Jurij Tarnavs’kyj, “La vita in città”

Jurij Tarnavs’kyj

Jurij Tarnavs’kyj
A cura di Lorenzo Pompeo
collaborazione di Alessandro Anil

il poeta ucraino-nordamericano Jurij Tarnavsk’kyj (noto negli Stati Uniti con la traslitterazione Yuriy Tarnawsky) rappresenta una figura chiave nella storia della poesia ucraina novecentesca che, nel corso dei decenni, si è guadagnato un posto di riguardo anche sulla scena letteraria statunitense (a partire dagli anni ‘70 Tarnavsk’kyj scrive e pubblica regolarmente in inglese prosa e poesia).

È nato a Turka nel 1934, piccolo centro nei Carpazi ucraini, attualmente a pochi chilometri dal confine polacco (ma che in quel momento era parte della Polonia). I genitori, entrambi insegnanti, vivevano e lavoravano a Rzeszów (attualmente in Polonia sud- orientale), dove il giovane crebbe in un ambiente bilingue (l’ucraino si parlava in famiglia, il Polacco fuori di casa).

Nel 1944, quando la famiglia era tornata a Turka da quattro anni, Jurij perde la madre per un tumore, il padre, che si era arruolato nell’Esercito insurrezionale ucraino, viene dato per disperso, e il futuro poeta, insieme alla zia, la sorella e il fratello, decidono di fuggire in Germania, dove, nel 1945 si stabilisce nel campo profughi di Neu Ulm.

Nel 1950, Quando viene smantellato il campo, comincia a frequentare un liceo tedesco a Monaco e, dopo essersi diplomato, nel 1952 si imbarca a diciotto anni con il padre (che nel frattempo si era ricongiunto alla famiglia) per New York. Frequenta la Newark School of Engineering nel New Jersey, alternando lo studio al lavoro in un fabbrica di pellami.
Terminati gli studi, fu assunto in qualità di ingegnere elettronico all’IBM, dove lavorò fino al 1992 (con una piccola parentesi tra il 1964 e il 1965 in cui visse in Spagna dedicandosi interamente alla scrittura).

Nel tempo libero si appassiona alla lettura degli esistenzialisti, soprattutto Sartre (che sarà per lui una scoperta decisiva), Camus e Kirkegaard e, attraverso frequenti visite al MOMA, assimila le ultime tendenze dell’arte contemporanea.

A partire dal 1953 comincia a scrivere i primi versi e brevi prose che pubblica su riviste dell’emigrazione ucraina e che gli aprirono le porte della sua silloge di esordio, La vita in città, del 1956.

Da allora rappresentò una delle voci più autorevoli della letteratura ucraina della cosiddetta “diaspora” (ovvero la comunità ucraina all’estero), un termine che vuole sottolineare una completa estraneità ideologico-culturale rispetto all’Ucraina sovietica.

Fu l’animatore del “Gruppo di New York”, una aggregazione di giovani letterati ucraini che erano soliti ritrovarsi al caffè Orchidea, tra la seconda avenue e la nona strada, che discutevano di arte astratta, di poesia senza rima e di esistenzialismo.

Nella leggenda di questo gruppo il momento fondativo viene considerato la serata di poesia del 18 febbraio 1955 presso il “Literaturno-mistec’kyj kljub” (in it. “Club artistico-letterario”) di New York.

L’idea di fondo che animava questi poeti, allora esordienti, era sprovincializzare il mondo letterario ucraino (che nell’Ucraina Sovietica era concepito esclusivamente come una versione “etnografica” del realismo socialista) ricollegandosi alle tendenze artistiche e letterarie delle avanguardie novecentesche.

Fino alla fine degli anni ‘70, quando le polemiche interne e le scelte divergenti segnarono la fine del gruppo, esso costituì un punto di riferimento non solo per la poesia ucraina, ma anche per il dibattito critico sulla letteratura ucraina contemporanea.

A partire dal 1971, successivamente alla pubblicazione della silloge Poeziji pro niščo ta inši poeziji na cju samu temu (in it. “Poesia sul nulla e altre poesie sullo stesso tema”), Tarnavsk’kyj, dopo quasi un ventennio di permanenza negli Stati Uniti (vi era arrivato nel 1952) comincia a scrivere in inglese e nel 1978 pubblica il romanzo Meningitis a cui fa seguito, nel 1992, Three Blondes and Death, entrambi apprezzati dalla critica nordamericana.

A partire dalla silloge This Is How I Get Well, del 1978, scrive e pubblica anche poesie in inglese (spesso autotraduzioni dall’ucraino).

Dopo la dichiarazione d’Indipendenza dell’Ucraina del 1991, il poeta, per la prima volta dopo quasi quaranta anni, poté fare ritorno nel suo paese, dove potevano circolare liberamente ed essere pubblicate le sue opere, tradotte dall’inglese o nella versione ucraina.

Attualmente vive a White Planes, cittadina dello stato di New York.

ODE AL CAFFÈ

I

A O. L. Voronevyč

O tiepido luogo per il ristoro del corpo,
dove si possono stendere le tele umide della pelle,
asciugare alle onde di un ameno vento secco
il sudore della fatica, stendere le gambe, in attesa
che il dolore coli giù per terra col sordo gemito del coltello,
oltre il vetro, nella luce blu del cielo, altri combatteranno:
cadaveri bagnati e senza testa giaceranno sulle grate delle fogne,
il resto dei ribelli uscirà fuori
con una muta bandiera senza lingua, ma non delusa,
o luogo di riposo per gli emisferi del cervello crespo, asciutti come una noce, dove , lasciando il campo di battaglia, guardandosi intorno, è possibile smettere di essere colpevole, graffiato, svuotato dentro,
dove puoi quasi addormentarti col sapore
del latte di petti gialli di frutta tropicale in bocca,
dove puoi piangere lacrime piacevoli,
che scorrono come rugiada dagli occhi viola, dove puoi offrire al dio della felicità,
due monete in sacrificio, in cambio
di due minuti di pigra quiete,
o tempio di coloro che non hanno templi,
tu accogli tra le tue tiepide braccia
la confessione degli innamorati e dei delusi,
ascolti versi di poeti e chiassosi alterchi
filosofi e artisti con la barba nera,
li stringi alla tua pancia calda e soda,
proteggendogli con la tua grande mano,
accarezzandogli la schiena e i capelli lisci,
o madre di orfani piangenti,
ti dai a chi lo desidera, come una puttana a buon mercato, vendi un corpo bianco e tiepido
a giovani che cercano la pienezza,
e li lasci calmi e lenti quando se ne vanno

II

Nelle bocche gelate pende una notte nera che sa di notte tropicale,
che ricorda il respiro delle lingue,
come nell’amplesso di due tam-tam
una casta musica canta con una lingua blu,
le immagini non vagano più nel cranio come danzatori, solo allora crescono vaghi desideri
e di nuovo il cuore piange timido di tiepido sangue
piangi pure, trepido cuore:
mentre io sorrido soddisfatto nel dolore
il pianto, il cuore, in questo tempio della pace, dove dalle finestre blu si vede la vita

PENSIERI SULLA MIA MORTE I

pensare alla morte
con un corpo che cresce
che è pieno di sangue solido,
come l’albicocca o l’anguria,
cercare tra i numeri
degli anni astratti,
senza alcun significato
anni che non arriveranno mai,
ma che possono essere pronunciato,
come enormi somme di denaro,
devi essere malato o indifferente,
che non si ficca in tasca la mano bagnata,
senza sapere se vi troverà ruvidi biglietti di carta, con una vaga paura del vuoto
hai solo bisogno di svegliarti di notte col tuo corpo e dire: non voglio, non voglio, non voglio,
sentire l’universo di una goccia racchiusa
dalle superfici tese del liquido,
e fissarla a lungo e sentire
la microscopica minuzia delle amebe, che non sono visibili, e comprendere allo stesso modo
l’immensità di un giorno
è assolutamente normale e logico
essere impaziente, mordersi la lingua,
e preoccuparsi per la mancanza del tempo, che placa la sete
ma immerso nei solchi del mio cervello, esaminando le azioni ordinarie delle persone sulle rive di mari e bacini,
ai margini delle strade, nei letti e nei treni, ho imparato a distinguere il gusto,
senza conoscerne il nome:
Ho sentito che la sete non era universale
e che quel vago desiderio di un pomeriggio contiene in sé il tesoro
di un enigma irrisolto
guardando quei numeri assurdi
con quei lunghi cognomi sconosciuti, con cui si annoda la lingua,
nasce quel sentimento di pietà
di un pomeriggio d’autunno

II

gli atleti decollano in cielo
come gocce di neve negli occhi, agitando le loro rachitiche ali, braccia nude e sottili:
in milioni di casse toraciche
viene compressa l’aria calda
e si ripete il processo di volo e gloria
nutro una invidia infondata,
un desiderio strabico di essere sempre il primo, amo far parte del mondo
per rendere il mondo una parte di me
Mi piace vivere attraverso lunghi volumi di atti, collegati da un cavo,
che si allungano come la primavera, maturando che ricoprono di grasso l’esofago,
tra i quali non ci sono lacune
e non sono visibili nemmeno dai lati
e allora comprendo le costruzioni degli architetti, l’acquisto di bei vestiti,
e le facce dure dei ragazzini,
e quindi ossigeno i polmoni spiegazzati
che odorano di naftalina e tarme,
e prendo il sole tra le ragazze,
e bacio i loro corpi con i denti bianchi
Com’è bello vivere nel vento
e tra fragranti onde di gonne,
o volare come un atleta in cielo,
o persino gonfiare il petto con l’aria
ed essere geloso delle scintille nei tuoi occhi!
ridendo, mi imbatto in cortei funebri,
in attesa alle porte dei parchi,
baciando la gioia dei capelli,
incapace di comprendere i colori funebri, ma di notte devo svegliarmi,
è difficile respirare con un urlo avvolto in bocca, e ascoltare l’opposizione del cuore
nelle dita ossute della cassa toracica
il corpo appiccicoso del vuoto
giace al mio fianco
e sono risucchiato dai pensieri
che riguardano vagamente il funerale

III

Sono solo
tra persone e i libri in biblioteca,
tra corridoi assorti, sensibili ai passi, ingoiando pezzi di pane secco, scrivendo con gli occhi chiusi
mi trovo a un bivio rumoroso,
o sotto un cielo alto,
o tra gli alberi di gracili parchi, chiedendomi se qualcuno sa
delle immagini nei miei occhi,
del vento sotto i miei vestiti,
del ringhio della fame nello stomaco, non mi chiedo con le parole
la necessità dei miei pensieri,
delle mie parole e dell’aria consumo, dell’importanza dello spazio che occupa
il mio corpo con i densi tessuti tessuti e con il tepore
posso andare al cinema
leggere un libro o non pensare
Posso salire sul treno
ed entrare nel tunnel blu,
Posso buttarmi sotto la macchina
e, sentendo l’ululato della gomma e del metallo rovente, cessare di esistere
come se lasciassi una stanza inosservato

IV

la sera risplende di fiamme azzurre, fredde, mute, assonnate:
reazione chimica del giorno, ossidazione del desiderio vitale
dalle alte torri dove sono gli orologi, cadono le ore solitarie,
ad alcuni si rattristano con i loro occhi, mentre camminano sotto luci verdi
Capisco le leggi indifferenti della natura,
la fatalità del loro compimento,
Capisco l’assurdità di sentire nel petto
il centro dell’universo, l’eternità e l’importanza, la sensazione dell’IO, come un pianeta vorticoso l’irrefutabile assegnazione a uno scopo
ma puoi diventare sordo
a un suono prolungato, infinito, l’organismo cesserà di notare
e di mandare messaggi al cervello, è possibile, in questo stato, vivere, guadagnarsi da vivere e sposarsi
e persino essere felice
di una pallida, ingenua felicità

ma questa malinconia
mi è congenita
sebbene non sia un malato, ma una persona sensibile, che la conduce lungo i viali,
sotto gli ombrelli azzurri della sera,
dò l’impressione di essere in partenza
per un viaggio lungo e polveroso,
lasciandomi dietro rose rosa
oltre uno steccato di ferro, e una moglie,
pianta con il volto deformato,
Dico addio alle lancette dell’orologio,
alle panchine verdi e alle pietre bianche sulle strade alle abitudini acquisite negli anni:
stare con le persone e con gli entusiasti,
Incoraggio, come di proposito, la pena
per la fatalità di starne lontano,
essere come una statua nel parco
di uno sconosciuto generale di pietra
la sera sempre
ha un influsso negativo sulle persone
e per qualche motivo li spinge
a pensare alla vecchiaia e a volte alla morte

V

Devo ammettere che amo
in modo inconsapevole e crudele,
l’alzarsi la mattina e gli esercizi,
e anche i giorni pieni di misteri,
Amo il dolore muscolare e la sana stanchezza,
che ti spinge a un fresco breve sonno,
Devo ammettere che amo
perfino la città, e le facce bagnate dei neri,
e anche il freddo, la fame e il fallimento,
e dolore e l’amputazione degli arti,
Amo persino questa incertezza e questa responsabilità, che va con la vita
pronuncio spesso queste parole
come se pregassi ai fogli di carta morti, come se pensassi che qualcuno pronuncerà quella parola che sto aspettando

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