Le sette morti di Marina Abramović

Marina Abramović

Marina Abramović

Il 18 maggio 2022 la Galleria Lia Rumma di Napoli subito dopo la prima italiana di 7 Deaths of Maria Callas che andrà in scena in anteprima italiana al Teatro di San Carlo di Napoli (13-15 maggio 2022), inaugura la nuova mostra personale di Marina Abramović che segna il ritorno dell’artista in città.

La mostra coincide con il tour della prima opera lirica scritta, diretta e interpretata dall’artista serba.

Abramović sarà la protagonista della prima italiana dell’opera 7 Deaths of Maria Callas, dedicata all’ indimenticabile soprano greco che ancora oggi affascina il pubblico di tutto il mondo.

Lo spettacolo di cui la Abramović è interprete e autrice, si concentra su ciascuna delle morti “sul palco” della Callas che di volta in volta è protagonista in Carmen, Tosca, Otello, Lucia di Lammermoor, Norma, Madama Butterfly e La traviata.

Sette eroine tragiche della lirica, rese immortali grazie alle interpretazioni della divina Maria Callas, rivivono nel corpo e nei movimenti di Marina Abramović.

La regina della performance indossa l’abito della regina della lirica in un’opera totale divenendo un faccia a faccia tra due grandi artiste.

«Da 25 anni – racconta Marina Abramović – desideravo creare un’opera dedicata alla vita e all’arte di Maria Callas. Ho letto tutte le biografie su di lei, ascoltato la sua voce straordinaria e guardato le registrazioni delle sue esibizioni. Come me era un Sagittario, sono sempre stata affascinata dalla sua personalità, dalla sua vita e dalla sua morte. Come tanti dei personaggi che ha interpretato sul palco, è morta per amore. È morta di crepacuore» (Marina Abramović, 7 Deaths of Maria Callas, Damiani Editore).

Negli spazi della Galleria Lia Rumma, come in un coro di dolore, si rivive il dramma delle sette morti, attraverso la videoinstallazione Seven Deaths, tratta dall’omonima opera teatrale.

«Le donne soffrono in eterno per amore e in eterno muoiono in tanti modi. È un tema che, a me come donna, sta molto a cuore. Il mio lavoro è molto “emozionale”, tocca l’amore, la morte, il dolore, la sofferenza, la perdita, il tradimento: temi di cui è fatta l’arte», continua la Abramović. Ed è su questo fil rouge che s’inseriscono le altre opere fotografiche presenti in mostra: Artist Portrait with a Candle (B), 2012; Holding the Skeleton, 2008/2016; il dittico Portrait with Skull (EyesClosed), 2019; e per finire la più recente The Jump, 2022, in cui Abramovic impersona Tosca nel gesto finale dell’opera, ambientata qui in un contesto urbano contemporaneo.

A più riprese l’artista ha utilizzato lo scheletro come suo compagno di viaggio, o elementi come il teschio e la candela, per esorcizzare anche la propria mortalità, dando vita a tanti “memento mori” che sembrano evocare vanitas seicentesche arricchite da un crudele gioco tra Eros e Thanatos.

Una stanza della galleria accoglie l’installazione Black Dragon (1990) composta da cristalli di quarzo montati a parete che invitano chi si avvicina a interagire con loro per sentire l’energia che emanano.

Sono gli “oggetti transitori” della Abramović, che non sono semplici sculture da guardare, ma oggetti “performativi” in grado di innescare uno scambio di energia tra l’opera, l’artista e il pubblico, che viene così invitato a prendere parte attiva alla mostra non più come solo spettatore. Continua a leggere

Biancamaria Frabotta, “un punto di riferimento assoluto”

Biancamaria Frabotta © Dino Ignani – tutti i diritti riservati – vietata la copia e la riproduzione

Biancamaria Frabotta e Dacia Maraini ad Urbino

Il ricordo di Umberto Piersanti

Tanti anni fa invitai Biancamaria Frabotta e Dacia Maraini a presentare i loro libri all’Università di Urbino dove insegnavo nella facoltà di Sociologia.

Erano anni di rivolgimenti talora luminosi e talora drammatici: anni in cui si sognava la rivoluzione anche attraverso una deriva armata e si lottava per dare il giusto posto ai giovani e, ancora di più, alle donne nella nostra società.

Due anni dopo sarebbe uscita l’antologia di Pier Vincenzo Mengaldo presso la Mondadori, Poeti italiani del ‘900 con una sola presenza femminile, quella di Amelia Rosselli.

Oggi questo tempo ci sembra lontanissimo e nella poesia dei nostri anni le donne si sono imposte senza alcun bisogno di quote rosa. L’antologia della Frabotta ha avuto una funzione in tutto questo.

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Frabotta, protagonista della Letteratura italiana

Bianca Maria Frabotta ph©campanini-baracchi

 di Matteo Fantuzzi

Io sono poetessa e intera non appartengo a nessuno”. Se dovessi partire da un passaggio per raccontare l’importanza di Biancamaria Frabotta nella nostra cultura e nella nostra società inizierei da questo, tratto da Quartetto per masse e voce sola ed edito da Donzelli, e certamente partirei da Donne in poesia, antologia della poesia femminile in Italia dal dopoguerra a oggi edito da Savelli nel 1976, nell’anno dell’esordio, per la mitica casa editrice Geiger di Torino, con Affemminata (e la nota critica di Antonio Porta).

Affemminata perché una donna non è appunto una femmina, come vorrebbe la rappresentazione misogina al tempo imperante ed oggi probabilmente mai sopita. Donne in poesia dunque non è solo l’occasione, per autrici che diventeranno fondamentali nei successivi decenni come Patrizia Cavalli o Vivian Lamarque di ritrovarsi pubblicate assieme alle già note Amelia Rosselli, Maria Luisa Spaziani o Margherita Guidacci, ma la possibilità piuttosto di creare un fronte comune di emancipazione e caratterizzazione della figura femminile in poesia.

E’ questa volontà di unire la vita alle lotte sociali e utilizzare la scrittura come strumento attraverso cui formare opinioni nelle classi, che a loro volta avranno la responsabilità della crescita di migliaia di studenti (penso ai tanti futuri insegnanti forgiati dai banchi dell’Università), a rendere Biancamaria Frabotta simbolo di questo passaggio verso l’attuale società.

Una società nella quale si rende necessario continuare con doverosa attenzione e dovuta forza a pretendere uno spazio per chi, nella fragilità, è costretto a vivere vittima di una sorta di malattia che colpisce a livello pandemico, senza ansia per le contingenze ma con la precisa volontà da parte dell’autrice di restare contemporanea attraversando le stesse anse percorse da chi negli anni ha potuto leggerne l’opera.

Da La materia prima

[[ Per placare nelle ossa il bruciore / il crepitio dei neuroni inceneriti / l’avanzare della falange virale / e il sonno irrefrenabile / che serra le pupille / aprite la finestra nel fumoso / sole d’inverno alle brezze /della giovanile insonnia. / Testimone di un’irrilevante / ebrezza nella tua ombra / epoca muta e ciarliera / m’accomodai – servizievole. / Ci dettasti il prologo / noi mancammo l’epilogo. / Fortunata generazione senza assedio / mi arriva dall’orto una voce riciclata / e la serbo come fossimo in guerra / ed avessimo estirpato col granone / sul prato il loglio e il nutrimento. ]]

Ed è davvero una generazione ad essere uscita accresciuta umanamente e culturalmente dalle lezioni di Biancamaria Frabotta, e a raccoglierli tutti, come ha fatto nel 2016 l’ottimo Alessandro Giammei per l’editore Bulzoni. Continua a leggere

Biancamaria Frabotta, “non ci saranno mani come le tue”

Biancamaria Frabotta

RICORDO DI BIANCAMARIA FRABOTTA
di Stefano Bottero

Io dirò che non ci saranno mani come le tue. Che l’orfanità di queste prime ore del mattino è una categoria che riguarda ogni cosa a seguire. Dirò che le tue parole mancheranno come è mancato il sonno questa notte – che non dormirò mai più.

Tra qualche ora incontrerò diversi altri che ti hanno amata in questi anni. Sarà abbastanza a ricordarmi che quanto ho scritto fino a qui non corrisponde al vero.

Che resti, sempre, corpo e voce, come restano i poeti.

*

Durante la sua lectio magistralis, nel 2016, Biancamaria Frabotta rispose a una domanda dicendo «Sì, sono stata allieva di Binni. E vorrei continuare a esserlo».

Ho un ricordo lucido di quel momento. Pensai che per me, per lei, sarebbe stato lo stesso. Lo penso ancora, oggi, a poche ore dalla sua scomparsa.

Ho frequentato l’ultimo dei suoi corsi universitari. Fin dai primi anni della sua carriera accademica, Frabotta aveva sistematicamente chiesto che le venisse assegnata la classe del primo anno.

C’era qualcosa di geometrico, di necessario, nella postura della sua voce rivolta a gruppi di studenti troppo giovani per avere cognizione della letteratura del Novecento – cognizione che, come mandato, lei sceglieva anno dopo anno di trasmettere.

Altri parleranno con parole più precise delle mie della sua femminilità, della sua classe, della sua presenza. Io, ventenne, per la prima volta, ero abbagliato dal vedere il Poeta (la Poeta, anzi, per riprendere una questione tanto centrale nelle nostre conversazioni). Quel vederla sarebbe bastato anche da solo, allora, a rendere fondamenta i giorni delle sue lezioni.

La testimonianza è stata il filo sul quale ha fatto camminare i suoi rapporti – insicuri come tutti, perennemente sospesi sul baratro di significato che ha avuto nei suoi occhi chiari il solo correlativo. Allo stesso modo, sulla testimonianza ha edificato la sua poesia. Ne La materia prima, sua ultima raccolta – penultima tra qualche giorno – sulla quale cui mi sarei poi laureato nel 2019, l’atto testimoniale non è solo nexus creativo, etico ed estetico, ma ratio critica, capace di orientare lo sguardo fino alla liberazione da ogni residuo di necessità inautentica. Continua a leggere

Frabotta, convitata di pietra a Parrano

Bianca Maria Frabotta
ph©campanini-baracchi

Ricordo di Biancamaria Frabotta
di Paolo Fabrizio Iacuzzi

 

Cara Luigia,
Ti pensavo appunto per dire che proprio nella magica Parrano [ndr dove si sono radunati alcuni poeti italiani che hanno partecipato alla manifestazione “Lingue mute| Poeti contro la guerra” a cura di Luigia Sorrentino con la collaborazione di Alessandro Anil e Fabrizio Fantoni] abbiamo parlato di Biancamaria Frabotta come di una convitata di pietra.

Io la conoscevo se non attraverso la sua poesia. Di persona la vidi a colazione in un bed and breakfast invitati da Poesia Festival nelle terre modenesi. Alta e ossuta quasi prosciugata di ogni orpello. Scambiai con lei rare parole. Io un poco intimidito.

Questa la poesia che scelgo è tratta da “Mani mortali”, Mondadori 2012

Entrando nel campo cercai
le roselline selvatiche nella rete
gli iris infestanti, i papaveri
i gelsomini bianchi e dopo,
i cavoli, i carciofi fra i narcisi,
sull’arancio ferito i grappoli
profumati della zagara.
in terra giaceva l’edera vizza
screziata di morte lumache
eppure, scriveva Bernardin
non tutto era stato ucciso
dalla terribile severità di quell’inverno.
Ancora, in stile fiorito, il suo giardino
godeva di tardive, ma robuste violette
promesse di fragole e primule, risalenti
filari e tracce di linfa nei peri.
In verità le viti cominciavano
appena ad aprire i germogli.

Ti confesso che forse per me il suo libro migliore è forse il tardo “Mani mortali” per quella natura spietatamente vista nel disincanto della vecchiaia. E anche il verso si fa nudo referto di una malattia. Feroce cartografia dei guasti del tempo sulla natura. Cronaca spietata di un inesorabile corrompersi dell’idillio nel riverbero che la natura produce nell’uomo. Una natura quasi già postuma a se stessa tutta frugata nei suoi interstizi e nelle sue pieghe. Eppure indomita si rigenera da se stessa invincibile. Continua a leggere

Paolo Febbraro, “Il tempo non ci separa”

Biancamaria Frabotta / Credits ph. Dino Ignani

Blanche
di Paolo Febbraro

Sarò ingiusto, ma onesto. Devo scrivere di Biancamaria Frabotta, a poche ore dalla sua scomparsa, e compirò un’ingiustizia a ogni riga. Scrivere di una persona che ha appena toccato la totalità, la propria totalità, non può che generare grave incompletezza.

Sono un piccolo angolo visuale. Sono un ragazzo di neppure diciannove anni che vede la professoressa Biancamaria Frabotta in cattedra (Aula C, forse, e ottobre o novembre del 1983) e la ascolta, comincia a smarrire appunti su un bloc-notes. Cinque anni e mezzo più tardi, la professoressa è presente, in un’altra aula, fra coloro che mi laureano in Lettere con un bel voto. Intanto, mi ha insegnato Saba, Caproni e Palazzeschi, sui quali – non è un caso – scriverò pagine e pagine di ipotesi e certezze.

Non ricordo quando abbiamo cominciato a darci del “tu”, quando siamo diventati due poeti, di generazione diversa, anche molto diversa, magari chiamati a leggere nello stesso reading.

Oggi, i diciannove anni che ci separano mi sembrano pochissimi. Stranamente, il tempo non separa, ma ci accosta.

Ho la mania di cambiare i nomi delle persone che frequento, con la parziale scusa di non frequentarne poi tante. Tutti gli esseri umani sono degli ibridi, ma gli Italiani lo sono in maniera particolarissima.

La figura alta, la chiarezza degli occhi, la saldezza culturale, con una fragilità, quasi uno spavento, che però giocavano immediatamente sotto i muscoli del viso, l’incertezza su sé stessa che la accomunava a tutti coloro che sono tentati dalla poesia: cominciai a chiamarla amichevolmente Blanche. Chissà, nella mia mente giocosa non era un cambio di nome, ma una sua etimologia. Continua a leggere

Addio a Biancamaria Frabotta

Biancamaria Frabotta

Lutto nel mondo della poesia. Si è spenta a Roma dov’era nata, all’età di 76 anni, Biancamaria Frabotta poetessa fra le più rilevanti e centrali della Cultura in Italia.

Da giovane era stata leader dei Movimento Femminista. Dedicò il suo primo libro “Affeminata” – nota critica di Antonio Porta – alle donne accompagnandole nella lotta di emancipazione per i diritti femminili. Successivamente le sue energie le spese nell’insegnamento all’Università “La Sapienza” di Roma.

A partire dal 2001 era diventata professore ordinario di Letteratura italiana moderna e contemporanea divenendo un punto di riferimento importante nella divulgazione della poesia più recente.

da Mani mortali (Mondadori, 2012)

 

Quando arrivo
se ne è appena andata
come una persona
imperfettamente amata
che posa a terra a fatica
la valigia discesa, un piede
ancora sul gradino del treno
esitante e nel cuore la luce
del mare feriale
le gallerie di colpo senza
golfi, seni azzurranti, rive
mancate come ragazze viziate.
Quando arrivo
scompare sottoripa, di frodo
fra razze di spalla palpitanti
come fosse imminente il riscatto
e le figure non finite sul selciato
odoroso di calcina e carname
la città che i poeti hanno veduta
pettinata contropelo sul monte
la funicolare che porta
dove comincia la morte
e al porto, fra i pescicani
affioranti la fame dalle vasche
– ma dov’è l’Italsider, il peso
immenso dell’operaia decenza
dove la città eroina avvolta al risveglio
nella carta velina? Oh Giorgio, mio caro Giorgio
quale nuovo disastro è ora nell’alba
fra nuvole dissolte e rifatte poco in là
eguali, come Allah vuole, che il cosmo
ricrea ogni attimo che muore.
Quando arrivo
è passato molto vento fra i moli
fra gli orienti improvvisi
i turisti clandestinamente
importati d’inverno con tenere vesti
d’estate, attillate, solcate negritudini
sui passi sillabati dai tacchi taglienti
quando arrivo, trafitta
capitale delle rovine d’Italia
pupilla che grigiamente sbianca
pur di non somigliare a sé stessa
risanata Genova che mi fai male
e piegata mi colpisci al petto.

 

Pubblichiamo l’AUTORITRATTO scritto da Biancamaria Frabotta e pubblicato su questo blog il 6 marzo 2016.

Autoritratto al buio
di Biancamaria Frabotta

L’11 giugno del 2004 è nato mio nipote Luca, cui auguro di non assomigliarmi troppo, dato che lo stesso giorno del 1946 sono nata anch’io. Non so se possa vantare coincidenze più illustri di questa. Il mio compleanno ora è il suo, in cui mi annido, come una quieta seguace della sua infanzia non finita. Alla “vera vecchiaia”, diceva Caproni, ci si arriva solo dopo la “vecchiaia” pura e semplice. Nella prima forse me ne starò rintanata, attonita, magari mi capiterà di scrivere poesie atonali, senza troppe storie e rigurgiti dell’amore e dell’ira che non distinguono vita da poesia, ritmi da carattere, sonni da risvegli.

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Ritratto di giovane poeta

Federico Carrera, 2020 credit ph Mauro Terzi

AUTORITRATTO
da un’idea di Luigia Sorrentino
a cura di Fabrizio Fantoni

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Appunti per un ritratto-da-farsi
di Federico Carrera

 

Tratteggiare un ritratto di sé a ventidue anni non è cosa facile: la mano trema e il pennello sembra sempre inspiegabilmente asciutto. Si ripiega allora sulla matita, sempre che la punta non si spezzi, il foglio non si squarci e così via. Ma a me piace usare la matita. Sono in confidenza: prendo appunti a matita, sottolineo libri e manuali a matita.

La penna è troppo definitiva. Riconosco che si tratta di un segno di incertezza, di insicurezza, ma la matita mi mette al riparo, dall’errore e dalla definizione. Ho poco più di vent’anni, dicevo. Forse si pretende da me, adesso, il ritratto di un ventenne, di un giovane studente universitario.

Ma non so bene da dove partire. Mi piacerebbe avere un respiro generazionale. Mi è negato alla radice, non ne ho l’indole. Ma per un ritratto forse è bene partire da lontano – la prospettiva migliore dalla quale tentare di descriversi.

Riconosco (abbozzo) due stagioni nella mia vita: una in cui si piange, una in cui non si riesce a piangere. È stato tutto qui, il mio vivere, tra questi due poli.

Fino ai quattordici anni, ho pianto per ogni cosa – dal dolore al piccolo capriccio.

In particolare, mi commuovevo sinceramente per i film che guardavo – strumenti emotivamente ben calcolati. In effetti, a quell’età (a dire il vero già da qualche tempo prima, forse da sempre), il cinema ha incominciato ad avere un’importanza capitale per me. E continua tutt’ora ad averne. Al punto che, quando mi chiedono cosa io voglia fare ‘da grande’, mi trovo sempre a rispondere con la stessa coppia di parole: “il regista”.

Il cinema ha aperto ai miei occhi da pre-adolescente ancora-bambino le porte di un mondo altro (Altro?), fatto di immagini e colori, di musiche ben studiate e colpi di scena, ordinato in schemi narrativi ora nascosti ora incontrovertibili ora curiosamente liberi. Un mondo del tutto preferibile, insomma, a questo nostro quotidiano, in cui viviamo e che siamo abituati a chiamare reale.

Tuttavia, per me – e in questo non posso mentire – il cinema è sempre stato più reale della realtà, più importante, più degno di attenzioni e di cure. Ma non voglio divagare.

Dicevo: un tempo in cui si piange, un altro in cui non si riesce. Continua a leggere

Rosa Filardi, “Volo verticale”

Rosa Filardi

Introduzione
Isola-menti o atterraggi in volo

di Angela Lo Passo

Aprirsi al mondo è come riprendere coscienza di essere o di non essere chi o cosa il mondo stesso ci ha fatto diventare malgrado noi. La percezione di sé cambia ma non cambia la discrasia tra come ci percepiscono e come pensiamo che ciò avvenga. Ed in questo dualismo perenne si perde la vera essenza del vivere, l’essere per ciò che siamo e non per come pensiamo di essere o, ancora più complesso, come crediamo che gli altri ci vedano come essere.

Ogni faticosa rinascita prende avvio da questa immensa perdita di sé.

Questo il dramma che si consuma nel monologo e nei due atti unici della scrittrice teatrale Rosa Filardi, che si intensifica ancora di più nella dimensione dell’io e
l’altro, in un crescendo di incomunicabilità che sa di sofferenza e preannuncia la morte stessa dell’io.

L’origine dell’io

Se mi si chiedesse perché leggere questo testo così tripartito, ma da considerare come unico sviluppo del dramma dell’incomunicabilità che nasconde, però, la profonda ricerca dell’essere, in poche parole dell’identità in un mondo votato alla omologazione, all’appiattimento delle differenze, risponderei con un semplice: è necessario.

Bisogna leggere ad alta voce e far emergere i segni e attraverso essi il suono ed infine il senso.

Questo processo è il processo della presa di coscienza che parte e passa dalla parola scritta e poi verbale. Da qui la spinta per noi lettori a leggere “ad alta voce” per toccare l’anima della bambina che vuole ritornare nel primo testo della trilogia, “Volo verticale”, tra le braccia della madre.

L’ambiente della scena non a caso è il mare come la richiesta, che è in fondo solo il desiderio di essere “accolta”.

Qui la morte fisica sta intaccando la propria identità, la dimensione dell’umano si sta inaridendo perché viene a mancare pericolosamente la radice. Come fare ad uscirne o almeno arginare questa emorragia dell’anima?

Il mare, l’acqua è la risposta, la barriera al fluire incontrollato del dolore ed insieme ad esso della parte di identità che appartiene a chi ci ha generati, nel caso della protagonista a chi l’ha messa al mondo per poi cercare a suo modo di proteggerla da esso. Perdendo la madre, inevitabilmente sta perdendo quella parte essenziale della coscienza di sé.

Rimane il mare, l’acqua, l’origine della vita, della vita di ognuno di noi, metaforicamente la stessa vita.

Il mare ed il suo abbraccio. La sua liquidità, il richiamare quella culla nella quale siamo cresciuti per nove mesi, al sicuro, intoccati, sereni. In fondo il desiderio che rimane latente tutta la vita è quello di voler tornare a quella culla per sentirsi protetti, per non dare spiegazioni di chi o cosa siamo, per essere autentici senza sovrastrutture e lasciarsi andare.

La lotta comincia con il primo vagito, un grido alla vita che è invece l’inizio del dramma, il distacco dalla vera identità e la fatica della ricostruzione.

Al centro la madre, l’alma (letta anche come anima), colei che dà la vita ed è l’inconsapevole mezzo per attuare il processo lungo e travagliato della costruzione del sé. L’ingranaggio non ben oliato della macchina dell’essere che spesso si scontra con la parte intatta e vergine dell’anima originale.

Da qui la ricerca dell’abbraccio, straziante e invocato dalla protagonista dell’atto unico “Volo verticale” e l’esigenza di tornare ad essere libera come all’inizio, ad invocare l’annullamento per tornare ad essere figlia nel liquido amniotico, silenzioso e assoluto.

L’io sociale

Lo scenario cambia nel secondo atto unico, diventa freddo, artificiale, grigio. L’io esce dalla dimensione individuale per relazionarsi, per calarsi nel sociale, cumsociarsi, ma è nell’insieme che avviene la frantumazione, poiché non ci si riconosce nelle idee dell’altro, nella visione dell’essere identità e collettività. Continua a leggere

Antonia Pozzi, “una giovinezza che non trova scamp

Antonia Pozzi al rifugio Principe di Piemonte 1934

di Monica Acito

 

Ci sono esistenze che sono perle, luminose e selvagge al tempo stesso. Perle che la vita si passa tra le mani, accarezzandole e sgranandole come rosari, fino a lanciarle al di là del confine stabilito da tutte le leggi del mondo.

L’esistenza di Antonia Pozzi è stata come una perla dalla bellezza ingenua e brutale, quasi infantile. La sua storia è sempre stata con me, fin da quando ero piccola: la figura di questa ragazza, per sempre giovane e intrappolata nel suo dolcissimo ricordo, è qualcosa che da sempre mi affascina e terrorizza.

La sua vita è durata solo ventisei anni: nei ricordi di tutti, Pozzi sarà sempre ragazza, anche se con le sue parole è riuscita ad attraversare tutte le stagioni della vita. Bambina, adulta, fanciulla, vecchia: la voce di Antonia Pozzi ha molto da insegnare anche a chi non scrive soltanto poesia.

La sua è una voce spaventosamente limpida, isolata e solitaria nel panorama letterario del Novecento.

Una fiammella conturbante che continua a brillare negli anni, perché l’esperienza di Antonia Pozzi è qualcosa che non può prescindere dalla sua stessa vita, che è essa stessa un pezzo di poesia.  Non possiamo pensare al suo profilo senza partire dalla fine, che contiene e ingloba tutte le movenze di questa giovinezza che non trova scampo.

Quel giorno del 3 dicembre 1938 c’era la neve: il freddo pungeva sulla pelle e deve anche aver pizzicato le guance di Antonia, che aveva deciso di prendere la bicicletta e costeggiare i campi intorno all’abbazia di Chiaravalle, alle porte di Milano.

La neve quel giorno era eterea e silenziosa, più del solito: la neve di dicembre era il manto perfetto per ricoprire le guance, il corpo e la vita di una ragazza di ventisei anni. Antonia Pozzi, il 3 dicembre 1938, salutava la vita terrena nel bianco della neve, mentre un piccolo rigagnolo le scorreva vicino, raccogliendo nell’acqua l’ultimo respiro di un’anima viscerale e disperata.

Milano, 3 marzo 1931
[…]
Sfocia così il tumulto
d’ogni mio male
nel riposo di un’estasi
senza confine
e l’anima ritrova la sua pace,
come un folle balzo di acque
che si plachi, incontrando
la suprema quiete del mare.

(Nel duomo, Antonia Pozzi, Tutte le opere, Garzanti) Continua a leggere

“Piazzale senza” nome indaga la perdita

Luigia Sorrentino

Nota di lettura
di Alessio Alessandrini

In “Piazzale senza nome” (Pordenonelegge-Samuele Editore, 2021, Luigia Sorrentino vuole, fortissimamente vuole, indagare “la verità della violenza” e lo fa mettendo in parallelo la morte dei vecchi – ivi rappresentata nella fattispecie dal privato e dolcissimo ricordo paterno – e quella dei giovani che sperperarno la vita spavaldi e ingenui, travolti dal vento che osceno sferza il piazzale senza nome, luogo spoglio e aperto, dove spesso capita di essere sorpresi dal colpo, dall’inatteso grido che preannuncia la “fine di ogni cosa“.

La violenza è nelle pupille dei corpi prima “affamate“, poi “allagate” e, infine “incenerite” come di martiri agonizzanti, i molti che gremiscono questi dolenti versi (si pensi al simbolico riferimento alla capra, al suo essere capro espiatorio e agnello sacrificale, suo malgrado).

È il silenzio armato nelle pupille, lo stupore che si traveste da allarme, a rincorrere lungo questi versi bacchici, apparentabili, per forza evocativa, crudezza e crudeltà anche espressionista, a un canto di sangue, canto che poco concede alla compassione e al lirismo edulcorato per ricamare, fino in fondo, la parola che inchioda e sa rintracciare “tutto il nascosto che travolge“.

Potrebbe apparire un terribile requiem, quello di Luigia, un lento e disperato coro da tragedia, un plastico scenario infernale, se non fosse che la struttura perfetta – prosa e pometto – rimanda più a una purgatoriale ascesa da inferum verso un cielo solo sospetto ma pur sempre pronto a rivelarsi se, come chiosa uno dei versi più belli della raccolta, “la fine era (ndr: ed è) la dove qualcos’altro cominciava.Continua a leggere

Giulia Napoleone per Mantova Poesia

Giulia Napoleone

L’associazione Corte dei Poeti di Mantova presenta Giulia Napoleone per Mantova Poesia. A cura di Stefano Iori. Casa di Rigoletto, Mantova. 7 maggio – 5 giugno 2022. Inaugurazione il 7 Maggio alle ore 18:00. Testo in catalogo di Rosa Pierno. Giulia Napoleone per Mantova Poesia

Mostra curata dall’associazione La Corte dei Poeti nell’ambito dell’ottava edizione del Festival Mantova Poesia.

Giulia Napoleone per Roberto Rossi Precerutti

 Casa di Rigoletto, Mantova
7 maggio – 5 giugno 2022

Inaugurazione sabato 7 maggio alle ore 18

Una testimonianza a favore della poesia, oltre che dell’arte, è la mostra che Giulia  Napoleone ha voluto realizzare a Mantova.

Il progetto diviene realtà nell’ambito dell’ottava edizione del Festival Mantova Poesia organizzato dall’Associazione La Corte dei Poeti.

Con la realizzazione di sedici disegni a inchiostro di china su carta a mano (courtesy Galleria Il Ponte di Andrea Alibrandi, Firenze), Giulia Napoleone, da sempre appassionata di poesia, ha inteso rendere omaggio ai versi di alcuni dei suoi poeti preferiti, traendone linfa per l’ideazione delle sue opere. La mostra sarà allestita nelle sale della Casa di Rigoletto nel cuore di Mantova. L’inaugurazione avrà luogo sabato 7 maggio alle ore 18.

La mostra è curata dallo scrittore Stefano Iori e gode dei patrocini di Regione Lombardia, Comune e Provincia di Mantova. Possibilità di visita fino al 5 giugno prossimo, tutti i giorni dalle 9 alle 18 (ingresso libero). Testo in catalogo di Rosa Pierno.

Giulia Napoleone per Leonardo Sinisgalli

Le opere di Giulia Napoleone aprono a una considerazione sul rapporto trasversale che l’artista ha inteso instaurare con la parola poetica.

Le immagini non sono mai un naturale prolungamento delle parole, né la loro traduzione, e non possono essere sostituite da un testo.

È possibile tuttavia mettere a coltura la relazione tra la poesia e l’arte per ottenere campi semantici condivisi. In ogni caso, un loro fondo comune può trovarsi solo a monte, nel desiderio, nell’ideazione e nell’emozione; non a valle, luogo delle realizzate specificità delle forme espressive. Ed è quanto la mostra intende offrire all’attenzione dei visitatori.

I poeti, ai quali Giulia ha dedicato i suoi disegni sono: Annelisa Alleva, Maria Clelia Cardona, Milo De Angelis, Roberto Deidier, Biancamaria Frabotta, Gilberto Isella, Maria Gabriela Llansol, Fabio Merlini, Alberto Nessi, Yves Peyré, Giancarlo Pontiggia, Fabio Pusterla, Roberto Rossi Precerutti, Leonardo Sinisgalli, Luigia Sorrentino, Marco Vitale.

Giulia Napoleone Per Annelisa Alleva

All’interno delle sale espositive della Casa di Rigoletto sarà presente anche il libro, firmato da Elio Pecora e Giulia Napoleone, Nell’aria del mattino (frammenti di un prologo), i cui testi sono stampati sui torchi della Stamperia d’arte il Bulino in Roma (2020).

Il libro è tirato in trentacinque esemplari, tutti dotati di pastelli originali di Giulia Napoleone.

Sia nelle copertine sia nei disegni, tutti diversi in ciascun libro, i pastelli, di tonalità generalmente blu e viola, si integrano attraverso una sfumatura magistrale. Le poesie di Pecora, giocate su opposizioni lessicali e sulle loro illusive coincidenze, in una trama in cui esse si illuminano o si oscurano ritmicamente, affiancano i disegni interni al volume, registranti il passaggio tra densità e rarefazione.

La consistenza serrata del colore trasmette la gradualità dell’intensificazione, mentre i passaggi da una cromìa all’altra procurano la sensazione di tridimensionalità. L’immagine, in questi meravigliosi libri, sembra raggiungere un sidereo silenzio, l’effetto di uno svolgimento eterno.

Giulia Napoleone per Luigia Sorrentino, “Piazzale senza nome”

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Una poesia di Louise Glück

Louise Glück

The Wild Iris

At the end of my suffering
there was a door.

Hear me out: that which you call death
I remember.

Overhead, noises, branches of the pine shifting.
Then nothing. The weak sun
flickered over the dry surface.

It is terrible to survive
as consciousness
buried in the dark earth.

Then it was over: that which you fear, being
a soul and unable
to speak, ending abruptly, the stiff earth
bending a little. And what I took to be
birds darting in low shrubs.

You who do not remember
passage from the other world
I tell you I could speak again: whatever
returns from oblivion returns
to find a voice:

from the center of my life came
a great fountain, deep blue
shadows on azure seawater.

Louise Glück

L‘Iris selvatico

Alla fine del mio soffrire
c’era una porta.

Sentimi bene: ciò che chiami morte
lo ricordo.

Sopra, rumori, rami di pino smossi.
Poi niente. Il sole debole
tremolava sulla superficie secca.

È terribile sopravvivere
come coscienza
sepolta sulla terra scura.

Poi finì: ciò che temi, essere
un’anima e non poter
parlare, finì a un tratto, la terra rigida
un poco curvandosi. E quel che mi parve
uccelli sfreccianti in cespugli bassi.

Tu che non ricordi
passaggio dall’altro mondo
ti dico che seppi parlare di nuovo: tutto ciò
che ritorna dall’oblio ritorna
per trovare una voce:

dal centro della mia vita venne
una grande fontana, ombre blu
profondo su acqua di mare azzurra.

(Traduzione di Massimo Bacigalupo) Continua a leggere

Pier Paolo Pasolini a cent’anni dalla nascita

Pier Paolo Pasolini

Da Le ceneri di Gramsci, di Pier Paolo Pasolini

I

Non è di maggio questa impura aria
che il buio giardino straniero
fa ancora più buio, o l’abbaglia

con cieche schiarite… questo cielo
di bave sopra gli attici giallini
che in semicerchi immensi fanno velo

alle curve del Tevere, ai turchini
monti del Lazio… Spande una mortale
pace, disamorata come i nostri destini,

tra le vecchie muraglie l’autunnale
maggio. In esso c’è il grigiore del mondo,
la fine del decennio in cui ci appare

tra le macerie finito il profondo
e ingenuo sforzo di rifare la vita;
il silenzio, fradicio e infecondo…

Tu giovane, in quel maggio in cui l’errore
era ancora vita, in quel maggio italiano
che alla vita aggiungeva almeno ardore,

quanto meno sventato e impuramente
sano
dei nostri padri – non padre, ma umile
fratello – già con la tua magra mano

delineavi l’ideale che illumina

(ma non per noi: tu morto, e noi
morti ugualmente, con te, nell’umido

giardino) questo silenzio. Non puoi,
lo vedi?, che riposare in questo sito
estraneo, ancora confinato. Noia

patrizia ti è intorno. E, sbiadito,
solo ti giunge qualche colpo d’incudine
dalle officine di Testaccio, sopito

nel vespro: tra misere tettoie, nudi
mucchi di latta, ferrivecchi, dove
cantando vizioso un garzone già chiude

la sua giornata, mentre intorno spiove.

 

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Appello alla pace

Lingue mute| Poeti contro la guerra
a cura di Luigia Sorrentino
con la collaborazione di
Alessandro Anil e Fabrizio Fantoni

 

L’evento, fortemente voluto da Valentino Filippetti, Sindaco del Comune di Parrano, si terrà nei giorni 26 e il 27 aprile 2022 a Parrano, in provincia di Terni, a partire dalle ore 16:00 nella Chiesa di Santa Maria Assunta, in Piazzetta Gaio Fratini.

Il progetto

Lingue mute | Poeti contro la guerra, è l’appello alla pace rivolto ai potenti del mondo.

Raccoglie le voci di 15 poeti italiani, e, sullo sfondo, le voci di poeti ucraini e russi contemporanei, ma anche quelle dei loro padri che hanno scritto poesie memorabili dall’esilio o dalla loro patria in guerra.

Per Osip Mandel’štam “la poesia è il luogo ove ciò che può essere percepito e raggiunto mediante la lingua si raccoglie attorno al quel centro da cui ricava forma e verità: attorno a quella individuale esistenza che pone interrogativi all’ora presente, sia la propria che quella del mondo, al battito del cuore e al secolo.”

La parola del poeta interpreta il significato profondo della catastrofe causata dall’insensatezza degli uomini e racconta l’orrore della guerra quando questa coincide con la sua presenza nella Storia. Continua a leggere

Paul Celan, la pietà della parola

Paul Celan e Gisèle Lestrange

La guerra e la verità della poesia
Considerazioni in margine a una poesia di Paul Celan

di Marco Marangoni

C’è una questione che emerge in ogni guerra e tanto più in queste nostre, moderne e infine in questa ultima, così drammatica, in Ucraina: la perdita delle vite è preceduta e accompagnata della perdita della parola e della verità.

La lingua naturalmente nata per comunicare, per raggiungere l’altro, perde, in guerra, il suo senso, anzi viene contraddetta.

E’ in grado ancora, in guerra, la parola (segnatamente la parola “guerra”) di ospitare l’altro? O invece lo rifiuta?

A regolare i rapporti di belligeranza c’è, prima di tutto, questo rifiuto, questa messa al bando del dialogo. C’è la violenza. Che ne è allora di parole che dicono per non dire, per fingere di dire, avendo di mira la distruzione di ogni vis unitiva che la parola esprime? C’è ancora spazio sim-bolico, spazio linguistico, in una guerra? O siamo piuttosto alla mistificazione della funzione ospitale della parola, al grottesco più dia-bolico?

Ecco che cosa dice la chiacchiera che giustifica una guerra: l’anti-parola, l’anti-poesia; se la poesia è la parola che per definizione cerca di svincolarsi su un sentiero di verità, di trasparenza, di dialogo.

Questo sanno i poeti che della rovina della verità si disperano, ma nella distretta dei loro versi, scuri, ancora sperano?

La poesia alza la posta dei criteri, tra relativamente giusto e ingiusto, polarizzata da un cammino dialogico, inoscurabile, resistente, combattente sul terreno del linguaggio-realtà, per tenere in vita un respiro, nonostante tutto. Giocando la partita magari estrema, tra “Ormai-non più” e “Pur sempre”. Poesia contro antipoesia, ospitalità contro violenza: finchè la “guerra” non sia svergognata.

Questo sanno i poeti?

Nonostante tutto, anche e soprattutto in una guerra, la poesia di certo resta un “cambio di respiro” e intrattenendo un dialogo insperato con le vittime, patisce la loro perdita, si interroga sul loro destino, e le intrattiene in una attenzione, in un dialogo, per quanto tramato questo di una inevitabile oscurità.

L’ultima ospitalità è dunque la pietà della parola? La poesia è, può anche questo? La poesia non si impone, ma si espone, è stato detto. La poesia come un certo cammino.

Leggiamo qui di seguito questa poesia di Paul Celan, nato a Czernowitz, nella Bucovina settentrionale, che oggi fa parte dell’Ucraina: “ una contrada – come ebbe a dire il poeta stesso – di uomini e libri” (Allocuzione, Premio letterario di Brema,1958).

La poesia è tratta dalla raccolta Atemkristall ( 21 testi) pubblicata nel settembre del 1965 ( poi nel ’67 ripubblicata in Atemewende, Suhrkamp, Frankfurt/M), in una edizione di lusso (ottantacinque esemplari), presso l’editore Brunidor di Parigi, con otto incisioni della moglie del poeta Gisèle Celan-Lestrange.

Secondo Giuseppe Bevilacqua, Atemkristall sarebbe “l’opera lirica di Celan più compatta, più essenziale; e può essere considerata il vero culmine del suo operare” (Eros-Nostos-Thanatos, saggio introduttivo a Paul Celan, Poesie, Mondadori, Milano 1998, XCII) .

Proponiamo la poesia in una duplice versione: più concettuale di Franco Camera e più liricamente intensa di Giuseppe Bevilacqua. Continua a leggere

Mark Wundelich, “Frammento di San Giuliano”

Mark Wundelich ospite di Civitella Ranieri Foundation nel 2014 e nel 2016

La poesia ecfrastica 
di Luigia Sorrentino

La poesia  Fragment of St. Julien del poeta statunitense Mark Wundelich, è uno dei tanti esempi di poesia ecfrastica, una poesia che nasce dalla minuziosa osservazione di un’ opera artistica. Il poeta che applica questa tecnica in grado di aprire una sorta di finestra per gli occhi della mente, affinché l’opera lasci una traccia indelebile nella sua memoria. Nella raccolta Feathers from the Angel’s Wings (WW Norton, 2016), curato dal Direttore Esecutivo di Civitella Ranieri Dana Prescott molti poeti si sono soffermati sulle opere di Piero Della Francesca e hanno messo in evidenza come  arte e letteratura siano interconnesse tra loro. Molti scrittori borsisti della Fondazione Civitella Ranieri  hanno potuto osservare le opere di Piero Della Francesca durante le escursioni organizzate dalla Fondazione e sono poi entrati nel libro di Dana Prescott pubblicato nel 2016.


Fragment of St. Julien

The throat of the stag was never meant for speaking;
It would have pained the creature, to make the shapes,
to force the tongue and push against its single row of teeth, make way for the warning to Julien, whose arrow
broke the bleeding hole the spirit of speech went in.
The first the beast spoke was warning, threat and pain which is the way of all first language, the mouth
opening in surprise, the lungs seizing up to bark.
In the fragment of wall skimmed off and framed,
Julien too looks pained, regret not yet registered, understanding leaking like a tint stirred into plaster,
his cloak still pulled around his shoulders, his club
gripped in his good hand, having beaten
the bodies of those who made him. Regret would come later but for now he was more animal than that talking beast
who knew him for what he was.

Mark Wunderlich

Frammento di San Giuliano

Traduzione italiana di Greta Caseti

La gola del cervo non fu concepita per parlare;
avrebbe fatto soffrire la creatura, dare forma alle parole
forzare la lingua e spingere contro quell’unica fila di denti,
fare largo al monito per Giuliano, la cui freccia
trapassò il foro sanguinante in cui lo spirito del verbo era entrato. Dapprima la bestia espresse monito, minaccia e sofferenza,
nel modo di ogni prima voce, con la bocca
aperta, attonita, i polmoni bloccati dal guaito.
Sul frammento di muro rimosso e incorniciato,
anche Giuliano sembra soffrire, il rimorso non ancora avvertito, la coscienza che cola come tinta mescolata allo stucco,
il mantello ancora avvolto alle spalle, la mazza
stretta nella sua mano buona, pestati
i corpi di chi l’ha concepito. Il rimorso sarebbe venuto poi
ma per ora lui era più animale della bestia parlante
che lo conosceva per ciò che era.

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Vittorio Grotti, “Libertà”

Vittorio Grotti

Libertà edito da Campanotto è il titolo del libro di poesie di Vittorio Grotti (1939-1981) l’artista della Versilia – pittore, grafico e poeta – scomparso quarantun anni fa. A dare corpo al libro nel 2021, in piena era covid, la figlia Esther Grotti che ha sempre attinto da quelle poesie una coinvolgente forza vitale.

Vittorio Grotti torna nel presente a parlarci con rabbia, della guerra, della crisi scialba in cui già negli anni in cui egli visse si dibatteva la società “già consumata”, comunque tesa a cancellarsi brutamente e bruttamente da qualsiasi angolino della storia. Il suo è furore autentico che  va a sciogliersi in una carezza sul capo innocente della figlia Esther : – se un poeta vive il mondo viva. –

Scriveva Carlo Betocchi: “La poetica del Grotti si svela e resiste non tanto per quello che v’è, sotto sotto, di immediato e spontaneo, di scatto passionato e reattivo agli insulti della vita: quanto perché il passionato e reattivo vi sono più spesso ridotti all’osso, e magari accantonati e derisi dal poeta stesso, dandogli addirittura scacco matto. Nel qual caso la sua invenzione verbale riesce ad arrivare a quel pittorico bianco gessoso del Viani irridente che fa personaggio col suo tragico nero”.

Oltre a Betocchi, furono molti i poeti che si avvicinarono alla poesia del Grotti, fra essi Giorgio Caproni che lo raccontò così:

Una barbaccia alla Castro. Due lucentissimi occhiacci vivi e neri sul fiore (di terracotta) di un lucumonico sorriso etrusco, puntatimi addosso a Viareggio con una fissità da farmi incavolare: da costringermi, com un impermalito Adamo Ivanovich, al solito (v. “Umiliati e offesi”): “Ma insomma, perché mi guarda con tanta insistenza?”.

E’ la mia prima (molto lontana, ormai) immagine di Vittorio Grotti.

Poi ebbi modo di “avvicinarlo”. Di correggere, a cominciar dalla barba, quella prima (falsa) impressione fisica.

E’ un uomo che spira amicizia da ogni poro. Un anarchico dal cuore di zucchero. Un grande allevatore non di caimani, ma di pittori bradi. (Sa anche domarli).

Adoratore (sacerdote) di Lorenzo Viani.

(“Dici steccolo”, esclamerebbe un vecchio livornese).

Comunque, un dolcissimo incendiario che, a toccarlo, dà la scossa,come la dà soltanto chi in corpo un Nume.

Quale sia questo nume non lo so. Ma so che Grotti è anche (leggi soprattutto) un autentico poeta alla diavola, che scrive versi pronti a prenderti a schiaffi come a farti le più intenerite carezze. (“Eh le bisce contorte e folgoranti,/ forti come una barzelletta / urlata forte nelle  orecchie del deserto/ o come la conversione di Saulo…”). Un poeta che non puoi rinchiudere in nessun barattolo confezionato con precisa etichetta, giacché li farebbe scoppiar tutti.

“Costituisco in un piazzale di pietra l’anitra più grassa
che affronti Petrarca Boccaccio l’Aretino Dante e
con un solo starnazzo i becchi in solido
sul cuore di finti dondoli in cornici dorate
Dio stesso viene meco masticando bava filante
e zucchero di Capezzano P.
Ora che il ver vetro è la mutua, la vergine, la pensione nero su bianco.
Bicchieri di carta in fondo.
Vuoto a perdere”.

Sono Versi che mi ha mandato lui per Pasqua, in autografo, e che solo lui poteva scrivere. Versi che bastano a dare un’idea, senza contorcimenti verbali da parte mia, di quale legno sia fatto “il Grotti”.

Leggetelo. Leggiamolo. Lui che, nella sua “rivolta” (tutta tesa verso l’amicizia e la pace), è una specie di Lucifero alla rovescia: un diavolo che s’è fatto angelo.

 

PER UN CRISTO CH’È STATO E CHE POTREBBE

 

La delegazione operaia
ha regalato cuscini e ghirlande di fiori,
senza dire una parola, una sola.

Finalmente
la madre ha visto il figlio morto,
il figlio che partiva alle sei per la fonderia,
il figlio che tornava alle sei dalla fonderia.
L’han riportato ieri colla “misericordia”,
già composto nella tuta blu:
lui che sempre,
tutte le sere,
rideva scherzava la baciava,
cantando le portava una leccornia.
Poi il padrone che parla,
l’assicurazione che parla…
– Schiacciato da un blocco caduto per caso.
– Così giovane, è stata una disgrazia.

A tempo
s’è ricordata della bicicletta,
subito un compagno di lavoro è andato a prenderla.
Era rimasta appoggiata al muro della fonderia,
al manubrio c’era ancora la borsa di paglia.

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Festival della poesia italiana alla John Cabot University

InVerse, Italian Poets in Translation, il Festival della poesia italiana, si terrà mercoledì 20 aprile, alle ore 19, presso l’Aula Magna Regina della John Cabot University (JCU) – tra le più grandi università americane in Europa – in via della Lungara 233, a Trastevere.

InVerse offre spazio non solo alle grandi voci della poesia italiana contemporanea, ma anche ai poeti emergenti, che hanno così l’opportunità di farsi conoscere oltreoceano.

Partecipano all’evento Vincenzo Bagnoli, Carlo Boassa, Chandra Livia Candiani, Gianni D’Elia, Donatella Della Ratta, Fabio Donalisio, Franca Mancinelli, Nefeli Misuraca, Renata Morresi, Fabio Orecchini, Ginevra Sanfelice Lilli, Fabrizio Sani, Jonida Prifti, Tiziano Scarpa, Beppe Sebaste, Cesare Viviani, Giovanna Cristina Vivinetto.

Nel corso di InVerse, le poesie saranno lette in lingua italiana e in lingua inglese.

I testi delle poesie sono stati raccolti in una antologia bilingue, edita dalla John Cabot University e già disponibile negli Usa, che sarà presentata nel corso dell’evento.

Il Festival, giunto alla decima edizione, è stato fondato nel 2005 dai docenti della John Cabot University, Brunella Antomarini, Berenice Cocciolillo, Rosa Filardi

InVerse è uno degli appuntamenti più importanti dell’università americana, frequentata da giovani provenienti da 70 nazioni, e rappresenta un’occasione significativa per comprendere come la cultura italiana si trasmetta attraverso il linguaggio della poesia. Continua a leggere

Il “De rerum natura” nella traduzione di Milo De Angelis

A N T E P R I M A      E D I T O R I A L E

 

Il 10 maggio 2022 esce nelle librerie italiane un grande classico del pensiero e della letteratura: il DE RERUM NATURA di LUCREZIO (Mondadori, 2022) interpretato e riscritto da uno dei maggiori poeti del nostro tempo, Milo De Angelis.

Una traduzione attesissima, che ci permette di tornare a Lucrezio con una versione che ricrea fedelmente lo spirito e la tensione interna dell’esametro lucreziano come non era mai accaduto prima, con tanta poetica adesione.

Estratto dalla Prefazione
di
Milo De Angelis

Questa traduzione nasce da un lungo sodalizio con Lucrezio, che ha accompagnato tutta la mia vita: dalla tesina di Maturità al rapporto con il latinista Luciano Perelli, alle pubblicazioni scolastiche, alla rivista “Niebo”- che a Lucrezio ha dedicato un numero nel 1978 – e alle varie traduzioni apparse negli anni: un lungo tragitto fatto insieme, tante strade percorse e tante visioni comuni, quasi delle nozze poetiche, con promesse solenni, contrasti, riprese, abbandoni, ritorni.

D’altronde Lucrezio non ha un carattere facile, come è noto. È un uomo aspro, polemico, intransigente – caso raro tra i latini, che tendono spesso a una humanitas colloquiale – e appartiene invece alla razza dei grandi solitari, come Nietzsche o Campana, uomini che alla poesia hanno chiesto tutto, si sono assunti il rischio di una domanda totale e hanno fatto della poesia una questione di vita o di morte: non quindi un gioco o un esperimento ma una parola decisiva.

Di lui non sappiamo quasi nulla. Non sappiamo dove è nato, dove ha vissuto, cosa ha fatto nella sua vita. Questo può apparire sorprendente nel primo secolo avanti Cristo, il secolo d’oro della letteratura latina, il secolo di Orazio e Cicerone, ampiamente documentato dalla storiografia. Ma in fondo non c’è troppo da stupirsi. Lucrezio è un uomo isolato, un uomo fuori dalle dispute culturali del suo tempo, lontano dai circoli letterari e dall’eleganza dei neoteroi.

Lucrezio non è al passo con i tempi. Non parla con i poeti contemporanei, non entra nei luoghi mondani del “dibattito”. È un uomo fuori tempo, fuori modo, fuori luogo. Non si rivolge ai vicini di casa ma agli antichi, ai grandi sapienti greci che si sono interrogati perì physeos: sulla natura delle cose, appunto.

Parla con Eraclito, Anassagora, Empedocle, Epicuro, parla con coloro che sono stati la sorgente del pensiero e hanno lanciato una staffetta poetica lungo i secoli, hanno fatto viaggiare un testimone, un bastoncino di legno che passa da una mano all’altra, da una mente all’altra.

 

Il dolore della giovenca (II, 352-366)

 

Nam saepe ante deum vitulus delubra decora
turicremas propter mactatus concidit aras
sanguinis exspirans calidum de pectore flumen.
At mater viridis saltus orbata peragrans
quaerit humi pedibus vestigia pressa bisulcis,
omnia convisens oculis loca si queat usquam
conspicere amissum fetum, completque querellis
frondiferum nemus adsistens et crebra revisit
ad stabulum desiderio perfixa iuvenci,
nec tenerae salices atque herbae rore vigentes
fluminaque illa queunt summis labentia ripis
oblectare animum subitamque avertere curam,
nec vitulorum aliae species per pabula laeta
derivare queunt animum curaque levare:
usque adeo quiddam proprium notumque requirit.

 

Il dolore della giovenca (II, 352-366)



Sovente, davanti agli splendidi templi degli dei,
ai piedi degli altari dove brucia l’incenso, si accascia un vitello
sacrificato e un fiume caldo di sangue gli esce dal petto.
La madre a cui è stato strappato percorre i verdi pascoli
cerca di trovare per terra l’impronta dei suoi zoccoli,
posa dappertutto il suo sguardo, spera con tutte le forze
di scorgere da qualche il figlio perduto. Resta immobile
alle soglie del bosco, lo riempie dei suoi lamenti disperati,
in preda all’angoscia torna indietro a cercarlo nella stalla.
Né i teneri salici né l’erba ricca di rugiada né i suoi amati
corsi d’acqua che scorrono a filo delle rive possono consolare
il suo cuore o scacciare la sua sofferenza improvvisa
e neppure la vista degli altri vitelli nei pascoli fecondi
riesce a distrarre il suo animo o alleviare la pena: lei cerca
l’unica creatura che conosce davvero, la sua!

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Lyudmyla Khersonska, “non tacere, grida”

приходит война – ты не молчи, кричи.
сволочи, кричи, твари, кричи, палачи,
не делай вид, что ничего не происходит,
не бойся тревожить всех,
тормоши, буди – когда война, разбудить не грех.
кричи на всю страну, на все другие страны кричи,
окна пошире раскрой, не глотай ее, не молчи,
не жри ее втихаря, проклятую, не давись.
остался где человек? отзовись!
если человек ушел, так бывает, что закончился человек,
казалось на наш век хватит, не хватило на век,
прячет голову в плечи, в голове прячет глаза,
он не против, он, практически, за.
так ты его, человека, расталкивай со всех сторон,
пусть не молчит, пусть тоже кричит он,
пусть не делает вид, что не произошло ничего.
даже последнего человека, верни его,
поверни лицом к реальности, лицом к войне,
объясни человеку, она не за окном, не вовне,
рядом с ним, там, где работа и дом,
рядом с немым, молчащим, выдавливающим фразу с трудом,
научи его говорить, по слогам кричать.
только не надо молчать. о войне не надо молчать.

quando arriva la guerra – non tacere, grida,
grida bastardi, grida bestie, carnefici,
non fingere che nulla stia succedendo,
non aver paura di disturbare alcuno;
quando c’è la guerra, non è peccato svegliarsi.
grida al paese intero, grida a tutti gli altri paesi,
spalanca le finestre, non ingoiarla, non tacere,
non mangiarla in segreto, non soffocarti.
c’è ancora l’uomo? Rispondi!
senza uomo, l’umanità è condannata.
Sembravano abbastanza per il nostro secolo, ma non abbastanza per un secolo,
nasconde la testa tra le spalle, nella testa nasconde gli occhi,
non gli importa, acconsente.
allora scuoti l’uomo in tutti i modi,
che non taccia, che gridi anche lui,
che non finga che nulla stia succedendo.
anche se fosse l’ultimo uomo, riportalo in sé,
che affronti la realtà, che affronti la guerra,
spiega all’uomo che non è fuori dalla finestra, non è lì fuori,
è proprio qui, accanto a casa sua e al suo lavoro,
accanto al suo tacere, il suo muto tacere che a stento si rompe,
insegnagli a parlare, a gridare in sillabe.
ma non tacere, sulla guerra non puoi tacere.

Traduzione di Greta Caseti Continua a leggere

Per la prima volta in mostra i capolavori simbolisti di Marie–Charles Dulac

Marie-Charles Dulac, pregare con il paesaggio

di Fabrizio Fantoni

  

È in corso a Roma presso la galleria Aleandri Arte Moderna (piazza Costaguti 12), la mostra “Marie-Charles Dulac, pregare con il paesaggio”.

L’esposizione, curata da Federico De Melis, si propone di rileggere l’opera del grande pittore simbolista Dulac collocandola nel panorama culturale europeo di fine du siècle. Artista visionario ed innovatore Dulac ebbe – a seguito di una conversione religiosa che lo portò a divenire  terziario francescano  – innumerevoli contatti con l’Italia, dove soggiornò a più riprese tra il 1895 ed il 1898 durante i suoi pellegrinaggi sulle orme del Santo di Assisi. Morì a Montmartre ad appena 32 anni, lasciando un corpusridotto di opere in cui spiccano i piccoli paesaggi mistici dell’ultimo periodo e due suites litografiche più una incompiuta.

Nella mostra presso la Galleria Aleandri sono esposte, per la prima volta in Italia, tutte le litografie che compongono la suite intitolata Le Cantique des Créatures: capolavori della grafica del tardo Ottocento in cui il paesaggio si interiorizza e si fa materia spirituale attraverso un uso innovativo del colore e della tecnica litografica, arte in cui Dulac fu indiscusso maestro.

Le nove litografie de Le Cantique sono accompagnate da un nutrito gruppo di opere di artisti che ebbero rapporti di amicizia e di stima con Dulac e che illustra la vivacità del contesto culturale in cui egli operò.

 

Intervista a Simone Aleandri
Fondatore della galleria Aleandri Arte Moderna

di Fabrizio Fantoni

 

Come è nata l’idea di una mostra su un artista così poco conosciuto dal pubblico italiano?

 

La genesi della mostra è certamente la comune passione per Marie-Charles Dulac che alcuni anni fa ho scoperto di condividere con il curatore Federico De Melis, appassionato ed esperto studioso di arte francese fin du siecle.

Dulac è un artista molto raro che incontrai per la prima volta sul catalogo della mostra “Il luogo ideale” a cura di Jean-David Jameau-Lafond tenutasi presso il Museo d’Arte di Nuoro nel 2007 (la rassegna giunse a Nuoro da Pamplona, inaugurata nel 2006 con titolo Un Páis ideal: el paisaje simboliste en France) e dedicata alla pittura “brumosa” e simbolista francese che si contrappose a quella impressionista nella Parigi  della seconda metà del XIX secolo.

La Galleria che porta il mio nome è storicamente molto legata al Simbolismo europeo ed italiano a cui, nei passati quindici anni, sono state dedicate molte mostre personali e di ambiente.

Rimasi fortemente colpito dalla qualità visionaria, poetica e tecnica delle opere di  Marie-Charles Dulac, così maturai il desiderio di dedicare una mostra al pittore francescano.

De Melis invece incrociò l’artista in una galleria parigina che esponeva un suo “Paesaggio spirituale” e intraprese un personale percorso di riscoperta e di indagine che culminò in un bellissimo articolo a lui dedicato e pubblicato sulle pagine di  Alias  (Il Manifesto).

Da quel momento cominciò un lavoro sistematico di ricerca di opere che si rivelò molto difficoltoso per via della rarità dell’artista dovuta alla sua prematura scomparsa a soli 32 anni e ad un approccio del pittore con l’arte sobrio e non ossessionato da una ricerca di produzione massiccia.

Dopo circa un anno intercettammo a Parigi il portfolio Le Cantique des Creatures collazionato da un raffinato raccoglitore che riunì quindici esemplari facendo dialogare le Planche litografiche stampate ad un colore (edite in sessanta copie, 1894) con quelle arricchite da un secondo tono (venti esemplari, 1894) e permettendo di instaurare un confronto diretto fra le tavole.

Da questo nucleo iniziale abbiamo poi costruito un contesto storico arricchendo l’esposizione di opere di altri artisti legati alle temperie umane e culturali di Marie-Charles  Dulac.

Come ho già anticipato precedentemente, fatta eccezione per la mostra itinerante che sbarcò a Nuoro nel 2007  in cui Dulac era rappresentato da un nucleo significativo di opere, questa è la prima occasione in cui si può ammirare la produzione litografica del visionario francescano in Italia.

Certamente è la sua prima mostra personale ed è accompagnata da un esaustivo catalogo che introduce la rassegna delle opere attraverso una lettura critica e biografica a cura di Federico De Melis che entra nel merito delle vicende umane ed artistiche del pittore con una scrittura ispirata e molto documentata.

Abbiamo inoltre approfondito la tecnica litografica come Dulac la praticò nell’ultimo decennio dell’ottocento e fatta un po’ di chiarezza nella celebre cartella evocante il Cantico, in merito ai diversi toni di stampa e ai criteri adottati per la tiratura, nell’intento di fornire un contributo reale e significativo agli studi sull’artista.

Il volume si chiude con una sezione in cui sono state tradotte, per la prima volte nella nostra lingua, alcune lettere che Dulac scrisse dai suoi pellegrinaggi in Italia, congiuntamente ad un toccante testo di commiato dell’amico Joris-Karl Huysmans (lo scrittore fece di Dulac un vero punto di riferimento e nel suo romanzo La Cathédrale, 1898, entrò nel merito della suite litografica con toni entusiastici) con cui l’intellettuale ricordò Marie-Charles  dopo la sua morte.

Qual è ruolo che Marie-Charles Dulac rivestì nella cultura figurativa della sua epoca?

 

Dulac fu un artista molto amato dalla sua cerchia, oggetto di un piccolo culto, e considerato un vero innovatore della tecnica in cui si espresse con più forza, la litografia. Le sue opere dovettero circolare molto nei colti ambienti parigini e destarono grande ammirazione negli ultimi anni della sua vita (Marie-Charles si spense nel dicembre del 1898) ed in quelli successivi.

Odilon Redon di lui disse: «Era unico fra tutti coloro che plasmano il proprio spirito nella tela». Dagli studi sono emerse delle interessanti e suggestive correlazioni con opere, di artisti anche molto importanti, che sembrano derivare dai fogli di Dulac, fra i quali L’idol noire (1900-1903) di František Kupka. Il capolavoro del praghese, francese di adozione, sembra infatti ricalcare la visione prospettica ed atmosferica della planche IV del portfolio francescano (1894) sostituendo la silhouette nera dell’albero su cui tutti gli elementi della composizione convergono con quella della sfinge che ne occupa i medesimi ingombri.

Già Francesco Parisi nel suo volume dedicato alla produzione giovanile e preraffaelita di Giovanni Guerrini (artista noto per aver disegnato negli anni trenta il profilo della Palazzo della Civiltà di Roma, E 42) riscontrò la derivazione di una litografia dell’artista italiano da alcuni paesaggi del francese. La riscoperta di Dulac e la sua ricollocazione in un posto d’onore dell’arte europea è già in corso da alcuni anni, grazie all’impegno di Jumeau-Lafond che, fra le altre fatiche, sta lavorando ad un catalogo ragionato dell’opera. Il nostro obiettivo è di sensibilizzare la sua conoscenza sul territorio italiano, così caro e amato da Dulac, e porre il nostro paese in un ruolo primario all’interno di tale riscoperta attraverso un lavoro di ricerca che ci ha condotti ad inaugurare, presso i nostri spazi, la prima mostra personale retrospettiva del pittore su scala mondiale. Continua a leggere

Alessandro Santese, “Vento nelle mani degli uomini”

Alessandro Santese

A N T E P R I M A      E D I T O R I A L E

 

Il 21 aprile 2022 esce con Nicola Crocetti Editore, il secondo volume di poesie di Alessandro Santese:  Vento nelle mani degli uomini

Con la sezione Dimenticate contenuta nella nuova raccolta di versi, Alessandro Santese, nato a Roma nel 1990, nel 2019 ha vinto il Premio Poesia Città di Fiumicino per l’Opera Inedita, da una giuria composta da Milo de Angelis, Fabrizio Fantoni, Emanuele Trevi, Luigia Sorrentino. Presidente Gianni Caruso. Ci fa piacere proporre per la prima volta su questo blog in anteprima editoriale una scelta di quattro poesie fra molte altre, con le quali Alessandro ha vinto il Premio, poesie poi pubblicate in plaquette con la mia Prefazione – qui sotto riportata –  Edizioni Corte Micina, 2019 come previsto dal Regolamento del Premio.

(Luigia Sorrentino)

 

Alessandro Santese
da Dimenticate

Perché ogni cosa venga dal fuoco
per ritornare al fuoco

Orizzonte delle intersecanti

Tutto il tempo saremo
che ci siamo promessi
un giorno
come le cose che ci dicemmo a bassa voce, tra le mani
congiunte, per paura che il mondo ce le rubasse,
in un refolo:
entrerai nel gelo del ferro stringendolo all’infinito
come un figlio
di cui senti le frasi nel sonno cadere a manciate
come le ossa
la neve
del corpo piccolo un giorno al fondo di un cortile
che si diventa:

e sono grida bianche
cresciute dentro
a una a una che
sollevano la carne a un volo che precede
il dolore e lo scavalca,
ciò che dilegua la ridda delle ombre che s’assiepa
e distingue luce da
luce, momento vero e finale da momento: cola
un rivolo dai seni del latte
alla bocca che sanguina
ancora
un verso e giunge a voi, che rovesciaste lo spasmo
della testa contro la pietra del nulla
per troppo amore della vita
trovando il silenzio che non risponde
e dunque risponde:

sdraiato, ricordo, mi vedo
vedo il bambino che guarda sdraiato e cieco
il cielo, che sente addosso
come una imminenza.
All’improvviso, e vede. Bambino e sdraiato io, ti vedo.

Stare felici nei giorni non era stare qui.

Oh lingua che si sfa e voi, oh; vento.

 

Ma credete, vi prego

Ma credete, vi prego, a questo gelo che chiude
gli occhi solo un attimo ed è per sempre, al corridoio
immerso nelle dieci della mattina
che si colma d’una radio feroce, e le finestre, ognuna, ogni fiore
che poi tocchi, credete
al gesto che d’improvviso sa il diluvio nel respiro
poi un caldo minerale
e si entra
a poco a poco nell’ombra,
i piedi scalzi, il fermaglio,
la maglia e la terra,
questo schianto prolungato delle voci
alle tue porte, e prima, prima ancora
dell’asfalto, del suo grido che incontra una notte
su una tangenziale il bacio delle lamiere,
dei nomi l’ultima verità, e li spoglia, per tutti,
Alessio e Giulia in questo unico
esatto gelo del corpo, sposi,
e voi, che vi amerete nella gioia
e nella malattia,
nel dolore e nel terrore, vi prego, finché un bianco viscerale
vi chieda ancora alla luce, al prodigio
d’un grumo che chiamate parola
e sarà ogni cosa, tutto
come la via che portava
e riportava ogni giorno
al lavoro, che si faceva insieme, per venirti a riprendere
con gli occhi stanchi, per quel guizzo
che ti attraversava un attimo il viso,
sedendoci per lo spavento,
mettendoci accanto, sui sedili, entriamo, amore, entriamo
nell’ombra.

 

Io sono il morbo

Io sono il morbo
che t’ossessiona
gli occhi e tritura
il passato nelle maree dei senza volto,
dei mai vissuti, il bastone adesso
ha chiuso il cerchio
come la testa lanciata
nelle mani: è ora di entrare
e lasciarci tutto,
saranno cancellati anni
e preghiere l’intera terra del corpo
se nervi pulsano
saranno sradicati
uno, ad uno.

Io sono il ventre disseccato
che m’appartiene
il verme nella nuca trapunta
dalla mosca,
io sono del tempo
che non fa testimoni e scrive
formule malcerte sulla sabbia. Ora senti le bocche loro
aperte nel buio
dal sale, il collo torcersi oltre i vetri
dai balconi: si girano al temporale,
lo sanno vicino, sporgono
la fronte alla benedizione della pioggia. Continua a leggere

Boris Khersonsky, “quanti balconi crollati”

Il poeta ucraino Boris Khersonsky a Civitella Ranieri nel 2022

по городу носят взрывчатку в пластиковых пакетах
хозяйственных сумках и маленьких чемоданах
топчут асфальт и брусчатку мы узнаем об их секретах
после взрывов и это просто уточнение данных

сколько окон выбито сколько балконов упало
есть ли убитые или все живы здоровы
только напуганы тем что мирной жизни не стало
случилась война а законы войны суровы

или их просто нет и взрывы вошли в привычку
не встаем из-за столика только вздрогнем и лица мрачнее
враг выбирает оружие как вор подбирает отмычку
а дверь открыта и так говоря точнее

trasportano esplosivi in giro per la città
dentro sacchetti di plastica, borse e valigette
calpestano l’asfalto e il selciato e conosciamo i loro segreti
solo dopo le esplosioni e l’appurare dell’accaduto

quante finestre infrante quanti balconi crollati
è morto qualcuno o sono tutti vivi e vegeti
con la sola paura che non ci sia più vita tranquilla
la guerra accade e le leggi della guerra sono crudeli

o chissà non ci sono più leggi e le esplosioni sono ormai la norma
non ci alziamo da tavola ma incupiti trasaliamo
il nemico sceglie le armi come il ladro sceglie il grimaldello
quando in realtà la porta è già aperta

Traduzione di Greta Caseti Continua a leggere

Moira Egan, “Amore e morte”

Moira Egan Credits ph. Eric Toccaceli

Love & Death

Looking back, I presupposed love,
I suppose. At least, I felt a whiff of death
each time she left. She had a theory: that sex
was the only path to the truth. Philosophy,
religion, physics – the other,
traditional pursuits – had it all wrong. Only poetry

came close, but who can live on poetry?
Too sweet by far, though one can learn to love
it, to breathe, to eat it like candy. Still, other
nutrients are necessary: death
comes from such monotony. (Her philosophy,
though sweetly spun, was never so refined as her sex.)

And it was, after all, the pure white sex
between us that drove me to poetry.
How else to express the brazen philosophy,
the teleology of flesh beyond love,
the ontology of sex that can lead to death?
And we’ve all heard stories of others

who’ve actually died from it: The other
becomes the self, the sex
that binds us, wrist and foot. The little death
claws at your throat, your cry like poetry:
an eerie diction I grew to love.
“I’ll never read philosophy

again.” I embraced you, your strange philosophy,
and, forsaking all others,
turned to tell you of my love.
Which you call merely sex.
Is there solace in Poetry?
Just then I longed for Death.

Or did I? You arrive like Death,
tricked out in black, and burn my philosophy
books. Pale lips still pouty with poetry,
you tell me, of course, that I wasn’t just another,
and I, of course, believe you: You left because the sex
felt so much it hurt almost like love.

When we last made love, you left another
scar. And philosophy feels like death to me,
and I can’t find any poetry in sex.

Amore & morte

Ripensandoci, presupponevo amore,
credo. Quantomeno, sentivo un soffio di morte
ogni volta che lei se ne andava. La sua teoria: il sesso
è l’unica via verso la verità. Filosofia,
religione, fisica – gli altri
percorsi tradizionali – tutto sbagliato. Solo la poesia

ci andava vicino, ma chi riesce a vivere di poesia?
Troppo, troppo dolce, anche se si può imparare l’amore
per lei, e respirarla, mangiarla come un bon bon.
Ma altre sostanze nutrienti sono necessarie: la morte
scaturisce da questa monotonia. (La sua filosofia,
fine tessitura, mai raffinata quanto il suo fare sesso.)

Ed è stato, dopo tutto, il puro sesso
candido tra noi che mi ha spinto alla poesia.
Come spiegare altrimenti la sfrontata filosofia,
la teleologia della carne oltre l’amore,
l’ontologia del sesso che può portare a morte?
E le abbiamo sentite tutti le storie di altri
che davvero ne sono morti: l’altro
diventa il sé, il sesso
che ci lega, mani e piedi. La piccola morte
ti artiglia la gola, il tuo urlo è poesia:
misterioso tuo manifestarsi che ho imparato ad amare.
“Non leggerò mai più filosofia”.

Ti ho abbracciata, e anche la tua strana filosofia,
e, abbandonando tutte le altre
mi sono convertito e ti ho detto del mio amore.
Che tu chiami puramente sesso.
C’è conforto nella Poesia?
In quel momento bramavo Morte.

O no? Tu vieni come la Morte,
adorna di nero, e i miei libri di filosofia
li bruci. Pallide labbra ancora immusonite di poesia,
mi dici, certo, che io non ero solo un altro
tra i tanti e, certo, ti credevo: te ne sei andata perché il sesso
lo si sentiva tanto che faceva male quasi come l’amore.

L’ultima volta che abbiamo fatto l’amore hai lasciato un’altra
cicatrice. E la filosofia la sento simile alla morte,
e non riesco a trovare alcuna poesia nel sesso.

 

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Federico Carrera, “Tentativi di vita”

Federico Carrera, per gentile concessione

                         

Ad Andrea

Sul finestrino correva una goccia,
l’ho scambiata, voltandomi,
per un uccello che spiccava il volo
dai campi incolti di questo novembre.

Moristi, Andrea, e c’era la neve. Guarda:
ora tutto è cambiato questo clima bugiardo
che prova a nascondere l’aria di morte invernale
sotto coltri variopinte di foglie ammassate
e io mento quando dico che ancora ricordo
la tua voce che dico soave, ma che era
forse diversa, più roca, più cupa.

Andrea, moristi e di te mi rimangono
scarsi frammenti di pellicola muta,
sbiadita dal tempo, come quei film
che a te piacevano tanto

*

Gli amanti si scontrano
quando i baci esplodono
e passando e ripassando
sotto al portone di casa tua
si feriscono con gli occhi
si disarcionano gli sguardi

gli amanti si scontrano
se muovi leggera la mano
se avvertono intorno a te
un qualche rumore strano
escono fuori dai nascondigli
azzardano l’accusa calibrano

il moschetto della gelosia.
Ma gli amanti si scontrano
violenti anche con te che
non volente li lasci passare
li illudi li inganni rispetti il cliché
della donna severa sicura di sé.

*

Tenue sofferenza di inizio gennaio,
preghiera mancata, con le ginocchia
sulla sabbia – la ricerca di dio
nei luoghi che non calpesta. Dentro
la tensione metafisica dell’attimo,
appare lontano, ai confini della spiaggia,
un pargolo, nuovo demiurgo – piange
per le onde che sotterrano. Ma ecco
che d’improvviso appare una voce
che si muove tra le cose e si scorge
il cavallo bianco dentro la foresta scura,
mezzo-alluvionata, con qualche placido
dominicano a fare da Caronte tra la riva
del fiume e quella del mare.

*

Milano centrale ed è un dolore,
un amore che parte uno che porta
i segni dell’antico e un cambio
verso Torino campi deserti a maggese
paludi del fiume autostrade battute –
nessuno. Un vecchio film francese,
mi piace e c’è la pioggia, nuvole sparse:
ma i monti appaiono limpidi all’orizzonte
nonostante le mie poche virtù e scarse.

Selezione di testi da Tentativi di vita (Edizioni Effetto, 2021) Continua a leggere

Angelo Saso, “Scolpiti nell’aria”

Angelo Saso, per gentile concessione

La terra è in tempesta

 

La terra è in tempesta
È tempo di ripiegare le vele
Di cercare riparo
Sotto una coltre di muschio
Una coperta di neve.

La terra è in tempesta
Mare di rami
Nudi come falangi
Le radici scoperte
Ondeggiano
Si tendono
Stridono.

Il cielo vuoto rimbomba
Di preghiere non dette
La terra è in tempesta.

 

Fuochi lontani

 

Non ho nulla
Da offrirti
Se non il mio sguardo
E la nostalgia
Del respiro delle stelle.

Ascoltalo
Quando la notte sorge
Alta nel tuo cielo.

Riempiti gli occhi
Con il battito Dell’universo.

Fuochi lontani
Nello specchio dell’orizzonte
Segnali di luce
Per navi fantasma.

Sulla pelle la rugiada
Che profuma
Di terra.

 

La strada

 

La strada chiama all’alba
Offre rugiada e silenzio
Fango e raggi radenti
Portaci i sogni notturni
Non aver paura di sporcarli di terra
Di impastarli di nuvole e polvere.
La strada
È la via dell’essenza.
Sei tu senza il vuoto
Che ti riempie la vita.

 

Finis Terrae

 

Ho visto
La mia anima in viaggio
E l’ho seguita.

Tra guglie di bellezza
Ho visto
La terra colore del pane.

Ho respirato
Distese di grano
Verde nel vento
Della primavera.

Ho visto
Il dio dei tulipani
E ciuffi di capperi
Tra le pietre sbrecciate
Di quel che resta
Di gloriose mura.

Ho visto
La polvere delle carovane
E la schiuma del Bosforo
Nell’aria impregnata
Di suoni e di spezie
Dai colori lontani.

Ho parlato
Le lingue dei marinai
Bruciati dal sole.

Sono stato mercante
E gran sultano
E schiavo sanguinante.
Nel solco bianco delle chiglie
Tra il battito delle triremi

Ho visto
L’inizio del mare
E la fine del mondo. Continua a leggere

Tra dolore e ricordo, la morte di chi resta

Luigia Sorrentino credits ph. di Gerardo Sorrentino

Su “Piazzale senza nome” di Luigia Sorrentino
di Federico Carrera

 

Il senso autentico e profondo dell’ultima raccolta di poesie di Luigia Sorrentino – Piazzale senza nome, edito da Pordenonelegge-Samuele Editore nel settembre del 2021 – è tutto racchiuso, non richiesto ma non celato, nelle prime pagine della silloge, in quello spazio in cui l’intento autoriale da astratto si fa narrabile.

Proprio in questo delicato luogo di soglia Sorrentino pone una citazione plutarchea in cui la morte dei vecchi è assomigliata a un giungere a destinazione e quella dei giovani a un naufragio (Fr. 205 Sandbach). Questa citazione trova il suo primo controcampo poche pagine dopo, in una breve prosa poetica sapientemente intitolata Morti parallele (il titolo plutarcheo delle Vite parallele viene così rovesciato).

Ed è proprio con questo testo che Sorrentino apre la pista alla lunga schiera di naufragi e di incontri con la morte di personaggi giovani, che sono insieme astratti, come simboli di una generazione, e concreti, come ricordi di persone davvero vissute e davvero smarritesi.

Sotto questo aspetto, Piazzale senza nome è senza dubbio un libro fortemente generazionale, un piccolo poema epico-narrativo sulle sventure di una generazione – gli adolescenti degli anni Ottanta – che si è trovata coinvolta in un insieme di circostanze disperate: droga, incidenti, omicidi, violenza. E i versi di Luigia Sorrentino, nella loro metrica piana e narrativa, assestata intorno all’endecasillabo, evocano con grande potenza una curiosa sensazione di malinconia, che richiama vagamente quel contorcersi di membra proprio dello spleen di baudelairiana memoria.

Le descrizioni lucide e dolenti di Sorrentino si susseguono dunque senza una rigida struttura che le inquadri, in modo che il discorso – così vivo e autentico – non si riduca a banale racconto letterario, ma mantenga la sua potenza espressiva.

Così unitario, eppure così spezzato e frammentario, il racconto di Sorrentino sembra voler raccogliere i cocci di ciò che rimane oggi di questi giovani, dopo il trascorrere di tanta memoria, in un susseguirsi di liriche brevi, ma pungenti ed esatte nell’espressione e nella lingua.

Ciò che colpisce è il fiume di parole che investe il lettore: parole esatte, cariche di ricordo, e che la stessa Sorrentino sembra aver scritto quasi senza controllo, lasciandosi trascinare dall’urgenza del dettato – tanto che i testi sono datati come composti in un biennio, tra il 2017 e il 2018.

Quando sentii per la prima volta Luigia Sorrentino parlare di questo libro, nel contesto del Poesia Festival delle Terre dei Castelli, una sua frase mi ha colpito molto: «la poesia ci parla sempre di una condizione umana precaria». Continua a leggere

Gian Mario Villalta, “Una fantasia vocazionale”

AUTORITRATTO
da un’idea di Luigia Sorrentino
a cura di Fabrizio Fantoni

______

di Gian Mario Villalta

Un autoritratto presume la presenza di uno specchio. Non sono uno storico della pittura, ma è sensato immaginare che ci sia una relazione cronologica tra l’arte di fabbricare specchi sempre più perfetti e l’autofigurazione via via più complessa del soggetto che ritrae se stesso sulla tela. Fino alla deformazione e alla moltiplicazione che la fotografia e il cinema, questi nuovi specchi capaci di catturare l’istante, suggeriscono e forse impongono alla presenza di sé e del mondo figurata in una visione bidimensionale.

La parola, d’altra parte, se pure nell’opera di poesia vorrebbe irraggiare e insieme accentrare una dimensione più stratificata e molteplice del tempo, quando viene al servizio di una narrazione che ha obblighi di relazione più stretti con i fatti, le date, le testimonianze, deve decidere per una quota di fiction, che diventa – a proposito di se stessi – inevitabile auto-fiction. E anche in questo caso, quale specchio si decida di scegliere e dove lo si voglia collocare rimane decisivo.

Una via percorribile è quella della cosiddetta “carriera poetica”, che annovera sodalizi, detta la scansione delle pubblicazioni, menziona eventuali riconoscimenti. Però, per quanto mi riguarda, l’espressione “carriera poetica”, la si voglia ridurre a mera concatenazione di eventi o esaltare in termini di biografia leggendaria, appare inadeguata. Mi pare di non aver fatto altro che la stessa cosa, per decenni, pur cambiando nella vita, aggiungendo studi e relazioni umane: aver voluto scrivere una poesia, averci provato, obbedendo a necessità di espressione e di confronto rispetto alla realtà più ampia del mio stare al mondo e a quella intima del quotidiano esistere. Se poi per “carriera” si volesse intendere un progresso ufficiale di risultati raggiunti, non si può certo usare questo nome per la considerazione che pochi hanno avuto in tutto questo tempo per quello che ho scritto. La situazione della poesia nella cultura attuale permette inoltre a pochissimi, credo, e non certo a me, di considerare la sequenza dei propri lavori poetici nei termini di un pubblico riscontro che abbia una qualche importanza.

Resta il fatto che la poesia e la mia vita sono legate sia nei fatti che nella dimensione interiore così strettamente da segnare ogni successiva sequenza temporale, dall’infanzia, all’adolescenza, dalla maturità all’oggi, quando “maturità” è già una parola da usare con indulgenza.

Potrei raccontare di un ragazzo di diciassette anni che già da tempo legge poesie e subisce il fascino della musica allora definita progressive: vorrebbe diventare come quel Peter Sinfield che figura parte creativa dei King Crimson (non solo un “paroliere”) e scrive i testi di In the Court of the Crimson King e di Islands. Quel ragazzo ha letto Montale, sa che ci sono Sereni, Zanzotto, Sanguineti e altri poeti (molti sono stranieri) menzionati nel paginone centrale del poco più che neonato quotidiano «La Repubblica», che acquista ogni giorno. Cerca in biblioteca, legge, compra qualche “Oscar”. Un giorno, in una cartolibreria, è colpito dai versi che compaiono sulla copertina di un piccolo libro. Costa poco. Lo compra. Pochi minuti a piedi e si siede sulla panchina di un parco per leggere. È La terra desolata di Thomas Stearns Eliot, nella “bianca” Einaudi. Legge tutta la sequenza. Rilegge. Quando si alza da quella panchina non lo sa ancora, ma è accaduto: diventerà un poeta.

Oppure potrei raccontare come quel ragazzo, sei anni dopo, arriva alla prima pubblicazione avvenuta “alla macchia”, come si diceva una volta, grazie all’amicizia maturata all’università con Roberto Cresti e Claudio Pasi, autore della precedente, prima pubblicazione, in quella nostra “casa editrice” alla quale avevamo dato un nome: Niemandswort, e collocato la sede presso la Galleria Fabjbasaglia di Bologna (Fabj il cognome di Luciana, la madre di Roberto, che ricordo con affetto).

  Niemandswort era il segno di un’affiliazione: gemmava da Die Niemandsrose, il libro del 1963 che rappresentava allora per noi la riva raggiungibile dell’opera di Paul Celan. Raggiungibile anche praticamente, perché l’opera era disponibile intera in versione francese, quando in italiano circolava solo l’antologia mondadoriana  del 1976. Un numero di «Études Germaniques» a lui dedicato dopo la morte ci aveva permesso di vedere il suo viso in una fotografia.

Avevamo da poco passato la soglia dei vent’anni e a quell’età, quando la vita si rivela nella sete di presente, non è raro che le passioni abbiano bisogno di attraversare enigmi per incamminarsi in un deserto di lontananze. La poesia era per noi quel deserto, o almeno la sua parte più misteriosa, e Paul Celan aveva scritto le parole che ne disegnavano l’enigmatico paesaggio. Perché proprio lui – leggevamo “tutti” i poeti, e molti erano quelli che ci appassionavano – perché proprio Celan allora? Me lo sono chiesto spesso.

So che della memoria ci si può fidare solo fino a un certo punto. E quindi provo a dare la risposta di oggi a quello che posso ricordare (o indovinare?) di allora.

La voce di Celan era quella dell’ultima profanazione possibile, ovvero l’ultima possibilità di scagliarsi contro il sacro, non perché c’era, ma perché non c’era più, dileguato prima che potessimo fare altro che indovinare la sua assenza. Era un modo per chiamare qualcosa o qualcuno che non c’era più e non sarebbe tornato. Per questo “il sonno di nessuno”, che dall’epitaffio sulla tomba di Rilke (Rosa, pura contraddizione. Brama d’essere il sonno di nessuno sotto infinite palpebre), sortiva come “rosa di nessuno” nel titolo di Celan, diventava per noi la parola di nessuno,Niemandswort, ovvero non di un “io” che padroneggiava la lingua per comunicare un contenuto, quanto  l’abitare la lingua stessa con una voce senza nome.

Forse erano soltanto i nostri astratti furori. Ma se guardiamo alle date, un’onda s’era già levata a cancellare il mondo della nostra infanzia e della nostra prima formazione. Quel mondo era gravato per me da due silenzi. Uno pesava sul tempo prima di me, prima che io nascessi, sugli anni della guerra e delle sue conseguenze. La biologia, prima di tutto, e poi i meccanismi della memoria, vogliono che si guardi avanti e non più ritornare sulla paura e sul dolore. Però il taciuto, in famiglia e nell’ambiente del paese dove vivevo, le frasi interrotte al mio arrivo, l’evasività alle domande, erano un velo oscuro su eventi trascorsi ma ancora presenti, che percepivo e, non comprendendo, creava in me un senso di inadeguatezza e di precarietà. L’altro grande silenzio era quello della campagna: trasformati in una fabbrica a cielo aperto, sconvolti dalle ruspe e dai diserbanti, i campi sui quali avevo vissuto l’infanzia e l’adolescenza non risuonavano più dello stormire degli alberi e del canto degli uccelli. Al loro posto i rumori dei motori, dei silos, delle sirene delle fabbriche.

Allora “in nessun luogo si chiede di te” non era solo un verso di quel poeta, ma una voce che diceva prima di tutto l’intima lacerazione del suo stesso significare: si chiede di te, la chiamata non tace, ma i luoghi non hanno più nome né destino.

Perché Celan: perché non pensavamo di fare letteratura – avevamo vent’anni – ma credevamo di doverci giocare sulla parola la posta più alta al tavolo della vita. E scrivevamo quello che confusamente ci pareva potesse corrispondervi, il libro di Claudio meno confusamente del mio, più maturo e compiuto del mio.

Non disponevamo neppure di una vera tragedia, della quale non si parlava, e che soltanto intuivamo: eravamo soltanto nati sulle sue ceneri, che si erano mostrate fertilissime, come sempre le ceneri sono, e cresceva rigogliosa la società dei consumi e del tradimento di ogni ideale (chiedo scusa per quest’ultima parola, imbarazzante, ma allora la si usava, per le ultime volte, ancora).

Potrei raccontare, ancora, la prima uscita “ufficiale”, su «Alfabeta», una pubblicazione allora molto letta e prestigiosa, per interessamento di Antonio Porta. Poi ancora il primo volumetto di poesie (tra i giovanissimi “editori” c’è Davide Rondoni). Più tardi, ancora una volta decisivo, l’incontro con i poeti dei Quaderni italiani di Poesia di Franco Buffoni. Tra questi, Stefano Dal Bianco e Antonio Riccardi sono ancora oggi i miei primi lettori.

Potrei raccontare gli anni “a bottega” da Andrea Zanzotto, i primi libri che hanno avuto un po’ di riconoscimento, l’amicizia con Mario Benedetti.

Sarebbe sempre troppo e troppo poco. Sarebbe sempre amplificare qualcosa e trascurare qualcos’altro. Già nel fare questi nomi mi  pento per aver taciuto molti altri con i quali la vita e la poesia si sono legati in tanti anni, nei quali a un certo punto è diventato importante per me il lavoro svolto nella poesia e con i poeti all’interno delle attività del festival pordenonelegge da più di vent’anni.

Alla temuta laconicità di una sequenza di pubblicazioni, c’è il rischio di contrapporre un romanzo autofinzionale che comporterebbe un numero esorbitante di pagine.

Allora propongo al lettore, già stanco per avermi seguito fin qui, un esperimento: cercare nella memoria e con l’immaginazione di ritrovare il momento più lontano nel tempo, dove collocare la “scoperta” della poesia e del poter essere poeta. Risalire, insomma, alle cause della felice patologia – che fa parte della “fisiologia” di ogni essere umano – e che in me si è così fortemente cronicizzata.

Le premesse: sono stato per sei anni un parlante il solo dialetto. Una lingua più che minore, veneta fuori da Veneto, al confine con la parlata friulana, che ha una forte caratterizzazione locale. Avevo coscienza delle principali differenze tra la lingua che parlavo quotidianamente e l’italiano delle occasioni ufficiali e della radio, ma le opportunità di usare quella lingua si presentavano raramente, e credo che le mie performance – se ci sono state – fossero davvero incerte. Continua a leggere

Dmytro Tchystiak, “l’alba nel riflesso delle magnolie”

Dmytro Tchystiak

КВІТИ (VI)

Світає – чистим шепотом магнолій
Удалині, та вихлюпом у далеч
Ти постаєш із ложа, де мерцями
Розпались ми в потопі (білий біль
І калиновий викрик – нам у серце,
Нічним, бо молодо), таки не постаєш –
Перетікаєш вицвітом-кларнетом,
Так високо, що нота – ніби смерть,
А птахи озиваються звідтіль, і стане
так, немов одного руху досить –
лиш відхили вікно і залелій
над обшир усієї рани світла –
щоб сотворити…
Світає!

Fleurs (VI)

Voici l’aube dans le reflet des magnolias
tremblotants puis tu t’élèves dans l’espace,
tu sors ton lit où nous étions noyés
dans le déluge morbide (avec cette douleur blanche,
ce cri rouge d’obier qui transperçait les jeunes,
les nocturnes), en effet tu ne t’élèves pas,
tu flottes comme cette coulée d’une clarinette
si haut que la note atteint la mort,
et au-delà les oiseaux s’éveillent et te répondent,
et on dirait qu’un seul mouvement suffirait :
par exemple, celui d’ouvrir la vitre et de trembler
au-delà de cette plaie de lumière,
pour créer
l’aube !

 

FIORI (VI)

Ecco l’alba nel riflesso delle magnolie
tremante ti elevi nello spazio
ti alzi dal letto, dove siamo annegati
nel diluvio morboso (con questo dolore bianco,
e il grido rosso del viburno che trafigge i giovani,
i notturni), anzi non ti alzi,
fluttui come questo suono di clarinetto
così alto che la nota raggiunge la morte,
e al di là gli uccelli si svegliano e rispondono
e si direbbe che una mossa sia sufficiente
per esempio, aprire la finestra e tremare
oltre questo taglio di luce
per creare
l’alba!

(Traduzione dalla versione francese di Laura Garavaglia)

Commento di Monica Acito

La poesia di Dmytro Tchystiak si fa corpo, è carne viva e sembra di toccare con mano ogni lettera che ne compone i versi.

Ogni parola pare illuminare la poesia, con dei fasci di luce che accarezzano le righe: il tono è vagamente surrealista, a metà strada tra realtà e mondo onirico. Il lessico è vivo e vibrante, l’autore crea un microcosmo che possiamo sentire sulla pelle: il riflesso delle magnolie, il diluvio morboso, la finestra, la stanza inondata dalla luce del mattino. Continua a leggere

Il dolore esistenziale nell’Onégin di Puskin

Premessa
di Luigia Sorrentino

Con questa recensione di Alberto Fraccacreta, rilanciamo una delle opere principali studiate a scuola in Russia: il romanzo in versi di Aleksander Puskin: Evgenij Onégin. E’ considerato il massimo della produzione letteraria di Puškin, “un’enciclopedia della vita russa e un’opera veramente popolare” che molte generazioni di scrittori e di poeti leggono.

Il romanzo, recentemente ristampato in Italia da Mondadori negli Oscar nella traduzione dello slavista Giuseppe Ghini, ci mette di fronte a un capolavoro assoluto perché come conferma il traduttore con “l’Onégin Puškin ha pronunciato una parola universale, capace di superare e fondere i particolarismi nazionali”. Avvicinarsi alla poesia dell’Onégin vuol dire avvicinarsi al dolore esistenziale e profondo del protagonista, avvertire lo spaesamento di un’epoca, l’insanabile male di vivere (più che mai attuale) che porterà Onégin a rifiutare l’Armonia che Amore e Amicizia potrebbero dargli.

“Amicizia” e “Amore” sono le parole che ricorrono anche in questa bellissima lirica molto conosciuta in Russia di Puškin scritta dal poeta proprio nel periodo dell’Onégin, tra la fine del 1826 e l’inizio del 1827, a sostegno dei decabristi, esiliati in Siberia tra i quali c’erano vari amici e conoscenti del poeta.

La lirica non poté esser pubblicata durante la vita di Puškin, per il contenuto del testo, ma ebbe larga diffusione in Russia circolando di mano in mano.

Ve la proponiamo nello “schizzo di traduzione” di Paolo Galvagni. A seguire la recensione di Alberto Fraccacreta.

1] Во глубине сибирских руд
Храните гордое терпенье,
Не пропадет ваш скорбный труд
И дум высокое стремленье.
Несчастью верная сестра,
Надежда в мрачном подземелье
Разбудит бодрость и веселье,
Придет желанная пора:
Любовь и дружество до вас
Дойдут сквозь мрачные затворы,
Как в ваши каторжные норы
Доходит мой свободный глас.
Оковы тяжкие падут,
Темницы рухнут — и свобода
Вас примет радостно у входа,

И братья меч вам отдадут.

1] Riferimento alla insurrezione, svoltasi a San Pietroburgo nel dicembre 1825 (decabristi – dicembristi).

(Schizzo di traduzione)
di Paolo Galvagni

Nelle profondità dei minerali siberiani
Mantenete la fiera pazienza,
Non svanirà il vostro mesto lavoro
E l’alta aspirazione dei pensieri.

Sorella fedele alla sventura,
La speranza nel tetro sotterraneo
Desterà il vigore e l’allegria,
Giungerà il tempo desiderato:

Amore e amicizia a voi
Arriveranno per le porte tenebrose,
Quando nei vostri covi di lavori forzati
Giunge la mia voce libera.

Pesanti cadranno le catene,
Le prigioni crolleranno — e la libertà
Vi accoglierà gioiosa all’ingresso,
E i fratelli vi daranno la spada.

 

Aleksàndr S. Puškin, Evgenij Onégin, a cura di Giuseppe Ghini  (Mondadori, 2021)

Recensione di Alberto Fraccacreta

 

Il romanzo fondativo della letteratura russa è in versi: l’Evgenij Onegin di Aleksàndr Puškin, composto tra il 1823 e il 1831, in due momenti distinti della vita del poeta. Suddivise in otto capitoli con i Frammenti di viaggio di Onegin, le 389 strofe sono formate ognuna da quattordici tetrametri giambici che hanno recato non pochi grattacapi ai traduttori italiani.

Nel 1923 Ettore Lo Gatto propose una versione in endecasillabi; celebre fu la scelta di Giovanni Giudici di mantenere intatta la serie rimica delle stanze orientando il metro in direzione di un novenario aperto e fluttuante. Continua a leggere

Janis Sinajco, “spezzandosi”

Janis Sinajko

Janis Sinajko

Nella traduzione di Paolo Galvagni

плоть возносится
к небу
чёрными листьями

в глазницах чудовищ
неприкасаем
снег

где

из отяжелевшей руки
яблоко
падает
в твёрдую грязь
разбиваясь

la carne si innalza
al cielo
con foglie nere

nelle occhiaie dei mostri
è intangibile
la neve

dove

da una mano appesantita
una mela
cade
sul fango duro
spezzandosi

***

и после всей тишины

так близко

созвездия

смотрят
как ты наконец-то очнёшься

уже очудовищен

e dopo tutta la quiete

così vicino

le costellazioni

guardano
come finalmente ti risveglierai

ormai mostruoso

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Da una lingua fantasmatica: Amelia Rosselli

Amelia Rosselli Credits ph. Dino Ignani

Di Giuseppe Martella

L’ipotesi che avanzo in quanto segue, con la massima cautela poiché non sono un italianista di professione, è che la lettura delle poesie giovanili in inglese di Amelia Rosselli che appaiono in Sleep ci offra una chiave preziosa per comprendere la peculiarità e il fascino di tutta la sua produzione.

Questi testi appaiono infatti di una inattualità e di una pregnanza sorprendenti, come fossero estratti dalla matrice del tempo, dall’irripetibile età dell’oro della letteratura inglese, fra Cinque e Seicento, fra Shakespeare e John Donne. Per essere poi proiettati sulla tragedia storica del nostro Novecento, sugli incubi kafkiani di questo secolo breve segnato dalla Shoah e da due guerre mondiali. Incubi vissuti sulla propria pelle e divenuti saga familiare della poetessa, traumi psicosomatici che ne hanno segnato insieme lo spaesamento esistenziale e la Stimmung poetica, che si può definire come un consapevole delirio prolungato o anche una meditata atonale “arte della fuga” che si arresterà come è noto con un taglio secco come quello dell’ascia che apre la luminosa sequenza di Sleep: “Pray be away/ sang the hatchet as it cut slittingly/ purpled with blood. The earth is made nearly/ round , and fuel is burnt every day of our lives.” “Prego vattene/ cantò l’accetta mentre acuminata tagliava/ imporporandosi di sangue. La terra è fatta quasi/ tonda, e carburante viene bruciato ogni giorno della nostra vita.” (8)

Fatta questa premessa, voglio sviluppare l’ipotesi che tutta l’opera di Rosselli si possa intendere come “traduzione” da una lingua madre fantasmatica.

Per lingua madre intendo l’inglese, perché sua madre era inglese e le avrà probabilmente sussurrato suoni e parole di questa lingua nella prima infanzia; in quella fase precoce di formazione psichica che Lacan chiama “stadio dello specchio” e che si trova mirabilmente condensata nell’antichissimo mito del bambino Dioniso sbranato dai Titani mentre una nutrice gli regge uno specchio in cui egli può vedere i suoi assassini, coi volti coperti di maschere bianche identiche alla sua, circondarlo danzando per farlo infine a pezzi. E’ il mito della nascita della coscienza individuale dalla nuda vita, dal sentirsi tutt’uno col corpo della propria madre.

La lingua materna (fonica, tattile e gestuale) ci offre perciò l’imprinting originario, il sostrato su cui si innesteranno tutte le lingue in seguito acquisite. I suoi connotati di brusio farfugliante, cantilena, voce-corpo appassionata che detta precocemente la metrica del linguaggio come casa dell’essere (insistendo per essere rimembrata all’occorrenza come ciò che può mutare l’imperativo della legge in un gesto di perdono), appaiono tra le righe di questo mirabile ringraziamento in Sleep: “Pardon in the shape of mother with/ her pale lipstick sticks out/ its tongue at me…And thrice she shifted rule/ into comfort…lisping the three-hatched gum-stuck hole of/ a home: your teats, your mother-/ attitude, your smallest worms, giants/ in the passion.” “Perdono in forma di madre con/ il suo rossetto rosa pallido mi caccia fuori/ la lingua… E tre volte mutò la regola/ in conforto…sondando il campo, farfugliando quel/ buco di casa a tre botole e appiccicato con la/ colla: i tuoi capezzoli, il tuo atteggiamento/ di madre, i tuoi più piccoli vermi, giganti/ nella passione.” (160)

Lingua fantasmatica, però, nel caso della Rosselli, perché la prima parte della sua infanzia fu spesa a Parigi e dunque francese fu il contesto sociale in cui crebbe fino al tragico momento dell’assassinio del padre per mano di sicari fascisti, quando lei aveva sette anni, e all’inizio delle sue peregrinazioni prima in Inghilterra, poi in Nord America e infine in Italia: della sua “fuga di morte” (Todesfuge: Celan) fra le lingue del mondo. Continua a leggere

Carol Ann Duffy, la poesia e la guerra

Carol Ann Duffy

Introduzione
Bernardino Nera e Floriana Marinzuli

Rileggiamo alcune poesie sulla guerra scritte dalla ex Poet Laureate Dame Carol Ann Duffy nel corso della sua carriera artistica dagli esordi nel 1985 ad oggi. Nel contesto di questi componimenti, ovviamente, non sono rinvenibili riferimenti alla più stretta attualità ma ad avvenimenti storici bellici avvenuti nel secolo scorso, come ad esempio: la tregua di Natale nel 1914, rievocata nella poesia The Christmas Truce, che si instaurò liberamente e spontaneamente tra le truppe tedesche, francesi e inglesi in varie zone del fronte occidentale durante la Prima Guerra Mondiale. Anche la poesia The Last Post richiama nei suoi versi questa guerra e la poetessa la rielabora in chiave utopistica, immaginando di poterne esorcizzare gli effetti più efferati e letali ripercorrendo idealmente a ritroso la dinamica reale degli avvenimenti, invece inesorabile e crudele, della storia. Da rilevare nel testo una citazione tratta da una poesia di Wilfred Owen, poeta morto nel 1918 in un’operazione bellica sul fronte occidentale. Nel contesto della poesia Shooting Star, l’io lirico, una donna ebrea, narra la sua orribile esperienza prima di essere stuprata e poi brutalmente giustiziata in un campo di concentramento nazista. Ma è nel testo della poesia The Wound in Time che si può cogliere il lamento accorato della poetessa contro la guerra ed è da evidenziare che tutte le tematiche trattate e gli scenari evocati nelle poesie precedenti anche se diversi si ripropongono sempre uguali a se stessi e si ripetono drammaticamente nel tempo perché l’uomo non impara niente dalla sua storia. Continua a leggere

Jurij Tarnavs’kyj, “La vita in città”

Jurij Tarnavs’kyj

Jurij Tarnavs’kyj
A cura di Lorenzo Pompeo
collaborazione di Alessandro Anil

il poeta ucraino-nordamericano Jurij Tarnavsk’kyj (noto negli Stati Uniti con la traslitterazione Yuriy Tarnawsky) rappresenta una figura chiave nella storia della poesia ucraina novecentesca che, nel corso dei decenni, si è guadagnato un posto di riguardo anche sulla scena letteraria statunitense (a partire dagli anni ‘70 Tarnavsk’kyj scrive e pubblica regolarmente in inglese prosa e poesia).

È nato a Turka nel 1934, piccolo centro nei Carpazi ucraini, attualmente a pochi chilometri dal confine polacco (ma che in quel momento era parte della Polonia). I genitori, entrambi insegnanti, vivevano e lavoravano a Rzeszów (attualmente in Polonia sud- orientale), dove il giovane crebbe in un ambiente bilingue (l’ucraino si parlava in famiglia, il Polacco fuori di casa).

Nel 1944, quando la famiglia era tornata a Turka da quattro anni, Jurij perde la madre per un tumore, il padre, che si era arruolato nell’Esercito insurrezionale ucraino, viene dato per disperso, e il futuro poeta, insieme alla zia, la sorella e il fratello, decidono di fuggire in Germania, dove, nel 1945 si stabilisce nel campo profughi di Neu Ulm.

Nel 1950, Quando viene smantellato il campo, comincia a frequentare un liceo tedesco a Monaco e, dopo essersi diplomato, nel 1952 si imbarca a diciotto anni con il padre (che nel frattempo si era ricongiunto alla famiglia) per New York. Frequenta la Newark School of Engineering nel New Jersey, alternando lo studio al lavoro in un fabbrica di pellami.
Terminati gli studi, fu assunto in qualità di ingegnere elettronico all’IBM, dove lavorò fino al 1992 (con una piccola parentesi tra il 1964 e il 1965 in cui visse in Spagna dedicandosi interamente alla scrittura).

Nel tempo libero si appassiona alla lettura degli esistenzialisti, soprattutto Sartre (che sarà per lui una scoperta decisiva), Camus e Kirkegaard e, attraverso frequenti visite al MOMA, assimila le ultime tendenze dell’arte contemporanea.

A partire dal 1953 comincia a scrivere i primi versi e brevi prose che pubblica su riviste dell’emigrazione ucraina e che gli aprirono le porte della sua silloge di esordio, La vita in città, del 1956.

Da allora rappresentò una delle voci più autorevoli della letteratura ucraina della cosiddetta “diaspora” (ovvero la comunità ucraina all’estero), un termine che vuole sottolineare una completa estraneità ideologico-culturale rispetto all’Ucraina sovietica.

Fu l’animatore del “Gruppo di New York”, una aggregazione di giovani letterati ucraini che erano soliti ritrovarsi al caffè Orchidea, tra la seconda avenue e la nona strada, che discutevano di arte astratta, di poesia senza rima e di esistenzialismo.

Nella leggenda di questo gruppo il momento fondativo viene considerato la serata di poesia del 18 febbraio 1955 presso il “Literaturno-mistec’kyj kljub” (in it. “Club artistico-letterario”) di New York.

L’idea di fondo che animava questi poeti, allora esordienti, era sprovincializzare il mondo letterario ucraino (che nell’Ucraina Sovietica era concepito esclusivamente come una versione “etnografica” del realismo socialista) ricollegandosi alle tendenze artistiche e letterarie delle avanguardie novecentesche.

Fino alla fine degli anni ‘70, quando le polemiche interne e le scelte divergenti segnarono la fine del gruppo, esso costituì un punto di riferimento non solo per la poesia ucraina, ma anche per il dibattito critico sulla letteratura ucraina contemporanea.

A partire dal 1971, successivamente alla pubblicazione della silloge Poeziji pro niščo ta inši poeziji na cju samu temu (in it. “Poesia sul nulla e altre poesie sullo stesso tema”), Tarnavsk’kyj, dopo quasi un ventennio di permanenza negli Stati Uniti (vi era arrivato nel 1952) comincia a scrivere in inglese e nel 1978 pubblica il romanzo Meningitis a cui fa seguito, nel 1992, Three Blondes and Death, entrambi apprezzati dalla critica nordamericana.

A partire dalla silloge This Is How I Get Well, del 1978, scrive e pubblica anche poesie in inglese (spesso autotraduzioni dall’ucraino).

Dopo la dichiarazione d’Indipendenza dell’Ucraina del 1991, il poeta, per la prima volta dopo quasi quaranta anni, poté fare ritorno nel suo paese, dove potevano circolare liberamente ed essere pubblicate le sue opere, tradotte dall’inglese o nella versione ucraina.

Attualmente vive a White Planes, cittadina dello stato di New York.

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Addio a Ugo Piscopo

Ugo Piscopo

Oggi 1° aprile è lutto nel mondo della Cultura.
E’ morto il poeta e critico Ugo Piscopo volto storico di Napoli.

Ugo Piscopo era nato a Pratola Serra, in provincia di Avellino, nel 1934.
Ugo è stato poeta, scrittore di letture moderne comparate, traduttore e da più giovane ha avuto dei trascorsi nel mondo del teatro.

Il ricordo dell’amico Giorgio Moio:

“L’ho sentito una settimana fa e la sua voce non lasciava intendere niente di buono. Tra le poche cose che riuscì a dirmi fu una cosa penosa: era molto dispiaciuto di sentirsi solo, della mancanza di una telefonata di qualche amico. Forse la mia è stata l’ultima o una delle ultime telefonate ricevute da un amico. Proprio ieri ne parlavo con Marisa Papa Ruggiero delle pessime condizioni di salute di Ugo. Che ti accolga un luogo dove poter trascorrere una vita migliore, carissimo amico mio. Riposa in pace. I funerali avverranno domani 2 aprile alle 13, nella chiesa Santa Maria della Libera, in via Belvedere a Napoli.”

(Luigia Sorrentino)

Ricordando Ugo Piscopo
di Giorgio Moio

A Napoli ci sono scrittori e poeti che hanno ricevuto dalla città molto meno di quanto abbiano dato alla crescita della cultura partenopea e non solo partenopea. Uno di questi è stato Ugo Piscopo, saggista, narratore, poeta, nato a Pratola Serra (AV) nel 1934 e deceduto a Napoli (dove viveva sin da giovane) il 1° di aprile 2022, nel giorno del proverbiale “pesce d’aprile”, cioè un giorno di scherzi. Dopo il percorso scolastico, con una laurea in Lettere classiche conseguita alla “Federico II”, discutendo la tesi col prof. Francesco Arnaldi (1957), inizia ad insegnare materie letterarie in scuole secondarie, “vagabondando” tra Napoli, Lacedonia, Ariano Irpino e Tripoli (Libia) dove viene addirittura imprigionato per quattro giorni.

Nel 1967, dopo quattro anni in Libia dove insegna Lingua e Cultura italiana per stranieri c/o Istituto Italiano di Cultura, tenendo anche un corso di conferenze sulla poesia italiana contemporanea, presso il medesimo Istituto, alle dipendenze del Ministero degli affari esteri, fa ritorno in Italia e si stabilisce con la famiglia a Napoli. Continua a leggere

Gli haiku di Stanislav Bel’skij

Stanislav Bel’skij

Stanislav Bel’skij
a cura di Paolo Galvagni

Первомартовские хокку

1

ночная тревога начинается одинаково
будят не сирены (их можно проспать)
а мамины проклятия путину

2

но дальше есть варианты
или молния в куртке разойдётся
или шнурок в застёжке застрянет

3

собираясь в убежище
по привычке пытаюсь
убить в коридоре моль

01.03.2022

Hokku del primo marzo

1

l’allarme notturno inizia nel medesimo modo
svegliano non le sirene (puoi trascurarle)
ma le maledizioni di mamma verso putin

2

ma poi ci sono le opzioni
o la cerniera del giubbotto che si apre
o il laccetto che si impiglia nella fibbia

3

preparandomi ad andare nel rifugio
per abitudine tento
di uccidere le falene nel corridoio

01.03.2022

***

хокку по дороге в убежище

какой мощный прожектор
все выбоины в асфальте видны
нет, это луна, чуть уже старая

 

Hokku sulla strada per il rifugio

che riflettore potente
tutte le buche sull’asfalto si vedono
no, è la luna, appena ormai vecchia

***

Хайку ночного кошмара

1

смерть – ковыляющий сзади прохожий
стоит замешкаться, она догоняет,
вгрызается в рот

2

долго ещё, проснувшись ночью,
отмываешь дёсны с мылом,
пытаясь воспрепятствовать магии войны

 

Haiku dell’incubo notturno

1

La morte è un passante che zoppica dietro
basta indugiare, ti raggiunge,
ti morsica la bocca

2

ancora a lungo, svegliandoti di notte,
ti lavi le gengive col sapone,
tentando di ostacolare la magia della notte Continua a leggere

Clemente Rebora, “Canti anonimi”

A N T E P R I M A   E D I T O R I A L E

A cento anni dai Canti anonimi di Rebora (un libro che è una reazione al dramma della guerra) esce un’edizione commentata con un’anteprima il 6 aprile 2022 a Milano con reading di Patrizia Valduga. L’edizione di Interlinea è curata da Gianni Mussini.

Nel  libro c’è il rapporto tra natura e città, la sua Milano, e soprattutto c’è l’ansia per l’attesa di un futuro migliore, grazie a qualcuno o qualcosa, forse la donna amata o  forse la fede, dopo l’annichilimento e la strage della Grande Guerra («trincee fonde nei cuori – l’età cavernìcola è in noi.»); per questo scrive dei «canti anonimi» perché vuole cercare, nel donarsi anonimo agli altri, una ragione per continuare a vivere, per ripartire, per trovare prima o poi chi «verrà, se resisto / a sbocciare non visto»; l’edizione stampata da Interlinea nel 2022, è a tiratura limitata e andrà in distribuzione il 9 aprile 2022.

Roberto Cicala

L’IMAGINE TESA: L’ATTUALITÀ DI REBORA

PRESENTAZIONE

Mercoledì 6 aprile 2022 Aula Magna, ore 17.00 Largo A. Gemelli, 1 – Milano

Tavola rotonda di presentazione dell’edizione commentata dei Canti anonimi di Clemente Rebora (Interlinea, 2022).

Intervengono
Gianni MUSSINI curatore

Giuseppe LANGELLA
Università Cattolica del Sacro Cuore

Valerio ROSSI
Istituto Sant’Ambrogio, Centro Novarese di Studi Letterari

Coordina
Roberto CICALA
Università Cattolica del Sacro Cuore, Interlinea

Letture di Patrizia Valduga

 

Clemente Rebora ritratto da Michele Cascella negli anni ’20

UN ESTRATTO DAL LIBRO

Campana di Lombardia
di Gianni Mussini

Il paesaggio che si immagina sullo sfondo è sempre quello vasto e mansueto della campagna lombarda, verticalmente punteggiato di campanili. Mentre il discorso riprende con naturalezza dall’ultima strofa di Al tempo che la vita era inesplosa, le cui parole scorrevano in una lenta musicalità capace di assecondare quel senso di profonda comunione con il creato: quasi un “adagio” che man mano si affievoli- va sino alla confessione finale: «è bello il silenzio a te vicino». In questo contesto può ora sciogliersi «la “voce” (anonima e unanime: corale) della campana di Lombardia, ispiratrice di un’arcana, contagiosa fiducia “verso l’alto”» (Ramat 2008, p. 168). Fiducia di «guarir l’intimo pianto», suggerisce Rebora (v. 8) agganciandosi di nuovo all’Inesplo- sa, dove i valori del Carlo contadino erano antidoto alle «tèrree nostre notti». Ma c’è ancora un altro legame tra le due liriche, poiché nella seconda si realizza la particolarizzazione di uno spunto dell’altra: i cui sinestetici «effluvi di campane» (v. 54) si precisano ora in un’immagine più sem- plice e definita, ma non meno evocativa: la campana di Lombardia che, come recita un folgorante commento di Luca Doninelli (1987), «non dà malinconia perché è voce di qualcosa che è qui da sempre». Non si potrebbe spiegare meglio l’intima religiosità di questo testo, coerente con il nuovo clima morale della raccolta. Continua a leggere

La lancia del verso di Sofija Parnok

Sofija Parnok

Sofija Parnok
A cura di Paolo Galvagni

Девочкой маленькой
ты мне предстала неловкою.

Сафо

«Девочкой маленькой ты мне предстала неловкою» –
Ах, одностишья стрелой Сафо пронзила меня!
Ночью задумалась я над курчавой головкою,
Нежностью матери страсть в бешеном сердце сменя, –
«Девочкой маленькой ты мне предстала неловкою».

Вспомнилось, как поцелуй отстранила уловкою,
Вспомнились эти глаза с невероятным зрачком…
В дом мой вступила ты, счастлива мной, как обновкою:
Поясом, пригоршней бус или цветным башмачком,–
«Девочкой маленькой ты мне предстала неловкою».

Но под ударом любви ты — что золото ковкое!
Я наклонилась к лицу, бледному в страстной тени,
Где словно смерть провела снеговою пуховкою…
Благодарю и за то, сладостная, что в те дни
«Девочкой маленькой ты мне предстала неловкою».

Февраль 1915 /?/

Mi apparivi una bimba
piccola e immatura
Saffo (1)

“Mi apparivi una bimba piccola e immatura” – (2)
Ah, Saffo mi ha trafitto con la lancia di un verso!
Di notte ho pensato alla testolina riccioluta,
Sostituendo nel cuore la passione folle con la dolcezza materna, –
“Mi apparivi una bimba piccola e immatura.”

Ho ricordato che hai allontanato un bacio con maestria,
Ho ricordato quegli occhi con la pupilla incredibile…
Sei entrata in casa mia tu, contenta di me, come di una cosa nuova:
Una cintura, una manciata di perline o una scarpetta colorata, –
“ Mi apparivi una bimba piccola e immatura”.

Ma sotto il colpo d’amore sei come oro forgiabile!
Mi sono chinata al volto, pallido nell’ombra appassionata,
Dove la morte pareva passar cipria nevosa…
Ringrazio anche perché tu, dolce, in quei giorni
“Mi apparivi una bimba piccola e immatura”.

Febbraio 1915 /?/

1) Poesia dedicata tanto a Saffo, quanto alla Marina Cvetaeva.
2) Il verso, che Saffo dedica ad Attide, è come un ritornello, che suscita vari ricordi intimi. Continua a leggere

La guerra in Ucraina raccontata ai bambini

La guerra in Ucraina raccontata ai bambini

Una storia scritta da Romana Romanyshyn e Andriy Lesiv. Una coppia nel lavoro (e nella vita), ha creato l’atelier «Agrafka» a Leopoli, in Ucraina, realizzando in pochi anni progetti innovativi acquisiti da case editrici di tutto il mondo.

Jaca Book, pubblicando Forte, piano, in un sussurro, (vincitore del Premio Andersen 2019 per la categoria divulgazione scientifica) e Vedo, non vedo, stravedo (Bologna Ragazzi Award 2018) ha deciso di “adottarli” per portare anche in Italia i loro libri pluripremiati. In particolare Numeri, stelle e mucche di mare, premio «Opera prima» alla Bologna Children’s Book Fair 2014 e La guerra che cambiò Città Tonda, premio «New Horizons» alla stessa manifestazione nel 2015. Per Jaca Book hanno pubblicato anche La casetta degli animali (2018) La mia casa, le mie cose (2019) e In viaggio per il mondo (2021), vincitore dell’Argento del prestigioso «European Design Awards» 2021, nella categoria “Libri e illustrazioni editoriali”. I loro progetti si contraddistinguono per l’uso sapiente di tecniche e stili, uniti a una narrazione che incuriosisce e affascina i lettori.

Intervista di Luigia Sorrentino

Traduzione dall’inglese all’italiano di Giorgia Sensi

The war that changed Rondo.
Romana Romanyshyn and Andriy Lesiv: why did you feel the need to tell children about the war with an illustrated story?

“We had never actually planned to create a picture book for children about war, but reality in our country changed things. It all started with the Revolution of Dignity at the end of 2013, then the annexation of Crimea in March 2014 and Russian invasion in East Ukraine. The war had started. Thousands of victims and broken lives. At that moment we were all unprepared and vulnerable, but determined. Many of our friends were mobilized for military service. We couldn’t stay calm and we had to react in some way. Often, parents don’t know how to explain to their children what war is and why it has come to their homes. We decided to create a picture book which could be the starting point for such a sincere talk between children and their parents about what is going on. It had to be a book like therapy, when you talk about your fears first and then stop being afraid. We also noticed that there is still no children’s book about war which would show our own experience, because every country has its own story of surviving and fighting. Yes, there are many great children’s books about war, but they are about someone else’s experience, they are from a distance, not about how we feel it”.

“La guerra che cambiò Città Tonda”. Romana Romanyshyn e Andriy Lesiv: perché avete sentito il bisogno di raccontare la guerra ai bambini con una storia illustrata?

“Non avevamo mai davvero pensato di creare un libro illustrato per bambini sulla guerra, ma la realtà del nostro paese ha cambiato le cose. Tutto è cominciato con la Revolution of Dignity alla fine del 2013, poi l’annessione della Crimea nel marzo 2014 e l’invasione russa dell’Ucraina orientale. Era cominciata la guerra. Migliaia di vittime e vite spezzate. In quel momento eravamo tutti impreparati e vulnerabili, ma determinati. Molti dei nostri amici furono richiamati per il servizio militare. Non potevamo restare fermi, dovevamo reagire in qualche modo. Spesso i genitori non sanno spiegare ai figli cos’è la guerra, e perché è entrata nelle loro case. Decidemmo di creare un libro illustrato che costituisse il punto di partenza per un discorso franco tra genitori e figli su ciò che stava succedendo. Doveva essere un libro-terapia, dove prima parli delle tue paure e poi smetti di avere paura. Notammo anche che non c’è un libro sulla guerra per bambini che mostrasse la nostra esperienza, perché ogni paese ha la sua storia di lotta e di sopravvivenza. Sì, ci sono molti grandi libri per bambini sulla guerra, ma raccontano l’esperienza di qualcun altro, sono distanti, non parlano di come stiamo noi”.

When was the book published in Ukraine and what kind of diffusion did it have among Ukrainian children?

“Luckily we have a great common understanding with our Ukrainian publisher Old Lion and they totally supported us with the idea to publish a picture book about war. So the book was first published at the end of 2014. It had few additional editions during these years. We received tons of reviews, letters, drawings from children and their parents”.

Quando è stato pubblicato il libro in Ucraina e che diffusione ha avuto tra i bambini ucraini?

“Per fortuna abbiamo una grande sintonia con il nostro editore ucraino Old Lion, che ha sostenuto pienamente la nostra idea di pubblicare un libro illustrato sulla guerra. Così il libro uscì per la prima volta alla fine del 2014. E in questi anni ha avuto diverse ristampe. Abbiamo ricevuto tonnellate di recensioni, lettere, disegni dai bambini e dai loro genitori”.

Why did you decide to tell the children the story of Danko, Fabian, Zirka?

“The base of every story is a character. We had to make our characters not artificial, but very authentic. We created characters which embody the feeling of every Ukrainian. We all felt very fragile and vulnerable, but strong and unbreakable. That’s why characters in our story are made with fragile materials, easy to destroy – glass, paper, balloon. But despite their fragility they fight, resist and protect their home”.

Perché avete deciso di raccontare ai bambini la storia di Danco, Fabian, Zirka?

“Alla base di ogni racconto c’è un personaggio. I nostri personaggi li dovevamo rendere davvero autentici, non artificiali. Abbiamo creato personaggi che incarnano il sentimento di ogni ucraino. Ci sentivamo tutti molto fragili e vulnerabili, ma forti e indistruttibili. Ecco perché i personaggi della nostra storia sono fatti di materiali fragili, facili da distruggere – vetro, carta, palloncini. Ma nonostante la fragilità, loro combattono, resistono e difendono le loro case”.

In your story there are sentences like: “the war is coming to our city”, “The war spares no one”, “The war has no heart”. Were these the stories you heard from your grandparents when you were children?

“Yes, of course we heard a lot of terrifying stories about war from our grandparents. And so many stories they did not want to share with us. Our grandparents spent 12 years in Gulag repressed by Stalin’s regime. They really hoped that our generation would not suffer from russians anymore. But we see that now the grandchildren of our grandparent’s enslavers are trying to kill us. And it’s a really unbelievable fact that in the 21th century, the time of technological progress, when we all have free access to information, Russia is still acting like 100 years ago, they still want to destroy and enslave, they still live in a dark past. And we fight for the future”.

Nella vostra storia ci sono frasi come: “la guerra sta arrivando in città”, “la guerra non risparmia nessuno”, “la guerra è senza cuore”. Queste frasi le sentivate dai vostri nonni quando eravate bambini?

“Sì, naturalmente abbiamo ascoltato tante storie terrificanti sulla guerra dai nostri nonni. E molte non le volevano condividere con noi. I nostri nonni hanno passato 12 anni in un Gulag durante il regime di Stalin. Speravano sinceramente che la nostra generazione non avrebbe più sofferto a causa dei russi. Ma ora vediamo che i nipoti di chi ha schiavizzato i nostri nonni stanno cercando di ucciderci. Ed è davvero incredibile che nel XXI secolo, il secolo del progresso tecnologico, quando tutti abbiamo accesso alle informazioni, la Russia si stia comportando come 100 anni fa: vogliono distruggere e schiavizzare, vivono ancora in un passato oscuro. E noi combattiamo per il futuro”.

The three protagonists manage to defeat the war by building a machine for the light and this machine scares the War. If we were to rewrite this tale today, what should we add? Which words?

“We’re not sure we should rewrite the story. The machine for creating the light is a symbol of unity, where everyone turns a small wheel so the machine works, symbol of organized resistance and coordination. Today it is a symbol of unity of the world, when many countries join their efforts to stop the aggression. Everybody is trying to help.
To get through these dark times, full of fear, anger and loss, we all need a ray of light, of hope. We can not hide a horrific truth from children anymore. The reality is much more horrible than any book. But we can’t stop telling and reading stories, even hiding in bomb shelters, even flleeing from our attacked homes. In our story we highlighted the strongest advantages of Ukrainian people – courage and unity”.

I tre protagonisti riescono a vincere la guerra costruendo una macchina per la luce, e la macchina spaventa la Guerra. Se riscrivessimo questa storia oggi, cosa dovremmo aggiungere? Quali parole?

“Non siamo sicuri sulla necessità di riscrivere la storia. La macchina per creare luce è un simbolo di unità, dove ciascuno gira una piccola manovella per far funzionare la macchina, simbolo di resistenza organizzata e coordinazione. Oggi è il simbolo dell’unità del mondo, quando molti paesi uniscono i loro sforzi per fermare l’aggressione. Tutti cercano di aiutare.

Per superare questi tempi bui, pieni di paura, di rabbia e di lutto, abbiamo tutti bisogno di un raggio di luce, di speranza. Non possiamo più nascondere ai bambini una verità orribile. La realtà è molto più tremenda di qualsiasi libro. Ma non possiamo smettere di raccontare e leggere storie, perfino nascosti in un rifugio antiaereo, perfino in fuga dalle nostre case colpite. Nel nostro racconto abbiamo messo in evidenza i più forti meriti del popolo ucraino – il coraggio e l’unità”.

Unfortunately, after a war, not everything can go back to the way it was before … that’s why “Danko still has a web of cracks near his heart, while the tips of Zirka’s wings have remained a little burned and Fabian limps with the leg that he had pointed with the thorns “?
What’s the moral? What do children need to understand?

This war changes everyone of us. We will miss so many people we lost. We will miss our homes, streets and cities. We will rebuild everything with time, but it will never be the same. Many of us will be scared of loud sounds. Many will have scars, on their bodies and on their souls. And we will appreciate the simple things, which we didn’t notice before. And there is no doubt that we will be happy again.

Sfortunatamente, dopo una guerra, non tutto ritorna come prima… ecco perché “Danko ha una raggiera di incrinature vicino al cuore, mentre le punte delle ali di di Zirka sono ancora bruciacchiate e Fabian zoppica con la gamba ferita dagli spini”?
Qual è la morale? Cosa devono capire i bambini?

“Questa guerra ci cambia tutti. Ci mancheranno tante persone che abbiamo perduto. Ci mancherà la nostra casa, le strade e le città. Col tempo ricostruiremo tutto, ma non sarà mai la stessa cosa. Molti di noi avranno paura dei rumori forti. Molti avranno cicatrici, sul corpo e sull’anima. E apprezzeremo le cose semplici, a cui prima non facevamo attenzione. Non c’è dubbio che torneremo a essere felici”.

The poppy has become an international symbol to commemorate the victims of the war.
A fairy tale so that Ukrainian children know and remember the tragic experiences of their homeland, so as not to be overwhelmed, to leave the way open for a new existence. Is this the meaning of your work on children?

“Yes, definitely.
This war makes terrible statistics. During these four weeks of invasion Russians killed 135 Ukrainian children, many got injured. More than 50% of Ukrainian children according to Unisef have become refugees since 24. February 2022. 1,8 millions children moved abroad seeking shelter, 2,5 millions of children moved from their houses ro other regions of Ukraine. So we all, children and adults must remember how strongly we love our home, our family, how strongly connected we are with each other, how we suffered, how we cried, how we fought and how we won, how we were hurt and how we healed. We have to work with our memory, to remember who we are.”

Il papavero è diventato un simbolo internazionale per commemorare le vittime di guerra.
Una favola per far sì che i bambini ucraini sappiano e ricordino le tragiche esperienze della loro patria, per non essere sopraffatti, per lasciare aperta la strada a una nuova esistenza. È questo il significato del vostro lavoro coi bambini?

“Sì, assolutamente. Le statistiche su questa questa guerra sono terribili. Durante queste quattro settimane di invasione i russi hanno ucciso 135 bambini ucraini, e molti sono i feriti. Più del 50% dei bambini ucraini secondo l’Unicef sono diventati rifugiati dal giorno 24 febbraio 2022. 1,8 milioni di bambini hanno cercato rifugio all’estero, 2,5 milioni si sono trasferiti dalle loro case ad altre regioni dell’Ucraina. Quindi tutti noi, bambini e adulti, dobbiamo ricordare quanto forte è il nostro amore per la nostra casa, la nostra famiglia, quanto forte è il legame che ci lega gli uni agli altri, quanto abbiamo sofferto, quanto abbiamo pianto, quanto abbiamo combattuto e infine vinto. Come siamo stati feriti e siamo guariti. Dobbiamo lavorare con la memoria, per ricordare chi siamo”. Continua a leggere