Luigia Sorrentino, da Olimpia (Interlinea, Novara 2013-2019) a Piazzale senza nome (Pordenonelegge-Samuele Editore, Fanna, PN, 2021), le tracce di una scrittura sovrana.
– Note in margine –
di Marco Marangoni
La scelta stilistica della Sorrentino, giunta a piena maturità già con Olimpia, ha la forza e la rarità di restituirci un tempo arcaico, circolare, di distruzione e rigenerazione del tempo, del ritorno.
E’ significativo che a proposito di Olimpia sia De Angelis (in Prefazione) che Benedetti (in Postfazione), al fine di sottolineare tale cifra poetica, abbiano citato lo stesso passo lirico del libro, che sembra davvero esplicitare una poetica del ritorno: “Ritorniamo arcaici, al servizio di ciò che siamo stati”.
La poesia, a cui quel verso appartiene, si intitola “Deformazione”: titolo, utile a sua volta, per comprendere uno stile che, pur accedendo alla forma, de-forma (diversamente dunque dal gesto avanguardista), la comunicazione: non in quanto la nega, ma in quanto piuttosto la de-situa, realizzando quel particolare “spasimo dell’intelletto che non fa parte di un individuo ancorato a se stesso e alla società in cui vive” (Benedetti, op. cit.).
Di qui la difficoltà specifica di questa poesia, inesplicabile senza una concezione arcaica o mitica del linguaggio.
Non è insomma quello della poetessa uno sguardo usuale, mimetico-critico, radicandosi invece in livelli cosmici che presuppongono per la loro intuizione che il tempo cronologico sia abolito o messo tra parentesi.
Ecco che in Olimpia si potevano leggere le seguenti sequenze liriche: “Fluttuando nella sostanza emotiva che pre-/ serva e cura, svanisce la memoria di ciò che siamo. La transizione nella/ morte da vivi, provoca spaesamento. In un grumo di forze distese,/ avviene lo smantellamento, lo spostamento, l’inversione. Ritorniamo arcaici […].”.
Abolito il tempo, vita e morte possono scambiarsi in una coincidenza di opposti: “tutta la nostra attesa era/ in una madre che ritorna/ nel regno dei vivi e dei morti”.
Avviene allora che il dramma della realtà-poema nel suo intero (“tutto si era placato”) ha il suo acme nel pathos della distanza-prossimità, nella misura attimica tra quiete perfetta e totale vicissitudine: “non chiamate la rosa […] quasi da vicino,/ lasciate ciò che è immobile attorno/ a lei […] chiaro brivido che all’indietro guarda/ e sorregge il lontano in quell’istante/ la rosa”.
Portarsi qui, in questa misura, è la vocazione della Sorrentino. Ma non è possibile alcun adunare senza volgere/ rivolgere, senza dissidio: “inaudito era il volto della fonte// e quando il dio le entrò dentro/ più forte adunò tutti i fiumi/ nel suo volgersi e rivolgersi”.
In questi versi che ricordano il Werden (Divenire dell’Uno-tutto) di Hölderlin, la poetessa ci avverte che per accedere al tragico si deve sacrificare l’orientamento pratico, l’atteggiamento reattivo, la metafisica della presenza.
Qui cade il confronto/incontro di questa poesia con il male in letteratura, con quel male che non si può non incontrare una volta che sia stata aperta la porta a quel “grumo di forze” che abbiamo già citato. G. Bataille, molto istruttivamente ha scritto: “L’umanità persegue due fini, di cui uno, negativo, è di conservare la vita (evitare la morte), l’altro, positivo, di accrescere l’intensità della vita. […] Ma l’intensità non si accresce mai senza pericolo […] può esserlo in modo disperato, al di là del desiderio di durare.” (La letteratura e il male, trad. it. di A. Zanzotto, SE, Milano, 1997, p.67).
L’intensità che si accresce in corrispondenza del “pericolo“ è una formula che richiama il tragico e il famoso verso di Hölderlin: “Lì dove cresce il pericolo cresce anche ciò che salva”.
Questo a dire che non c’è sviluppo possibile, per una poesia come quella della Sorrentino, che non sia quello che consiste nel penetrare, per atti concentrici e rituali, nel doppio di vita/morte: “nella ferita – leggiamo in Piazzale senza nome, op. cit.- che voi non avete mai visto”.
Di certo però è in questo nuovo lavoro (Piazzale senza nome) che Luigia Sorrentino, oltre a tessere fedelmente, (in un senso prossimo, se non identico, a quello di Bataille) della poesia dove il terreno dell’esperienza diventa più trasgressivo, maledetto: “luminosa potenza/ abbandonata e sola/ trascina giù, riempie/ tutta la forza“; “La fine era lì, dove qualcos’altro cominciava./ Un patto muto ci consacrò per sempre al cuore di quella terra scura/ e insanguinata.”
L’ispirazione è qui continuativamente rivolta a un senso radicale di rapimento, vorticità, discesa.
Placamento o catarsi sono al termine del rivolgimento catastrofico (katá stréphein: voltare in basso): “aveva oltrepassato/ il confine/ restituita la voce all’universo”; “perduta nell’oceano/ la frequenza cardiaca/ la voce dell’universo”; “ora la tua voce ha la struttura del suono.// La stanza è un’urna fiorita. Avvolge un ritorno senza confini./ Adunata sul petto risuona fra le braccia la corrispondenza armonica/ del cuore in esilio.”
E la morte diventa un luogo sacro, un luogo impossibile (Goethe) con cui la poesia è chiamata a confrontarsi abissalmente: ”il grembo della voce si spegne/ reclama il buio/ la cupa processione della negazione/ nomina un paese morto”.
La direzione “a scendere” inverte, nel modo più crudo e violento, l’orientamento costruttivo, l’edificante, l’apollineo. Un Dionysus redivivus agisce qui – ancor più che in Olimpia– dove si svolta dalle distinzioni razionali del bene e del male, verso uno spazio inaudito eppure ancora ancorabile a un linguaggio: alla parola simbolica cioè, ambivalente, fluttuante, frammentaria, e poematica al tempo stesso: alla parola-che-canta come una salvezza-che-cade: “ abita la sordità della morte […] la sua luce è potente e tragica// ha la forza della musica/ il canto cardiaco/ l’impronta della tenerezza/ caduta dalla mano del padre”.
In Piazzale senza nome ritroviamo tutta l’ispirazione di fondo della poetessa, nel mentre qui si allegorizza nelle storie di marginalità e tossicodipendenza, in particolare giovanile e adolescenziale: “la morte da giovani arriva all’improvviso, carica di violenza. Lo/ smembramento è totale. Su tutto l’ebbrezza gridata da un/ cuore felice e maledetto”.
Si fa un uso specifico e insieme ambivalente-fluttuante di alcuni selezionati termini (colti nel raggio della loro area semantica) che ritornano nei diversi testi secondo una timbrica percussivo-dionisiaca (“paese morto” “totale”, “ forza sommaria”, “potenza”, “violenza”, “smembramento”, “rito”, “sacro”, “capra, “neve”, “colpo”, “ritorno” ecc.; e ancora modi e tempi, in particolare, del verbo “scendere”); una logica poetica funzionale al canto tragico in cui gli opposti significati vengono costretti all’identità tra loro: “l’incedere violento/ del battito cardiaco/ si chiude su di sé// nella luminosa potenza/ avviene l’incontro”; “conoscemmo con cura il perdersi”; “ tutto è bianco e nero/ la neve sui limoni/ tormenta i colori/ li contraddice con ostinazione/ lasciando impronte/ nere di fiele”.
Ogni singolo componimento, grazie alla paratassi e alla analogia, appare come il risultato scaltrito e raffinato di una costruzione di elementi che come unità di senso possono essere di volta in volta richiamati a riprendere il filo del discorso, a celebrare una ripetizione illuminante.
Diversi motivi lirici, questi, che appaiono accordabili con il lavoro di Milo De Angelis. Non di meno si avverte in questo libro la presenza netta di Andrea Zanzotto: “narici oltraggiate/ bianco e nero”; “geme la luce/ tanto più densa e oscura/ oscuro marcire oscuro”.
Ma qui si coglie, nel dettato che è proprio della Sorrentino, anche quella sua impronta di matrice greca (già espressa chiaramente in Olimpia), a tratti archeologica, mediata da Hölderlin: ”il cranio stretto fra le mani/ povero e antico resto/ bellezza disperata/ chiamata a scendere […] ha consumato/ il sacro giardino”; “ tutti mangiarono la capra/ sgozzata”, “la ragazza dal volto antico”, “ sacre gemme/ reliquie di sonno/ cadute nei dirupi”; “ Il dio che era lì aveva manifestato […] la verità della violenza, il suo potere salito sulla cima alta dell’abete”.
C’è una Grecia, ma sotto il segno del tragico: “dopo il linciaggio il suo corpo/ di viola era un’essenza tragica”.
Una dimensione tragica, avvolta da una atmosfera maledetta, è quella che si afferma in Piazzale senza nome, e nel linguaggio più tagliente e ispirato; dimensione che viene posta in contrasto a ciò che resta al di qua dell’esperienza sovrana, dove tutto invece rientra nell’ordine dell’utile e del servile (“ – tu sei inutile, non vali niente -“).
A venire illuminata è soprattutto l’esperienza dell’intensità della vita, dell’inaudito, della oscillazione trasgressiva ”tra il dio e il nulla”, e sempre di contro allo stato di indifferenza del mondo prosaico: “la polvere bianca sventra il proprio/ antecedente, quello che era prima/ delle stelle, nel tempo anteriore/ alla città indifferente”.
Similmente a quanto dicono alcuni versi del libro, la Sorrentino con audacia si è assunta il compito di ascoltare – giungendo dove la poesia la portava – un grido, cercando di affrontarne la dismisura: “l’incarico del grido/ lo abbiamo ascoltato/ con l’anima nuda/ ne siamo divenuti parte/ affrontando la dismisura”.
Non è un libro di affermazioni, ma di un continuo interrogare circa i rapporti tra violenza e sacro, tra “l’antico adolescente” e l’intensità della vita, tra poesia e il luogo impossibile della morte.
Il verso “la grande opera è sola” dice l’attesa del libro, la sua ideale realizzazione, nella consapevolezza che il nucleo ispirativo più profondo, il mistero, chiede una disponibilità d’ascolto illimitata: “sulla ruvida sponda degli appestati/ avevamo bisogno ancora di mistero/ non del mondo atterrito”.
Mistero, ebbrezza gridata e creazione sono figure che fluttuano l’uno nell’altra; e ciò forse perché – come Hölderlin ebbe a notare – il linguaggio tragico è il più creativo.
Così la Sorrentino: “solo la musica, l’altezza di una nota/ penetrò il loro volto scarno / la burrasca verticale di ogni creazione”.