeta riesce a trasformare in esperienza tua, che hai la fortuna di non essere mai stato coinvolto in una guerra mondiale. La poesia è questo. E questa è la dimensione della catarsi: riuscire con una grande dose di energia “buona” insufflata nel linguaggio a farti vivere un’esperienza che nella tua esperienza quotidiana non avresti potuto vivere mai, ma che vivi potenziata attraverso la poesia. In fondo, se posso introdurre una confessione tutta personale, la ragione per la quale – anche se appartengo a una generazione molto drogata – non ho mai fatto uso di droghe è perché ho sempre letto fin da ragazzino i poeti della beat generation, i quali si erano già drogati abbastanza al posto mio. In questo caso, la catarsi del paradiso artificiale già rievocato da Baudelaire a metà Ottocento è avvenuta attraverso un’esperienza poetica e simbolica, senza che avessi bisogno di usare anch’io sostanze stupefacenti, ma facendo mio il transfert di esperienze altrui, potenziate dalla loro capacità (che in questo caso coincide anche con un destino) di tradursi in poesie molto efficaci. Io ho visto dei luoghi attraverso la poesia che non ho più tanta voglia di vedere da turista. Il caso più clamoroso è la “città vecchia” di Saba, Trieste. Quando a quasi cinquant’anni ho visitato la città di Trieste per la prima volta da turista, non dico che sono rimasto deluso, ma certo non mi è capitato di incontrare la città della poesia di Saba o dei romanzi di Svevo. Quella Trieste non esiste più, ma è molto più affascinante della Trieste che si visita adesso in un weekend, nonostante il buon albergo e il ristorante magari stellato.

Svevo e Gadda sono gli unici narratori (non poeti, si badi bene) italiani con i quali io sono sempre d’accordo: nel loro più piccolo fanno parte del gruppo anche Daniele Benati, Vitaliano Trevisan, Simona Vinci e Guido Conti, ma per ragioni anche esistenziali. Con Svevo, poi, sono d’accordo in particolare quando afferma che la vita è una malattia incurabile. Svevo con questa battuta provocatoria vuole dire semplicemente che sappiamo sin da piccolissimi che la nostra vita è una commedia a  finale tragico. Noi viviamo infatti una pantomima tecnicamente tragica, perché l’eroe/protagonista (che siamo naturalmente noi stessi) è destinato a morire. Nessuno si salva dalla morte e quindi tutti siamo destinati a morire o prima o dopo, dopo una vita più tranquilla, più felice, più ricca, o dopo una vita povera e disgraziata. A fronte di una simile consapevolezza che ci tocca e ci coinvolge – non è così facile superare il trauma di vivere sapendo che saremo testimoni della scomparsa di molte delle persone a noi più care e che moriremo noi stessi – la poesia è qualcosa che aiuta a vivere meglio, perché aumenta la concentrazione verso la realtà e perché rafforza i filtri interiori, limitando il narcisismo, la volontà di potenza, la superficialità che affiora alle labbra dei singoli individui. Partiamo dal presupposto che prima di noi sono passati nel mondo diversi milioni di persone più sensibili e più intelligenti di noi, che magari hanno lasciato non solo delle poesie, ma anche altre opere d’arte, musicali, figurative, dei film, eccetera, e quindi riconosciamo che l’arte ci aiuta senz’altro a vivere meglio, in modo più profondo, più consapevole: e certo il morire più consapevoli è meglio, a mio parere, che il morire da idioti.

Al di là di Svevo, comunque, ci tengo a sottolineare – a mo’ di clausola – che alla poesia certo non fa male la frequentazione di grandi categorie come Ideale, Storia, Verità, Profezia, Preghiera: non come intenzione esterna o preesistente al testo, però, ma come conquista del testo in sé. La poesia, ci ha insegnato un premio Nobel come il messicano Octavio Paz, non è mai originaria, ma sempre originata: in quanto atto linguistico e in quanto espressione di una psicologia individuale e umana, parziale e dettagliata, precaria e istantanea. Se ci si riflette, nella storia del pensiero umano, la verità è sempre sfuggita alle filosofie sistematiche e onnicomprensive, per rifugiarsi e manifestarsi nei dettagli. Meglio di ogni altro, lo ha affermato un altro premio Nobel, la poetessa polacca Wieslawa Szymborska, con una sentenza tutta da sottoscrivere: “Le persone si istupidiscono all’ingrosso e rinsaviscono al dettaglio.”

 

Frontiera 

 

In ogni caso, quando si parla di poesia, non si deve aver paura del “metafisico”, che non vuol dire necessariamente “trascendente” in senso religioso ma che coinvolge ciò che è al di là della nostra esperienza meramente sensoriale, ciò che attraversa, trasferisce e va oltre: la poesia è anche lo svolgimento etimologico della parola metafora, il meccanismo profondo di ogni poesia che si rispetti. E la poesia possiede sempre una dimensione paradossale e antitetica, di frontiera (umana e intellettuale, psicologica e storica, stilistica ed esistenziale) fra due opposti: e anche per questo è un linguaggio tanto attuale, in piena sintonia con le infinite contraddittorietà dell’epoca nostra.

In contrasto con lo spirito dei tempi (e della mia generazione), fin da quando ero molto giovane, vale a dire dal tempo delle mie prime letture fra i 14 e i 15 anni (in anni molto ideologici, anzi duramente ideologici) io ho scommesso tutto il meglio che mi portavo dentro sulla poesia e non sull’ideologia o sulla politica. Gli slogan maoisti e castristi non mi hanno mai coinvolto, né tantomeno appasionato, anche se mi sento decisamente un democratico progressista e dunque ho sempre votato, con orgoglio e convinzione, a sinistra. I revanscismi e i negazionismi di oggi mi trasmettono un senso sincero di orrore, così come l’abolizione della Storia dai processi mentali attraverso i quali le generazioni più giovani interpretano il mondo. Ma il mio essere di sinistra non passa assolutamente per le categorie marxiste, piuttosto attraverso una riflessione spietata sui meccanismi dell’antisemitismo e del nazionalismo che hanno portato la civiltà europea direttamente ad Auschwitz, oltre che sulla forza oppositiva di tutte le forme che la storia ha proposto di Resistenza ai molti nazifascismi che hanno attraversato tutto il secolo breve (1914-1989, secondo lo storico inglese Hobsbawm) e che forse non hanno mai smesso di agire all’interno delle società occidentali, Europa in testa. E a questo ho dedicato un libro uscito all’inizio del 2020, intitolato Una questione finale, il cui titolo riprende quello del libro italiano più bello sulla Resistenza, Una questione privata di Beppe Fenoglio.

Oggi, questa mia scommessa che considero azzeccata è una ragione d’orgoglio perché la lingua della poesia si è dimostrata una lingua vincente lungo l’arco dell’intero Novecento: infatti, è stata l’unica lingua capace di descrivere una complessità e una contraddittorietà “storiche” di rara drammaticità, con tutti i genocidi, i lager, i gulag che il Novecento ci ha inflitto, ma anche con tutta l’energia progressiva e progressista, di ricerca e di crescita che il Novecento ha donato al nostro mondo occidentale. Con il grande sistema di metafore, traslati, metalessi, spostamenti di senso, liberazioni metrico-prosodiche, paradossi, ironie, straniamenti, che sono la linfa delle sue lingue, la poesia si è trovata davanti al compito immane di fecondare secondo ragioni tutte nuove i grandi musei tematici dei suoi due nuclei mitici (quello greco-romano e quello giudaico-cristiano) con la nuova esperienza della vita quotidiana condotta dall’uomo-massa (tuttavia ancora in lotta per una piena consapevolezza di sé come individuo unico e irripetibile), che aveva assistito nel frattempo alla morte di tutti i suoi possibili dei. A mio parere, anche adesso, quella della poesia è la competenza umana che meglio di ogni altra può provare a indagare e a spiegare la realtà contemporanea, mentre tutte le altre discipline che ho imparato nella mia formazione bolognese, dalla sociologia alla linguistica, alla critica, alla filosofia, alle arti figurative e al teatro tradizionalmente inteso mi sembrano veramente troppo datate e comunque non più adatte a descrivere una realtà magmatica e contraddittoria come quella che stiamo attraversando.

L’altra ragione di orgoglio coincide con la constatazione che la letteratura abbia un senso se produce dentro di sé gli anticorpi, e quasi gli antidoti, per uscire dalla propria autonomia, ma soprattutto per uscire dal letterario. Ed è bello che, alla fine dei miei lunghi decenni di apprendistato (non si finisce mai di imparare, quando ci si occupa di poesia), questa certezza mi venga dai maestri “iperletterati” che mi è capitato di incontrare: a partire dal primo e principale, Ezio Raimondi, per continuare con Giovanni Giudici, Alberto Bevilacqua, Raffaele Crovi. Dal loro insegnamento ho compreso infine che la letteratura, per trasformarsi in vera poesia, deve tornare a un certo punto alla vita, trovarsi – alla fine di un processo di acculturazione e di consapevolezza – di nuovo disarmata di fronte alla vita per cui i calligrafismi, che pure oggi sono così diffusi, mi fanno sempre più orrore, anche i miei, insieme con un poetese sempre più diffuso e insinuante Oggi, sono convinto che la letteratura debba uscire da sé per essere vera letteratura. In fondo è poi anche quello che ci hanno dimostrato i veri grandi scrittori, da Kafka, a Proust, a Svevo, a Gadda, a Montale Caproni Sereni Rosselli, portatori sani di un’iperletterarietà votata infine a far ritorno a una parola prima di tutto umana e denudata davanti alle contraddizioni dell’umano.

Certo, le due soglie davvero metafisiche dell’umano sono l’Amore e la Morte. Ecco, il tema fondativo – quando si parla di poesia – è la dimensione apotropaica della parola e del suo predisporsi a far riecheggiare nei testi più riusciti (basta pensare a Dante, alla “selva oscura” che si situa al principio della nostra tradizione in lingua di sì) la voce dei morti. Della prima volta che ho percepito in modo drammatico la consapevolezza del destino di morte che tutti ci accomuna conservo un ricordo molto preciso ed è un ricordo che precede il mio innamoramento per la poesia. Avevo 8 o 9 anni, quindi doveva essere il ’63 o il ’64, e stavo sul divano del tinello in braccio a mio padre, quando scoppiai in un pianto dirotto. Lui in casa spesso stava con la canottiera, nei mesi primaverili o estivi, e quindi ho un ricordo preciso del suo collo e della spalla nuda, da cui a un certo punto sollevai la testa, già in lacrime, lo guardai in faccia e gli dissi: “Papà, ma è vero che dobbiamo morire tutti? E quindi morirai tu e morirò anch’io?”. Lui mi rispose che era vero e che a tutti noi sarebbe toccato un giorno di morire, tanto che io continuai a piangere in modo ancora più violento. Quindi la prima sensazione di morte fu autoindotta dal mio rimuginìo mentale e non provocata da uno specifico evento luttuoso.

Per quanto riguarda il gusto cui si può associare il senso della morte, penserei a un tè molto forte, di quelli che poi ho imparato a bere in tempi più recenti, tipo il tè nero, oppure sicuramente a una vodka, che, infatti, è un liquore che non amo particolarmente e che cerco di evitare (non sempre riuscendoci) proprio perché con la sua secchezza e questo suo bianco di ghiaccio, questa trasparenza assoluta, mi fa  pensare alla morte. Come colore, naturalmente, il nero. Vado nell’ovvietà del luttuoso, che coinvolge il colore della mia stessa automobile, ma che, tutto sommato, non amo. Non amo non tanto su me stesso perché se mi capita di portare dei jeans neri, o una maglia nera, non ho nessun problema: non lo amo come colore di moda. Il fatto che la mia compagna e le sue amiche, quando vogliono essere eleganti, si vestano integralmente di nero è una cosa che io contesto fortemente e mi vengono in mente i colori che invece usavano nell’antica Roma o nelle corti durante l’autunno del Medioevo, che erano colori vivi, rossi, turchesi, verdi… Nondimeno, perfino gli emblemi della nostra idea di classicità, le statue e i bassorilievi di Fidia, nel mondo greco, erano tutti colorati in modo molto vivace (ori, turchini, porpore), così come segno di distinzione, nella Firenze medicea e rinascimentale, era portare degli abiti molto colorati, simboli di raffinatezza perché era più difficile trovare i colori. Anche nel femminile mi piacciono molto gli abbigliamenti colorati. Il nero come abbigliamento di moda e di distinzione mi mette tristezza.

Nella mia vita interiore, la presenza della morte non è affatto saltuaria. Negli anni, confesso di aver maturato un’angoscia violentissima nei confronti della morte e dell’idea che tutti dobbiamo morire: cioè non sono affatto cambiato, da quel pianto primario, esploso nel mio tinello modenese, cui accennavo poco fa. Anzi, mi sorprendo, in giorni particolarmente cupi, a fare una specie di conto alla rovescia di quanto mi rimarrà ancora da vivere: anche perché ultimamente molti amici cari o sono morti o versano in situazioni di salute molto rischiose. In questo momento, per esempio, sto andando a trovare all’ospedale un mio amico vero, con cui ho fatto molti viaggi familiari, di coppia, sia a Parigi che in Maremma, ecc., che sta vivendo una terribile esperienza di leucemia fulminante e che deve seguire protocolli di cura pesanti e rigidi, in attesa di un trapianto di midollo. Alla fine, il trapianto è andato bene e l’amico è guarito, ma in ogni caso, sì, io continuo a essere ossessionato dalla morte, ci penso tutti i giorni e cerco, in qualche modo, di esorcizzarla. In proposito, sono assolutamente convinto che l’unico modo sensato, umano, per esorcizzarla siano le soglie sempiterne, le frontiere di metamorfosi e di transfert, dell’Eros e della Poesia. E la poesia è per me un appiglio, uno strumento umano sempre più fondamentale per riuscire a elaborare l’esperienza del lutto e per difendermi dall’insistenza sempre più ingombrante dell’idea di morte. La realtà del mio soffrire di vertigini e del terrore anche solo di affacciarmi a un primo piano è legata al fatto che, naturalmente, sento affiorare con prepotenza il desiderio di buttarmi di sotto. Avverto in quei momenti un’attrazione del vuoto davvero fortissima e non è un problema di orecchie o di equilibrio nell’orientamento. È un problema psicologico di attrazione alla morte, per annichilirne la pervasività del pensiero.

In me, ma soprattutto nel mio rapporto con la poesia (lo ripeto, più letta che scritta), non è mai rimosso il dialogo con i morti, nel senso che l’angoscia di cui sto dicendo non mi impedisce mai di parlarne, attraverso la poesia, anche se, ovviamente, cerco sempre di guardare la realtà con occhio molto lucido. Ritengo che la poesia sia lo strumento più potente che abbiamo per far parlare i morti e per dialogare con i morti. Spero che, magari, loro, i più cari, i nonni i genitori le amiche e gli amici sopravvivano ancora per qualche anno dopo la mia morte attraverso alcuni versi e che, in qualche modo, se non altro il mio fiato, la mia voce, possano anche solo flebilmente ripercuotere le loro esperienze, i loro nomi, i loro profili attraverso l’aria dei vivi: di certo non preconizzo una sopravvivenza decennale, o centenaria, o millenaria, ma una sopravvivenza minima, di qualche mese, di un paio d’anni, mi farebbe molto piacere.  Tutto sommato scrivo anche per questo, se non soprattutto per questo e, paradossalmente ma non troppo, leggo soprattutto per questa ragione. Adesso, ad esempio, come prossimo obiettivo, vorrei provare a tradurre il poemetto di Auden L’età dell’ansia, che è, in fondo, il grande poemetto della morte di una civiltà, che è la nostra, perché è stato composto nel ’45-46. E coincide con una testimonianza diretta (e di altissima incandescenza artistica) del secondo dopoguerra, quando la nostra civiltà si è trovata a dover constatare la morte di una buona parte dei principi su cui si era fondata fino ad allora.

Intanto, i morti parlano nella mia poesia con volti che non hanno più le fisionomie “fotografiche” di quando erano in vita, con lineamenti un po’ stravolti. Per questo, devo dire, mi capita di far ricorso a certo cinema, soprattutto a certe serie televisive che vanno verso il paranormale (uso ancora questo termine arcaico), verso comunque il fantasy, o a certi fumetti. Penso per esempio alle violazioni delle fisionomie anagrafiche, verosimili, che partono da Andrea Pazienza, un altro straordinario artista mio coetaneo, morto troppo giovane per overdose. Ed è vero che, quando si affacciano nei miei dormiveglia troppo agitati, i morti assumono le facce di molti personaggi dei fumetti di Andrea Pazienza, o le sembianze dei personaggi di certe serie televisive, penso soprattutto a X-Files o a Les Revenants. D’altra parte, è ormai un dato di fatto che la capacità evocativa che sugli adolescenti della mia generazione esercitava il fumetto, oggi è invece pertinenza dei serials. Poi, dei morti mi colpisce soprattutto la voce distorta, che è una voce roca, fioca, che trasmette all’udito interiore (patrimonio di ognuno di noi, non solo dei poeti: i bravi poeti sanno solo esercitarlo meglio, in modo più “metrico”) l’idea di un aldilà, che a volte mi capita di percepire, in certe apparizioni o attraverso alcuni fantasmi sonori più che visivi.

Prima si è parlato di sogni. C’è una mia poesia recente in cui il soggetto che parla dichiara che nell’estate del 2015, mentre era disteso in dormiveglia, in uno di quei giorni di calura pazzesca con le serrande della casa abbassate, ha ricevuto la visita dei suoi genitori, i quali gli hanno detto delle frasi, delle parole, che il soggetto in questione – ormai in veste di autore – ha cercato di trascrivere senza riuscirci fino in fondo. Pare che, in realtà, parlassero fra loro piuttosto che con lui. Quello che mi ha colpito (è bene calare la maschera, quel soggetto naturalmente coincideva con me che sto parlando adesso) è che, appunto, quei fantasmi genitoriali discorrevano non con le loro voci come le ricordavo, ma con voci stravolte, molto distorte e molto fioche, come con un ansito violentissimo dentro. Una distorsione e una lontananza come di eco che ho ascoltato anche più di recente al telefono – non dico da chi perché non voglio portargli sfortuna – da uno di questi amici che si sono scoperti il cancro e che per dirmi che stava bene, che l’operazione era andata bene, parlava con una voce che veniva da un aldilà. Questo mi ha molto colpito e molto impressionato.

Bisogna anche considerare che nel mio dna personale e generazionale, condiviso proprio con Stefano Tassinari subito prima del viaggio in Perù cui ho accennato in precedenza, si è inciso un aborto subìto, nel senso che le nostre compagne erano rimaste in attesa di un nostro figlio e hanno deciso entrambe –  nate, peraltro, entrambe il 26 gennaio, per una coincidenza davvero singolare – di abortirlo (nel mio caso nel novembre 1980), con la motivazione che non sarei stato un padre all’altezza e che la futura madre non mi amava abbastanza (o per niente, adesso non ricordo). Curiosamente erano proprio gli anni di lotta anche per il diritto all’aborto. Io e Stefano, entrambi di sinistra, lui più di me, comunque sostenitori convinti del diritto femminile all’interruzione di maternità, ci trovammo a lottare perché questo aborto non venisse compiuto. Ci rendemmo, in realtà, disponibili a diventare padri. Ovviamente, nessuno dei due poi è mai più diventato padre, non c’è più stata l’occasione. È una cosa che rimpiango solo in parte. Rimpiango l’occasione in sé, non la mancata paternità. Io adesso avrei un figlio, o una figlia, di 40 anni e non so come sarebbe il mio rapporto con lui, o con lei, ma mi incuriosirebbe. Rimango dell’opinione dentro di me che sia stato un errore grave compiere quell’aborto ed è una cosa della quale mi dispiaccio in profondità.

L’altro problema vero, legato a questo, è il fatto che io credo che alla fine, anche negli ultimi minuti, ci si possa preparare alla morte, ci sia un campanello d’allarme dentro per cui uno si accorge che sta per morire, non è tutto immediato, non è che uno muore immediatamente, c’è qualche minuto, se non altro, in cui uno trapassa: invece il sentimento di questo passaggio non si percepisce nell’esperienza della nascita. La nascita non si ricorda. In proposito ci sono quelle pagine potentissime del romanzo che si intitola Tristram Shandy di Sterne, un romanzo inglese del ‘700 che trovo ancora straordinario. Quindi, se voglio vivere l’esperienza della nascita, leggo quelle pagine. La nascita è qualcosa di involontario. Io non ho chiesto di venire al mondo, di essere come sono adesso, di avere il dna – unico e insostituibile – che mi ha fatto, mi fa e mi farà vivere la vita che ancora vivrò. Di nascere non l’ho chiesto a nessuno, è stata una decisione, un atto compiuto da due altre persone per me, fino a quel momento, completamente estranee. E del nascere continua a provocarmi questa involontarietà, questo non averlo chiesto, mentre di morire puoi chiederlo, puoi addirittura provocarlo e quindi ne sei, in qualche modo, se non responsabile, consapevole. Nella nascita non c’è né questa responsabilità, né questa consapevolezza. Questo mi ha sempre molto affascinato anche se non ho mai desiderato, naturalmente, di assistere a un parto. Credo sia un’esperienza molto violenta e molto privata che non sento il bisogno di vedere in prima persona, non essendone coinvolto.

A questo proposito, ogni tanto qualcuno mi chiede: “Quante volte si nasce in una vita?”.  E qualcun altro aggiunge: “Ma è una domanda che ti riguarda, senti che ti possa riguardare?” Io penso sempre che sì, sono domande appropriate. Ogni volta che ci si trova davanti a ingorghi che poi si sciolgono, a curve sulle quali sentiamo che sicuramente usciremo di strada, poi alla fine però la vita continua. Credo che lì accada assolutamente una sorta di rinascita, o di nascita seconda, al di là dei rischi che si possono correre, di incidenti o di malattie particolari, però non ho mai avuto incidenti talmente gravi da potermi essere sentito davvero vicino alla morte (sto facendo tutti gli esorcismi del caso, quelli che in genere pratico solo all’ippodromo). Non ho avuto, per fortuna, finora neanche malattie talmente gravi da dire “forse morirò di questo”.

Certo, io non sono per nulla credente, in nessuna forma, però credo di avere in qualche modo percepito e interrogato il pensiero di Dio, anche come problema biologico. E sono sicuro al mille per mille del fatto che non tutto dell’esperienza umana e dell’esperienza terrestre si può percepire con i nostri semplici sensi fisici e materiali, perché – insomma – la realtà non può ridursi soltanto a “quella che si vede”, in accordo con il Montale della più bella poesia d’amore del Novecento, Ho sceso dandoti il braccio almeno un milione di scale. L’esperienza sensoriale, nel suo rapporto inesausto con la nostra interiorità, produce immagini anche di ordine spirituale, psichiatrico o, se si vuole, fantasmatico, in virtù delle quali io sono realmente convinto che i miei genitori fossero lì nel corridoio, davanti alla porta della stanza in cui sonnecchiavo quel giorno d’estate del 2015. E mi è capitato anche con altre persone, in altre circostanze, di avvertire come dei sibili o dei mormorii che potevano essere delle voci, dei richiami, delle parole, delle frasi disperse nell’etere e provenienti da un passato psichico, onirico o anche – perché no – realmente autobiografico.

Non voglio spingermi fino a credere – adesso poi che sono di moda diverse filosofie o religioni orientali – in una sorta di metempsicosi, di rinascita in altre forme o di trasbordo di anime da un corpo all’altro, però – nella sfera dell’umano – non esiste nemmeno solo una corporeità nuda e cruda. Quella che chiamiamo spiritualità, che a me non piace chiamare anima e che preferisco chiamare psiche o inconscio,  produce azioni, non solo fantasime o impressioni o miraggi ma plasma probabilmente anche scene concrete, movimenti nell’aria, danze o fotogrammi fisiognomici che s’incidono in certe proiezioni naturali, in certe “situazioni”. Anche qui dobbiamo ricorrere alle metafore ma io sono certo che dietro le metafore riuscite ci sia una dimensione metafisica, che rappresenta ciò che è al di là, ciò che è oltre la materialità fisica. E credo che da questo “oltre” affiorino molte possibilità, di cui la buona poesia è ad un tempo suscitatrice e garante. C’è anche da dire che ho sempre molto dialogato con persone credenti, fra le quali spicca quella mia “migliore amica”, che ho già evocato più volte in queste pagine. E questo dialogo è centrale nel mio romanzetto di formazione e quindi nella mia fisionomia interiore. Anche se, ripeto, non credo in nessuna forma di religione incarnata, in nessuna forma di credo o di fede, che sia la nostra cristiana o tantomeno un’altra. Di certo, con Croce, è chiaro che in quanto italiano non posso non dirmi cristiano, perché ho vissuto in una società fortemente cristianizzata. Non me ne vergogno, sono contento di aver ricevuto i sacramenti dell’infanzia, la cosa non mi infastidisce: però di sicuro non sono praticante e nemmeno credente in un qualsivoglia aldilà. Credo piuttosto nel sostrato mitico di ogni nostro pensiero, ma oltre questo non vado: e i monoteismi di matrice mediorientale non fanno proprio per me.

La pratica della poesia, però, incarna una forma di preghiera. Anzi, mi spingo volentieri fino ad affermare che la poesia è la forma più alta di preghiera a disposizione dell’umanità, anche perché plasmata nel e per il linguaggio, che è un meccanismo complicatissimo, tanto naturale quanto convenzionale. Se si pensa soltanto all’integrazione di organi che servono per poter parlare e per poter intendere il linguaggio, dove anche semplicemente una raucedine, o un’infiammazione a una corda vocale, o un’otite fastidiosa, ti impediscono di parlare in modo comprensibile e di ascoltare. Se per l’appunto riflettiamo su questa complessità, essendo la poesia la forma più elevata e potenziata possibile, più energica ed energetica possibile, di linguaggio, è chiaro che il linguaggio della poesia tocca il metafisico e quindi certamente assume, annette a sé, la forma della preghiera. E io non mi vergogno di dire che in certe circostanze ho una necessità quasi fisica di pregare. Certo, prego attraverso la poesia, non attraverso il Padre Nostro o le preghiere che mi hanno insegnato da bambino. E di volta in volta scelgo la poesia/preghiera che ritengo più adatta per esercitare questo bisogno.

 

Libertà

 

La poesia, storicamente, ha fatto sempre paura ai poteri costituiti, che l’hanno considerata una mina vagante o una cellula anarcoide incistata nei meccanismi di rappresentazione culturale delle diverse società. Nel mondo globalizzato (e spesso democratico solo in apparenza e in superficie) di oggi, si pone il problema se la libertà d’espressione debba tener conto di altre libertà (per esempio legate a religione, credo politico, ruoli istituzionali, memoria storica,…) o debba invece essere illimitata. Tutto dipende, naturalmente, dal contesto entro cui si esercita o si è chiamati a esercitare un’autentica libertà d’espressione. In primo luogo, occorre comprendere se ci si trova a vivere in uno stato totalmente e integralmente laico oppure in uno stato in cui credo religioso e struttura di governo coincidono. L’Europa sarebbe un’entità sulla carta laica, fondata com’è sui principi derivati dalla Rivoluzione francese, ma le due guerre mondiali, i totalitarismi, i genocidi, i processi migratori accaduti al suo interno lungo il Novecento hanno molto modificato questi termini e questi principi. Oggi, in particolare, permangono diversi focolai di guerra, mentre l’immigrazione massiccia da realtà fortemente orientate sul piano religioso come quella islamica, con l’appendice del suo fondamentalismo terrorista, ha modificato e sta modificando nel profondo la nostra alchimia antropologica. Europa è Lampedusa, così come lo sono  le banlieues di Parigi e di Londra; ed è Europa la Polonia dove vive un 96% di cattolici bianchi e convintamente confessionali e dove non c’è traccia di Islam. Per quanto riguarda il mio pensiero, la libertà d’espressione non dovrebbe essere mai limitata, se non dai confini naturali dell’insulto gratuito e della calunnia, contro i quali peraltro agiscono già i sistemi giudiziari dei diversi paesi “civilizzati” in senso occidentale.

Aggiungo che, dal mio punto di vista, alla rappresentazione artistica stanno toccando un’importanza, una diffusione e una ricezione sempre più deboli e insignificanti, nel costituirsi del dibattito intellettuale interno all’odierna realtà europea. Prigioniere un po’ dei meccanismi dello star system, un po’ dell’indebolimento progressivo della memoria individuale e collettiva, un po’ della loro incapacità di mettere a partito in modo dinamico e non passivo i nuovi media comunicativi ed espressivi, oggi e qui le arti svolgono una funzione educativa e conoscitiva assai più ridotta, flebile, effimera, interlocutoria e periferica rispetto alle epoche e alle generazioni del passato. In primo luogo, è del tutto venuta meno un’idea di arte come memoria comune, libera dai rigidi meccanismi del profitto economico. Con la sua radicale indipendenza dalle strutture economiche, la poesia è da questo punto di vista favorita e gode infatti di un invidiabile stato di salute, anche nella dimensione qualitativa che riguarda specificamente l’Italia. Comunque, sì – fatta salva la loro differenza ontologica – rappresentazione artistica e opinione personale devono godere di un medesimo grado di libertà: ma l’arte, a patto che sia vera arte e non mero esercizio di provocazione, deve godere di una libertà se possibile ancora più integrale, anche al di là e al di sopra dei codici comportamentali precostituiti nei singoli stati e nelle singole culture.

A proposito della libertà d’espressione in sé, è poi chiaro che l’insulto gratuito, la persecuzione esercitata con violenza psicologica e fisica da parte di un gruppo sul singolo individuo (vedi gli estremismi ultras elevati a modello sociale attraverso il tifo calcistico o i radicalismi pseudoideologici), l’intimidazione gratuita rivolta ai soggetti femminili da parte di pretese strategie di conquista da parte del “maschile” non sono sintomi di libertà, bensì di coercizione da sorvegliare e punire. Voglio dire in sostanza che ambito pubblico e ambito privato non devono affatto differire, sul piano della libertà d’espressione, tenendo anche conto dei meccanismi molto rischiosi delle cosiddette fake news, nei quali siamo spesso coinvolti senza rendercene nemmeno conto. In ogni caso, non è facilmente sottoscrivibile la limitazione della libertà dei cittadini di esporre o indossare simboli religiosi, politici o di appartenenza etnica, a maggior ragione se in contrasto con i sistemi dominanti: però questi simboli non dovrebbero in alcun caso essere orientati a una gratuità meramente offensiva esercitata dal più forte sul più debole. In sostanza, penso che il diritto di critica attraverso la satira debba essere difeso in senso lato, purché si esprima in un contesto di pari opportunità di reazione affidata a mezzi “simbolici” equivalenti. Quanto all’abbigliamento imposto da una religione, distinguerei tra situazioni private, dove ognuno dev’essere assolutamente libero di fare quello che gli pare; e adempimento di funzioni pubbliche. In questo caso, non tollererei che un mio ipotetico figlio avesse per insegnante (o che io stesso dovessi contattare in un ospedale o in un ufficio pubblico) una persona che per esempio indossasse sistematicamente il chador, a “santificare” a mo’ di divisa – per propria osservanza religiosa – un’appartenenza “limitata” e segregata.

Farei un’ulteriore eccezione a priori per l’apologia di nazifascismo, che continuerei invece a sanzionare solo in quanto tale (considero la ferita e l’abisso di Auschwitz ancora non redenti, nella coscienza e nella storia occidentali). Naturalmente è diverso se queste apologie dell’illegalità le manifesta un privato cittadino (ancora non è stata studiata abbastanza l’influenza esercitata per esempio da facebook a istigare frasi, reazioni, provocazioni patologiche e atteggiamenti demenziali) o le proclama un sacerdote di qualunque credo o un militante politico inserito nei meccanismi di un qualsivoglia potere, con la possibilità di fomentare e promuovere odio e comportamenti aberranti in coscienze più fragili e comunque subordinate. Il confine è sottilissimo, ma in questi casi penserei a una gogna mediatica, a un processo condotto per via di incontrovertibili argomentazioni etiche, giuridiche, culturali (penso alla permanenza più o meno subliminale di certi atteggiamenti razzisti, nello specifico, e alla necessaria elaborazione da parte degli artisti di modelli culturali che ne facciano comprendere l’insensatezza), piuttosto che a una condanna in sede penale o carceraria.

A queste riflessioni si collega la questione della liceità della violenza, magari per l’affermazione di un ideale o per la difesa di valori per i quali si è disposti a sacrificare la propria vita: nel mio caso, l’antinazifascismo e i principi di Libertà, Eguaglianza e Fraternità. Per la riaffermazione di questi princìpi, insieme con quello più generale di “Pace senza se e senza ma”, credo che valga paradossalmente la pena di ricorrere anche alla violenza. Quanto al sacrificare la propria vita, per quello bisogna avere la stoffa degli eroi e io non la possiedo proprio. A proposito poi del ricorso alla violenza per difendere i propri ideali, occorre valutare caso per caso, fase storica per fase storica, situazione per situazione, paese per paese, forse perfino individuo per individuo. In linea di massima, però, il ricorso a una violenza concreta, fisica, materiale allo scopo di difendere un principio in quanto tale astratto mi piace sempre pochissimo, ne diffido istintivamente: preferisco di gran lunga i confronti dialettici o – per l’appunto – le elaborazioni e le sublimazioni artistiche. Certo, la guerra contro Hitler e Mussolini andava combattuta, ma la Grande guerra del ’14-‘18, per converso, doveva e poteva essere assolutamente evitata.

Dal mio punto di vista, inoltre, i valori della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 sono assoluti e universali, anche se poi tutto – nell’umano – è soggetto al Tempo, alla sua velocità, alla sua direzione plurale e alla sua doppiezza costitutiva fra dimensione cronometrica e durata soggettiva. Tuttavia, prima di mettere in soffitta a cuor leggero o in base a una suggestione modaiola o sulla spinta di un impeto generazionale valori tanto condivisi e costati tanti sacrifici anche umani quali quelli della Dichiarazione universale formulata nel ‘48, occorre avere ben chiaro un altro sistema di valori altrettanto solido e fondato su basi etiche altrettanto efficaci, giuste, condivisibili: acquisizione che oggi è drammaticamente impossibile. L’entropia è in agguato, le dinamiche sociali sono molto rapide e agguerrite, i “politici” prodotti dalle nuove generazioni appaiono drammaticamente incolti, ma la difesa dei più deboli e dei meno garantiti dev’essere un’esigenza ancora condivisa, nel cuore della cultura europea.

Tuttavia, è poi un dato di fatto che le civiltà di cui il nostro pianeta è ricco entrano facilmente in conflitto, anche se non necessariamente questo avviene per l’osservanza di dogmi religiosi contrapposti. Certo, i fondamentalismi d’ogni razza e colore sono in agguato e vanno combattuti sul terreno sociale delle concrete situazioni quotidiane, entro la realtà ibrida, plurivoca, multirazziale e naturalmente conflittuale degli infiniti “non luoghi” di cui è punteggiato il nostro primo mondo occidentale. È comunque un dato di fatto che, mentre politica e cultura non hanno saputo ancora elaborare paradigmi radicalmente nuovi di organizzazione e di espressione, religione ed economia hanno assunto a poco a poco (e in forma altamente traumatica) il controllo della dialettica contemporanea – o, più semplicemente, la “scaletta” degli argomenti che è opportuno trattare – in un mondo ingiusto, globalizzato, conflittuale come mai prima. Io, poi, non credo affatto che ci sia un sistema di valori in sé migliore o più civile degli altri, anche se mi rispecchio integralmente nella mia tradizione di cittadino di un mondo occidentale che – a partire dai valori dell’humanitas antica e attraverso la spinta propulsiva delle rivoluzioni esplose a cavallo fra Sette e Novecento – si è propagato fino a noi. Ma la storia dimostra che il meglio dell’umano viene dal confronto, dal cambiamento, dal movimento spazio-temporale, dalla mescolanza genetica, dall’apertura all’Altro: tocca alle culture di inventare, plasmare e rappresentare sistemi sempre più flessibili e creativi di integrazione e interazione fra le diverse civiltà, tanto nella profondità cronologica quanto nell’estensione geografica.

A ciò si deve aggiungere che lo stato della libertà d’espressione oggi in Italia non è così positivo come può apparire a uno sguardo superficiale ed esterno. Formalmente va tutto bene, giuridicamente, culturalmente e idealmente è (quasi) tutto consentito, ma la presenza e l’azione sul territorio di mafie e potentati d’ogni tipo e natura, la corruzione endemica, il sedimentarsi di una classe politica fragile e incompetente, le chiusure sempre più dogmatiche della Chiesa (almeno fino all’avvento di un Papa come questo Francesco, che qualche apertura in più sembra garantirla, al di là della sua appartenenza gesuitica, in sé pedagogicamente barocca e “teatrale”), l’uso superficiale e commerciale dei media di trasmissione del sapere e dell’informazione tendono a produrre e a diffondere un atteggiamento di distrazione e di superficialità generalizzate. Quanto agli argomenti tabù, i passi indietro più evidenti sono stati compiuti nella sfera della scolarizzazione, dell’educazione e dei diritti civili: il grande dibattito tra cultura laica e cultura cattolica provocato tra gli anni ’60 e gli anni ’80 da questioni roventi quali divorzio e aborto sembra del tutto sopito, rimosso, forse per l’influsso tranchant della strategia della tensione fra piazza Fontana (1969) e la bomba alla stazione di Bologna (1980), oltre che per lo strapotere crescente delle mafie che tuttora infestano il nostro paese.

Anche la letteratura ha colpe proprie, in questa prospettiva, se è vero che i grandi, auspicabili romanzi-opere mondo su mafia, terrorismo, tangentopoli, calciopoli e quant’altro non sono ancora stati scritti o non sono stati scritti in una lingua letteraria trascinante e compiuta: è esempio di quanto affermo il caso di Gomorra di Roberto Saviano, un libro senz’altro da leggere come atto etico, ma senz’altro da non leggere come fatto letterario, perché è scritto davvero male. Probabilmente, però, la questione davvero rovente concerne oggi la liceità, il ruolo, lo statuto attorno ai quali ruotano il senso e la sopravvivenza stessa dei generi letterari. Lo scrivere in versi, per esempio, ha ancora una funzione necessaria entro la letteratura che si produce e si trasmette oggi? E valori come memoria, tramando, tradizione devono ancora venir difesi, in un contesto barbarico come il nostro? Ma la poesia è sopravvissuta, nei millenni e nei secoli che l’hanno accompagnata fino a noi, anche a dubbi, scelte, dilemmi assai più drammatici. Certo, le biforcazioni dei sentieri che la poesia si trova di questi tempi a percorrere sembrano riprodursi quasi all’infinito.

Comunque, è un dato di fatto che – quando negli anni Sessanta la poesia ha cominciato a imboccare strade sperimentali lontane da una cultura condivisa (benché in Italia si possa parlare di cultura condivisa solo con molta cautela) – la funzione poetica ha continuato a essere soddisfatta da un linguaggio musicalmente orientato e ritmato. E autori come Giudici, Sereni, Caproni, Bertolucci, Luzi (tranne il primo oggi compirebbero tutti all’incirca un secolo di vita) hanno continuato a giocare su parallelismi e ripetizioni, pescando nel profondo degli individui, nei sentimenti e soprattutto nei tragitti di quelle due fondamentali coordinate umane che sono l’amore e la morte, di cui la poesia si occupa quasi per statuto. Precisato questo, ribadisco che la funzione poetica negli anni Sessanta è stata ceduta dai poeti professionali e “scritti” ai grandi vettori nuovi di linguaggio emotivo che sono stati la canzone, la pubblicità, i tormentoni comici, il videoclip. Tanto il linguaggio pubblicitario che il linguaggio della canzone si sono avvalsi con molta forza della funzione poetica. Il rischio è che, quasi mezzo secolo dopo, nell’immaginario di molte o troppe persone la funzione poetica sia rimasta ancorata alla dimensione cantautorale o canzonettistica o rap o pubblicitaria, senza che esista più la minima cognizione e necessità della poesia silenziosa, scritta, non accompagnata da musica, che impone una lettura concentrata e spesso solitaria. Se ci si riferisce a questo, se si afferma che la poesia è questo tipo “tradizionale” di poesia, no, oggi in Italia non incide quasi per niente; se invece si parla di funzione poetica, credo che questa – anche nell’odierna dimensione massificata – incida molto, adesso più che mai.

La poesia non può cambiare il mondo, né – da una posizione tanto parcellizzata e minoritaria come quella odierna – può pensare di essere un fattore determinante o paradigmatico entro la realtà contemporanea. Può tuttavia cambiare qualche coscienza e può contribuire al necessario rinnovamento delle lingue, acuirne la complessità e la capacità di far interagire saperi umanistici e conoscenze tecnico-scientifiche. Ma non più di questo, al di là del dialogo specializzato e intimo che ogni singolo (grande) testo poetico instaura con la voce profonda di ogni suo lettore. Ma, in proposito, vorrei coinvolgere direttamente un poeta e critico acuto e attento come Gabriele Frasca, che una volta si e ci ha chiesto: “Qual era il compito della poesia, per chi in quegli anni [a cavallo della Seconda guerra mondiale] aveva issato a vessillo il magistero di Eliot, e anche quello di Pound? Portarsi la cosa dentro. La cosa, le cose, il reale. Ma non funziona così (è stato un bel mito, sì, ma appunto un mito): la cosa, le cose, il reale, non te li porti mica dentro, men che meno in una poesia, perché la cosa, le cose, il reale sono fatti di parole”. È questa la realtà, perché quella che chiamiamo «realtà» è in effetti un discorso, cioè un discorso sul reale, anzi un discorrere sul reale, non il reale. Persino il nostro corpo è immaginario, perché è la parola che lo contiene. E tuttavia la libertà che, sullo slancio di una mai sopita tensione utopica, muove la vera parola poetica coincide con una delle ricchezze più sicure e rinnovabili dell’esperienza umana considerata nel suo insieme.

 

 

 

 

 

 

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *