Luigia Sorrentino. La pietà dello sguardo

Luigia Sorrentino (foto d’archivio)

Recensione di
Giancarlo Pontiggia

Inizia con una citazione plutarchea il nuovo libro di Luigia Sorrentino: «La morte dei vecchi è come un approdare al porto, ma la morte dei giovani è una perdita, un naufragio». E «naufragio» è forse la parole-chiave per interpretare questo libro doloroso e tragico, che parla di giovani vite perdute in spirali di violenza e di degrado. Lo sfondo è una Campania infera, riconoscibile da qualche minimo tratto, ma che sembra precipitare ad ogni verso in un tempo arcaico, scuro, sacrificale. E «antico» è epiteto che si ripete spesso, nel libro, quasi a indicare un fatale avvicendarsi di storie e di destini: antico è il silenzio (p. 22), antico l’adolescente (p. 27) che si avvia alla sua fine; e antichi sono anche «amore» (p. 38) e «cuore» (p. 93).

Luigia Sorrentino, Piazzale senza nome, Pordenonelegge-Samuele editore, Pordenone, 2021, pp. 102.

Si sarebbe tentati, leggendo, di assegnare alle zone in prosa, che si alternano ai versi, gli aspetti più realistici e crudi della rappresentazione: ma si capisce subito fin dalla prima di queste prose, come la morte dei due ragazzi venga descritta sullo sfondo di un rituale cosmico (presenze costanti della raccolta sono i nomi della «notte», del «cielo» e dell’«oceano») dai motivi dionisiaci (lo sgozzamento della capra, il ritmo frastornante della musica, lo smembramento, l’ebbrezza), motivi destinati a propagarsi per l’intera raccolta: «– È nel dolore totale –. Non oppone resistenza alle braccia che lo sollevano per distenderlo nudo sul tavolo. L’urlo irrompe nella stanza come quello di una capra sgozzata. Porta automaticamente le mani sui genitali per difendersi da gesti che offendono. Nelle sorsate d’alba il midazolam somministrato con l’ago esala nella vena. Poi il respiro sprofonda nella gola carsica risucchiando via, a uno a uno, i nostri volti prima di approdare alla riva, ai cupi occhi della grande notte. // Sotto la notturna volta della scala comunale è scomparso il ragazzo che infilzava lucertole trapassandole da parte a parte con il fil di ferro. Da poco si è accasciato sul terreno, in mezzo al groviglio di arbusti spinosi e rami secchi. Una striscia di cielo lo guarda. Nella testa della capra suona il ritmo assordante di una musica persecutoria. All’alba spalancherà gli occhi senza alcun ricordo. La morte dei giovani arriva all’improvviso, carica di violenza. Lo smembramento è totale. Su tutto domina l’ebbrezza gridata da un cuore felice e maledetto» (p. 13).

La tensione realistica dei quadri e il ritmo franto della descrizione sono soggetti a una forma di drammatizzazione scenica, segnata dalle pennellate espressionistiche delle scelte lessicali. La notte, qui come in numerosi altri passi del libro, sembra allearsi con le presenze scure e ctonie della vita, con il sangue che nutre la terra e l’asfalto. Realistico è il dato iniziale, che viene però subito investito di un simbolismo acceso e traumatico, spesso esaltato dai contrasti cromatici («neve»-«sangue»), come già nella poesia d’esordio: «su tutto il giardino neve / dilatata / silenzio armato nelle pupille / neve, tutta nel sangue / narici oltraggiate / bianco e nero // l’incedere violento / del battito cardiaco / si chiude su di sé // nella luminosa potenza / avviene l’incontro» (p. 11). Il tema della solitudine, su cui si chiudono tutte queste vite, si scontra nondimeno con una dimensione di coralità diffusa, spesso sottintesa.

La ripetizione a distanza di tratti e termini, spesso legati al corpo e in particolare al volto (pupille, narici, occhi, cranio, bocca, capelli, nuca, denti, orecchio, gola, labbra, voce, orbite, iride), risponde a un’esigenza di ritualità, più che di formularità: siamo nel territorio del tragico, non dell’epos, cioè nel territorio in cui tutto si è ormai consumato. Un tempo assoluto che può richiamare per analogia quello del mito, entro il quale la dimensione del quotidiano e del reale acquista un suo significato nuovo. Il dramma si ripete, perché solo in questo ripetersi – in questo poter essere rappresentato – trova una sua verità e una sua cadenza espressiva. Anche per questo la raccolta si distende in un unico movimento, privo di divisioni e di sezioni interne: non c’è, in queste storie, un prima e un dopo, ma un unico, circolare fluire in cui la cronaca sprofonda subito in evento, in qualcosa che era già accaduto.

Lo stile costeggia – anche per l’espansione orizzontale del verso – la nudità del referto, ma un referto che si dà in una lingua di alta densità metaforica, e che sembra ogni volta precipitare, nella concitazione delle immagini, verso una chiusa necessariamente sentenziosa: «poi scendeva la tenebra / il silenzio di tutte le parole» (p. 53); «morivano gli occhi / nel soffio della vita» (p. 58); «nella decomposizione / tutto il nostro destino» (p. 60); «deborda, cola sul pavimento / la tenebra» (p. 67); «sei entrata dal fondo, sei tornata / in un paese morto» (p. 69).

“Piazzale senza nome”, disegno di Giulia Napoleone, maggio 2022

Libro ossessivo, martellante nel ritmo delle immagini e dei pensieri, dominato dalla presenza della morte e del male, Piazzale senza nome è un libro senza ristoro e senza conforto («una storia cruda senza atti di grazia», p. 47), ma anche un libro fondato sulla pietà dello sguardo e dei gesti, come nella poesia intitolata Quando hai smesso di respirare: «l’amore è un tuffo sul corpo / il nome chiamato / non risponde / dita sorreggono la testa / da dietro, la tengono dritta // ti chiudono gli occhi / la bocca estrema / ha bevuto l’oceano» (p. 88). Continua a leggere

Marco Bini. “New Jersey”

Marco Bini, foto di proprietà dell’autore

New Jersey di Marco Bini – Note a margine
di Federico Carrera

 

«Il vero simbolo della provincia è essere incapace di narrare la propria storia». Il New Jersey di Marco Bini (Interno Poesia, 2020) si apre con queste parole, intense ma fulminanti, del fotografo Luigi Ghirri. Dico fulminanti proprio perché, poste in esergo a questa raccolta di poesia, sembrano guadagnare un nuovo significato, ancora più autentico – se possibile – dell’originario. Sono parole messe al posto giusto. E Marco Bini lo sa. Perché nella sua poesia non è dato l’evento casuale, incastrato fuori posto: tutto è ben dosato, a partire dalla costruzione di versi piani, mimesi di un discorso disteso, capace di far convivere affondi narrativi con picchi del più alto lirismo, il tutto in un tono da quotidianità dimessa, ma non degradata. Fino ad arrivare a una struttura solida, che rende il dipanarsi dei testi di poesia quasi un percorso ben guidato all’interno di una storia che lentamente è in grado di avvolgere il lettore, come fosse una narrazione. Ma è invece una poesia capace di rivelare, in pillole, una saggezza autentica e profonda, che ricorda quella di alcuni poeti antichi, come Orazio.

Gli oggetti, nella provincia che è teatro di questo New Jersey, assumono sempre un significato emblematico. Così i cartelli stradali diventano «costole» che «spalancano al cuore spazio per pulsare», l’«ossigeno» dell’ora del tramonto è «notte» che sparisce velocemente, «la torre dell’Unipol» di Bologna è «Rothko, Gramsci, Montale tutti assieme», e via dicendo. Ma gli oggetti sono emblemi che possono solo apparentemente mediare un rapporto di profonda incomunicabilità tra l’io e le cose del mondo. In effetti, il tema che domina la raccolta – e sul quale la raccolta stessa si fonda – sembra essere quello della distanza. Una distanza che può venire proiettata geograficamente, temporalmente o anche astrattamente. È lo iato che s’instaura inevitabilmente tra gli oggetti e l’io, che ne marca i confini, ne sottolinea le differenze. È il senso di vuoto che permea l’umano e lo rende in qualche modo diverso, forse completo. Ecco che appare limpido il senso delle parole di Ghirri: la provincia è lo stato esistenziale in cui si trova l’uomo, in rapporto di costante vicinanza-e-lontananza dalle cose. E il New Jersey diventa, in questo gioco di metafore, uno stato esistenziale prima ancora che uno Stato geografico e fisico: è la provincia per antonomasia, il luogo dal quale si osservano accadere le cose ‘che contano’, da cui si può ammirare una fucina di luce e di vita come quella di una altrettanto esistenziale Manhattan («il centro dove agglomerarsi / nel nucleo vulcanico dove fabbricano la luce»).

Il libro è costruito così intorno a un tema originale, mentre viene in qualche modo evitato, ma con grazia, il confronto diretto con le grandi soglie della tradizione poetica occidentale, vale a dire Amore e Morte: eppure non si potrebbe dire che, in qualche modo, i testi di questa raccolta non abbiano a che fare anche con esse. È l’approccio di una penna sensibile sia sul piano umano sia sul piano letterario, che non vuole banalmente ripetere alcuni motivi, ma, se possibile, aggiungere qualcosa agli stessi. Continua a leggere

8 marzo: la libertà delle donne

In un mondo disegnato dalle parole degli uomini, irrompe il racconto delle donne a modificarne gli orizzonti.

Alla luce di tredici candele si ritrova un cenacolo di scrittrici, dalle loro voci nasce un nuovo continente: è la terra inesplorata delle donne.

Parte del ricavato delle vendite sarà devoluto all’Associazione Difesa Donne: noi ci siamo (via Val di Sole, 10 – 20141 Milano).

Il libro sarà presentato a Roma l’8 marzo 2023 a Lettere e Caffè (Trastevere) alle 18:00.

Con la curatrice del volume, saranno presenti le autrici:

Cettina Caliò, Ilaria Palomba, Gisella Blanco, Patrizia D’Antonio, Manuela Mazzi, Antonietta Gnerre, Emma Saponaro, Raffaella Gambardella, Elisa Ruotolo, Antonella Rizzo, Sabrina Caregnato, Luigia Sorrentino, Elisa Longo.

Sara Durantini, foto di proprietà dell’autrice

Sara Durantini, nata a San Martino dall’Argine (MN) nel 1984, consegue la laurea magistrale in lettere moderne presso l’Università di Parma; vincitrice dell’edizione 2005-2006 del Premio Tondelli per la sezione inediti con il lungo racconto L’odore del fieno, nel 2007 pubblica il primo romanzo, Nel nome del padre, con la casa editrice Fernandel. Nel 2008 pubblica un racconto inserito nell’antologia Quello che c’è tra di noi, a cura di Sergio Rotino (Manni Editore), nel 2009 partecipa al Dizionario affettivo della lingua italiana, a cura di Matteo B. Bianchi e Giorgio Vasta (Fandango Libri), nel 2011 pubblica un racconto inserito nell’antologia Orbite vuote (Intermezzi Editore). Nel 2019 partecipa all’edizione aggiornata del Nuovo dizionario affettivo della lingua italiana (Fandango Libri) e nello stesso anno partecipa al volume L’unica via è il pensiero (Intermedia Edizioni) a cura del professore Hervé A. Cavallera. Continua a leggere

Nunzio Bellassai, da “Due tempi”

Nunzio Bellassai, foto di proprietà dell’autore

Vi proponiamo alcune poesie inedite tratte dall’opera prima del giovane autore Due tempi (Ensemble editore, 2021) Prefazione Maurizio Cucchi.

 

Non era redenzione quel lampo di luce
goffo emerso in superficie, quello scorcio
intriso del freddo cutaneo dei mattoni
scheggia frantumata in mille
diffidenti pezzetti di vita.
Il mistero della roccia persiste.
Dove la linea di frattura si inarca
il passo più estenuante,
l’urto che liofilizza l’eterna
replica dell’attimo è erosione,
discrasia che nega il riconoscimento
della forma, l’anfratto spigoloso
del mondo. L’agonia della lastra
che diventerà lapide,
scheggia che sarà materia.

***

Al campo ottantasette è morosa
la vista, rispetta i nomi smorzati,
sono orfani bianchi dimenticati
scolpiti sulla plastica riottosa.

Milano accoglie avvizzita aria afosa,
secca di tribolazione, bendati
gridi di pace, lemmi tratteggiati
di una contorta prosa lacunosa.

Al campo ottantasette sta in precario
equilibrio con lo stesso livore
l’uomo che scava orbite vitali.

Viene da chiedersi – unico indiziario –
cosa ci fosse prima del pallore
delle seicento croci comunali.

***

A Černobyl trent’anni dopo
le giostre eseguono un moto regolare,
tintinnio macchinoso di ruggine
condensata. Le candele si piegano
all’aria reticente, sbuffo geloso
di un uscio che balbetta.
È domenica e i Samosely vanno
a messa, si riconoscono i visi
sempre uguali. Lo spiraglio di una porta
socchiusa suona come un invito a
entrare in un’anticamera che vive
respira si alimenta, eppure non esiste.

***

Solo i passi sveleranno l’illusione,
affossati nel mistero che circonda
i viali larghi di questa città
che vive dei rumori passati.
Avvolgeranno i confini dell’attesa
senza profanare né capire, ma ora
dentro di me ogni piccola cosa
del mondo splende e riaffiora.
Nel cielo tempestato di anime
hai già smesso di parlare.

***

Non parlarmi di tempi remoti.
In questo breve fiato si confondono
i nostri sogni. E anche se i giorni
scorrono invisibili sul tuo volto
olivastro, nonno, viviamo.
In quest’eterno presagio di un attimo
di comunione. E ci dà torto questo
nostro impossibile essere fratelli.

***

Il bambino che raccoglie i gusci di paguro
segue il flusso continuo dell’erosione,
consunzione di materia che si cela nelle volute
murate, rastrella le forme accresciute
in fragili gabbie atrofizzate.
Serrate le labbra violacee, resta inginocchiato
sulla sabbia nera. Dove il bagliore si interrompe
si coagula il respiro nervoso della gente.

***

Mi sembra di conoscere la cortina irregolare,
fortuito accumulo di scarti, impasto stratificato
di rifiuti. Sono le stesse alghe che si accumulano
sulla riva scomparsa che monologa compatta
con vagiti sepolti, movimenti retroflessi
di un’intimità rivelata. Ignora il suono afoso
di un richiamo collettivo, il massacro incolore.
Ignora il tratto collusivo di quelle promesse
che sono già a fondo, vittime adespote
essiccate nel solco miasmatico, depositate
all’ombra del bunker, putrefazione
diagnosticata in tempo, accolta in ritardo,
nutre gli illustri visitatori del nulla.

***

I cimiteri invaderanno le città,
sgusceranno dal suono afoso
delle preghiere incise su lastre esili,
che già riportano nomi, date,
pulviscolo monotono, alimenta
un impulso conformista di icone.
Non gli ammassi di cemento
trafitti da punte gotiche che non sfiorano
il cielo, non palazzine costipate
da presenze taciturne. E nemmeno
i volti devozionali, ritagliati nell’angusta
cornice ovale concessa dal marmo,
spazio fraterno che commuove. Colma
l’arretramento volontario della città.
La soglia disattesa offre un respiro greve.

***

Manca ancora l’icona in mezzo
ai satelliti immobili di cemento, alti
non contro il cielo, si stagliano rasoterra.
Le chiome rigide, volumi fissi in una rete
di impronte digitali ancora da scolpire,
in fila indiana. Un po’ mi stringe
un po’ mi allevia, quest’anelito
sempre identico, l’arte di non scomporsi.

***

Fu un vecchio a dirmi di voler tornare
in cima al promontorio, sembra quello
il destino della scogliera: una tenera stasi.
E gli ospiti incuranti delle isole
che negano alle ombre ristoro.
Eppure conta e dimentica, rinsavisce
nei rintocchi che nessuno ascolta.
Roccia bianca che galleggia,
prima ricorda: nessuno veglia la cenere
destinata alle onde. Disperse queste
intermittenze di luce ci conducono qui,
alla Chiesa Vecchia, ma la cenere non brilla. Continua a leggere

Milo De Angelis presenta in Francia la sua opera di poeta

Milo De Angelis e Viviana Nicodemo

RENCONTRE AVEC DE MILO DE ANGELIS

Jeudi 23 février à 18h30

Institut Culturel Italien (Loft) – 18 rue François Dauphin – 69002 LYON

Présentation en italien des oeuvres de Milo De Angelis avec la participation d’Alberto Russo Previtali, modérateur. Lectures en italien et en français par Viviana Nicodemo, actrice, et par Sylvie Fabre, traductrice.

Vendredi 24 février à 14h00

Lycée Saint Marc – 1000 rue de Vernay, 38300 Nivolas-Vermelle

Présentation en italien des oeuvres de Milo De Angelis avec la participation d’Alberto Russo Previtali, modérateur. Lectures en italien et en français par Viviana Nicodemo, actrice.

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La poesia di Mauro Imbimbo

Mauro Imbimbo

IL CORPO E LA MADRE

Corpo a corpo con il corpo,
sino a quando, a corpo morto,
rovinò sopra la madre,
di quel corpo la cagione,
per poterla annichilire
e rinascere in un corpo
incorporeo e scorporato
dal materno originale,
rispecchiandosi nel quale
tempo fa aveva dato
corpo a un corpo rigettato,
combattuto corpo a corpo,
sino a farne, a corpo morto,
la cagione d’ogni torto.

OCCASIONI PERDUTE

Imbarcarsi per Citera!
danno gli ultimi biglietti!
se si spera di sfangare
non ci resta che partire,
e tu resti a cincischiare,
ti rimiri nella spera,
col desio di ritrovare
quel bel tomo da balera,
ma la spera è affumicata,
non si vede un accidente,
ed intanto quel traghetto
sta lasciando ratto il molo,
e tu resti tutto solo,
col rimpianto e con la spera.

CONCLUSIONE

Sullo stato dello Stato
ogni lemma è stato usato,
e di crude e di cotte
v’è un elenco dettagliato.
Giunti siamo a quel momento,
il momento del commiato:
rinunciare a plausi e botte
e augurarsi buona notte.

DESTINI

I cani e i fanciulli
assieme al giardino.

La vita del gioco,
diletto con poco.
Restiamo a guardare,
ancora per poco.
Felice chi il gioco
amò pure poscia
che vita fanciulla
morì dando vita
dando vita
all’ansia per tutto,
piacere per nulla.

DECLINO

La Bellezza a primavera
marca visita di nuovo,
ha rimesso la panciera
e alla sera solo un uovo.
Teme i mostri culturali,
le richieste sindacali,
è insicura sui valori,
la carriera con il Bene
non l’attira come ieri.
Si ritira, pare chiaro,
darà presto dimissioni,
per le comunicazioni
indirizzo fermo posta.

PAROLA AL VENTO

Nella vita mortale
della morte parlare,
senza nulla imparare
circa il bene morire,
ritenendo che basti,
nella vita mortale,
nominare la cosa,
ed in dosi copiose,

per passare di là,
senza dazio pagare,
senza colpo ferire.

Mauro Imbimbo, da “Valori Bollati” (La Bussola, 2021)

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Cinzia Demi, da “La causa dei giorni”

Cinzia Demi, foto di proprietà dell’autrice

bisognerà capire cosa ci porta
a credere nei grani   a farne
sabbia di clessidra tra le mani
a non rompere i cristalli dorati
a tornare là dove siamo nati

nella casa con le pareti bianche
dove ogni cosa ha un nome
che chiamiamo   ogni confine
è un richiamo che rapido svalica
si espande nel mondo

in un sussulto di folate   tra
bacche d’acacia e lino chiaro
nella luce obliqua delle persiane
nel sacramento giurato   sul
simulacro trasparente del mare

bisognerà capire cosa ci resta
della pazzia della festa   del
calore di fiamma che ancora
difende la giovinezza
dei nostri corpi abbracciati

nell’alba   tra i vapori, mentre
sprofonda l’ombra delle sagome
che ci furono accanto   e d’un
tratto la memoria è un male
stordente   l’umanità affonda

nella ragione oscura
i papaveri stentano a fiorire
e un tempo immobile non
spiega   non glorifica   ma non
rinnega   la causa dei giorni

*

Dalla sezione: Nel nome del mare

 aspetti sempre che qualcosa succeda
mentre alzi gli occhi
agli alberi che temono l’autunno
la strada si è fatta più lunga e
quel cartellone ieri non c’era

è una milizia certa quella del tempo
da assoldare nell’esercito mercenario
per le guerre sull’altare di pietra
nella chiesetta – frontiera del Golfo[1]
contro il pallore del mare d’ottobre

pagarlo e lasciarlo libero di fermarsi
un poco   a riposare   senza fretta
provare a bagnarsi le mani
dove scorre la sabbia di ematite
raccogliere una scheggia di bucchero

e costruirci un bicchiere
bere un sorso di maestrale
da quella breccia che ingrossa
l’aria di sale antico e tamerici
magari è così che si cresce

dopo il pane con zucchero e vino
dopo le vendemmie e le rose
quando tutte le cose sfumano
in un sentire lontano   e dici
è così che si cresce   per le croci

da cui siamo fuggiti
per quell’aria soffocante di casa
dove l’orizzonte era solo una linea
magari è così che s’incontrano teatri
con le quinte a colori vivaci

rammendate che non importa quanto
è così che si consumano chilometri
si stringono corpi   si gettano paramenti
argenti s’indossano senza più valore
senza l’ardore che ci fece scuola

e aspettando ancora si torna all’inizio
si alzano gli occhi
agli alberi che sono già primavera
la strada è più corta ora
e di quel cartellone lo scritto è sbiadito

*

Dalla sezione: Materiale non riciclabile

 

noi per la vita
noi per la morte
noi per l’eterno sentire
noi per non capire
noi che fummo e che siamo
l’umanità dolente
di quel dolore forte
che acceca la mente
l’umanità perduta
fottuta dall’ottusa gente

noi che credevamo
noi che non crediamo
noi che speravamo
noi che non speriamo
noi che amavamo
noi che non amiamo

noi che non ci siamo più
senza famiglia   senza virtù
con un sogno che muore
ogni momento
ogni singolo momento
un sogno fermato
in un pugno   in un lamento
nell’acqua che avanza
nel vento che squarcia
nel sole che brucia   ancora di più

*

Dalla sezione: Quel segno che manca (febbraio 2020 – gennaio 2021)

 

   guardo l’orchidea sul tavolo della cucina
ogni tanto lascia andare un fiore
si secca e scende dal ramo
che perde la sua freschezza
si spoglia del suo colore

è ancora bella però   penso
trafitta da quell’ultimo raggio
di luce   tradito dalle pieghe arancio
della tenda   se avesse una sua voce
mi direbbe di questo tempo

mi direbbe che perdo i contorni
dei volti di chi amo   i colori degli
occhi   la linea disegnata dei profili
i gesti delle mani   che le parole sono
fioche e vuote   anche ai cellulari

mi direbbe che è sfumata la veste
del mare   e l’orizzonte non è più
una linea dove poggiare lo sguardo
che la neve non è scesa quest’anno
e l’erba aspetta paziente il ritorno

mi direbbe che i sogni sono incubi
che il pianto che sento è lontano
ma vero   che la notte ha sepolto
i migliori di noi   nella via crucis
dei camion   delle loro luci in cordata

mi direbbe che la vita non l’ho mai capita
che non può accadere soltanto   che il
bicchiere si riempie quando l’acqua scorre
che la tunica non si gioca ai dadi
ma si taglia e si cuce con le mani

e mi direbbe l’orchidea di questa Pasqua
puntuale   affacciata alle nostre finestre
come quella macchia di ginestre di cui
rivedo nel bosco fitto   l’ambizione del bagliore
il chiarore infestante della Resurrezione Continua a leggere

Addio a Charles Simić

Lutto nel mondo della poesia

Charles Simić, in una delle sue ultime apparizioni pubbliche a Roma all’Auditorium della Saint Stephen’s School, il 27 ottobre del 2015.

 

Poeta Laureato degli Stati Uniti dal 2007 al 2008 e Premio Pulitzer per la Poesia nel 1990, muore a 84 anni Charles Simić, il 9 gennaio 2023. 

La notizia arriva dal suo amico e editore statunitense Daniel Halpern due ore fa dagli Stati Uniti. La causa della morte, l’improvviso aggravarsi di una malattia che lo aveva colpito negli ultimi anni.

Charles Simić è stato uno dei maggiori poeti contemporanei. La sua opera di poesia non è facilmente classificabile. Minimalista, ironica, essenziale, talvolta surreale, ma ha pubblicato anche opere che hanno mostrato un volto realistico e violento.

Something Evil Is Out There

That’s what the leaves are telling us tonight.
Hear them panic and then fall silent,
And though we strain our ears we hear nothing—
Which is even more terrifying than something.

Minutes seem to pass or whole lifetimes,
While we wait for it to show itself
This very moment, or surely the next?
As the trees rush to make us believe

Their branches knocking on the house
To be let in and then hesitating.
All those leaves falling quiet in unison
As if not wishing to add to our fear,

With something evil lurking out there
And drawing closer and closer to us.
The house dark and quiet as a mouse
If one had the nerve to stick around.

C’è qualcosa di malefico là fuori

Ci dicono le foglie stasera.
Sentile andare nel panico e poi ammutolire.
E anche se tendiamo l’orecchio non udiamo niente –
ancora più terrificante di qualcosa.

Pare passino minuti o vite intere,
mentre aspettiamo si manifesti
proprio in quest’attimo, o di certo nel prossimo?
E intanto gli alberi s’assiepano a farci credere

ai loro rami che bussano sulla casa
perché li si faccia entrare, ma poi esitano.
Tutte quelle foglie che cadono mute all’unisono
come desiderassero non esasperare le nostre paure,

con qualcosa di malefico in agguato là fuori
che ci si avvicina, si avvicina sempre più.
La casa buia e silenziosa come un topo
se si avesse il fegato di restarci.

da: Charles Simic Avvicinati e ascolta  Edizioni Tlon, 2020
Traduzione Damiano Abeni, Moira Egan

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Else Lasker-Schüler, “A mio figlio”

Else Lasker-Schüler, 1944 in Jerusalem (last known photo), photographed by Sonia Gidal Else Lasker-Schüler Archiv. Stadtbibliothek Wuppertal, © Sonia Gidal

Else Lasker-Schüler nell’ultima foto che la ritrae d’inverno nel 1944, tutta intabarrata mentre esce da un negozio, è sfocata. Cammina per le vie di Gerusalemme un’anziana signora, un po’ trasandata, non sempre lucida. Eppure Else era una donna forte: si batteva come una fiera, per difendere la sua arte, promuovere il dialogo interculturale, esigere aiuti per sé e per le persone a lei care o per chi era in difficoltà, perseguitato e sradicato, negli anni bui della seconda guerra mondiale.
“Il mio pianoforte blu” è l’ultimo libro pubblicato in vita nel 1943.
Nel 2022 il libro è stato pubblicato in Italia dalle Edizioni FinisTerrae, con la traduzione di Michele Gialdroni nella collana Le Meteore, a cura di Domenico Brancale e Anna Ruchat.

An mein Kind

Immer wieder wirst du mir
Im scheidenden Jahre sterben, mein Kind,

Wenn das Laub zerfließt
Und die Zweige schmal werden.

Mit den roten Rosen
Hast du den Tod bitter gekostet,

Nicht ein einziges welkendes Pochen
Blieb dir erspart.

Darum weine ich sehr, ewiglich…
In der Nacht meines Herzens.

Noch seufzen aus mir die Schlummerlieder,
Die dich in den Todesschlaf schluchzten,

Und meine Augen wenden sich nicht mehr
Der Welt zu;

Das Grün des Laubes tut ihnen weh.
– Aber der Ewige wohnt in mir.

Die Liebe zu dir ist das Bildnis,
Das man sich von Gott machen darf.

Ich sah auch die Engel im Weinen,
Im Wind und im Schneeregen.

Sie schwebten…
In einer himmlischen Luft.

Wenn der Mond in Blüte steht
Gleicht er deinem Leben, mein Kind.

Und ich mag nicht hinsehen
Wie der lichtspendende Falter sorglos dahinschwebt.

Nie ahnte ich den Tod
– Spüren um dich, mein Kind –

Und ich liebe des Zimmers Wände,
Die ich bemale mit deinem Knabenantlitz.

Die Sterne, die in diesem Monat
So viele sprühend ins Leben fallen,
Tropfen schwer auf mein Herz.

(1943) Continua a leggere

Giuseppe Martella, da “Porto franco”

Giuseppe Martella

Dalla postfazione di Rosa Pierno

Attraverso la lettura della prima raccolta poetica di Giuseppe Martella, Porto franco, si scopre di essere entrati in uno studiolo degli esperimenti in cui le ipotesi, che sono già normalmente coltivate in un ambito di incertezza, sono, per sopraggiunta istanza sperimentale, anche immerse nella contraddizione. Ciò fa diventare la miscela esplosiva, ancor prima che sulfurea. Si tratta di ipotesi di lavoro tenacemente attaccate alle loro confutazioni come le peonie di mare allo scoglio: non pongono soluzioni che prevedano la distinzione, l’operabilità della differenza. Designano un luogo non alchemico, che tuttavia produce l’affondo sui limiti del pensabile. Ne consegue che risultano nettamente delineati anche i profili delle aggettanti ombre in campo ludico. Codesta attitudine della poesia è irrinunciabile, essendo essa artificio. La poesia porta con orgoglio tale medaglia; ciò equivale a porre la sua ironica lungimiranza in bella mostra! […]

 

E così via, raccogliendo per strada
i lacci e le conchiglie e i ricci
gli stracci – le caccole dei cani
gli impicci fra ieri e domani
raccogliendo, scartando
facendo insomma le pulci alla vita
con le dita nude –
doloranti magari, gli occhi stanchi
davanti sempre a un mucchio di rifiuti
e quanti quanti sempre più davanti
sfaticati, stenti sulla strada
quasi sfiniti tutti, tutti quanti
– quasi arrivati, e neppure mai partiti.

*

Tranche de vie. In versi
e scorre per un verso e per l’altro ritorna
tirata via a forza ma con arte
una fetta di carne viva
al ricordo – il sangue che ancora
cola – come in un macello
appeso al gancio dondola il vitello
appena macellato e ancora caldo –
lo sento se soltanto mi avvicino
a un metro e chiudo gli occhi,
e trattengo il respiro, mi tappo il naso
ma mi manca il fiato
sfioro la carne viva, prima che la ferita si
rimargini
prima che la spuma della vita
biancastra
ritorni secca e muta nei suoi argini.

*

Ci siamo già lasciati: ora mi dici
non ti conoscevo a fondo
anzi per niente,
ora ritorno,
sai, saremo felici. Ma
ti guardo e mi confondo
e che sarà mai codesta ombra
che mi molesta nel caldo mezzogiorno?
E poi chi se lo aspetta mai un ritorno
dopo tanto tempo!
Ho il forno acceso e mi si brucia il timballo
di riso con cura preparato da mia moglie
– ecco qui sta l’impiccio: le doglie della vita
i rami spogli, sparuti
stenti
che seguono al cadere delle foglie.

*

Canone inverso

E breve breve mi ritorna in mente
il ritornello
però tutto a rovescio che non so
neppure se sia quello di prima
oppure un altro – o della foglia
il dolore nel ramo che si incrina
– sulla soglia dove il rumore
si trasforma in suono e poi parola
e poi vola fra me e te –
rimane fra di noi – come se
fosse un arcobaleno, sole
un effetto di luce nella pioggia
una lama nel cuore
un boomerang di ritorno
un osso di rapace
scagliato d’improvviso a ciel sereno.

Da Porto franco, Arcipelago Itaca, 2022

______

Giuseppe Martella è nato a Messina e risiede a Pianoro (BO).
Ha insegnato letteratura e cultura dei paesi anglofoni nelle Università di Messina, Bologna e Urbino. I suoi studi riguardano in particolare il dramma shakespeariano, il modernismo inglese, la teoria dei generi let- terari, il nesso fra storia e fiction, l’ermeneutica letteraria e filosofica, i rapporti tra scienza e letteratura, e tra letteratura e nuovi media.
Dopo essersi ritirato dall’insegnamento, da alcuni anni si interessa anche di poesia italiana contempo- ranea, collaborando con saggi e recensioni a diverse riviste cartacee e online.
Una sua poesia inedita, Kenosis, è risultata finalista al premio “Lorenzo Montano” 2020. Altri inediti sono già apparsi su “Il giardino dei poeti”, “Versante Ripido” e la sezione Instagram di “Raipoesia” di Luigia Sorrentino. Porto franco è la sua opera prima in versi.

Fra le sue altre pubblicazioni a stampa:
– Ulisse: parallelo biblico e modernità, Bologna, CLUEB 1997;
– Margini dell’interpretazione, Bologna, CLUEB 2006;
– G. Martella, E. Ilardi, History. The rewriting of History in Contemporary Fiction, Napoli, Liguori 2009 (in duplice versione, inglese e italiana);
– Ciberermeneutica: fra parole e numeri, Napoli, Liguori 2013;
– Tecnoscienza e cibercultura, Roma, Aracne 2014.

Marilena Renda, da “Fuoco negli occhi”

Marilena Renda a Bologna in Lettere, 2020

A Siracusa Freud vede piccole statue
di madri e fanciulle, alcune con neonati,
colte nell’atto di sorridere o camminare.
Qui ho visto il femminile, scrive a Jung,
ma non entra nei dettagli e non condivide
la scoperta nemmeno con Ferenczi,
che in viaggio si rivela esigente e molesto.
Tiene per sé la visione, scovata o no per caso,
vale un intero viaggio, ma non trova le parole,
forse l’ha desiderata troppo a lungo,
ed è inutile addobbare la verità di dettagli.
Scrive alla moglie, impossibile l’anno prossimo,
troppo costoso venirci in tre, in cinque, in undici,
dovrei mettermi a fabbricare fibbie e fiammiferi,
tengo la Sicilia per me, nessuno me ne voglia.

*

Arrivato a Siracusa, Jünger torna dov’era stato,
alla fonte dei papiri, che lui ricorda in libertà,
mentre facevano compagnia alle ninfe. Una o due ninfe?
Forse due, ma ugualmente soggette a metamorfosi,
morte per amore e subito trasformate in fiumi.
Non si rassegna al cambio di geografia interiore:
qui ogni cosa e il suo contrario, annota,
sono possibili allo stesso modo, e la storia fa presto
a degradarsi, a restituire gli oggetti alla natura.
Se uno ha visto una ninfa sciogliersi nell’acqua,
fa presto a credersi una divinità, ma dimentica
le visioni successive, la rovina del corpo,
la storia che continua dopo la cristallizzazione.
Il sole splende ancora, noi ostinati nell’infanzia.

*

Non può nemmeno dirsi mare, il tratto di Stagnone
che collega Mozia alla terra. Più di ogni altra isola
questa appartiene ai morti, e i morti raccomandano prudenza.
La barca che lo attraversa deve procedere con cautela
su cinquanta centimetri di fondale, a ogni istante
può incagliarsi, ricordi che non riuscivamo a proteggere
Bianca dal sole, e tuttavia non avevamo paura,
sotto la pelle del mare potevamo vedere la strada
costruita per i carri, con la bassa marea si può attraversare,
e anche se il mare tenta di confondere le tracce
puoi sapere com’è, portare da mangiare ai morti.

*

Per iniziare a scrivere il suo poema,
Eliot aveva deciso di aspettare la primavera,
o almeno una stagione di quiete,
qualcosa di simile a una tregua.
Non sapeva che avrebbe avuto bisogno
di una guerra, o almeno di una siccità,
una condizione che dall’esterno avremmo potuto
associare a una moglie pazza, ma mai, mai
a un impiegato della Lloyds Bank.
Avrebbe avuto bisogno di tempo, anche,
e del dottor Vittoz che, premendogli
la mano sulla fronte, gli indicava dove
distogliere gli occhi, la calma che serve
quando niente è da perdere ormai.
Fuori dalla finestra, sul lago Lemano,
insisteva il battito d’ali del disastro. Continua a leggere

Nunzio Bellassai, da “Due tempi”

Nunzio Bellassai – Foto di proprietà dell’autore

Vi proponiamo alcune poesie tratte da “Due tempi”, di Nunzio Bellassai, Ensamble Editore, 2021

Non era redenzione quel lampo di luce
goffo emerso in superficie, quello scorcio
intriso del freddo cutaneo dei mattoni
scheggia frantumata in mille
diffidenti pezzetti di vita.
Il mistero della roccia persiste.
Dove la linea di frattura si inarca
il passo più estenuante,
l’urto che liofilizza l’eterna
replica dell’attimo è erosione,
discrasia che nega il riconoscimento
della forma, l’anfratto spigoloso
del mondo. L’agonia della lastra
che diventerà lapide,
scheggia che sarà materia.

***

Al campo ottantasette è morosa
la vista, rispetta i nomi smorzati,
sono orfani bianchi dimenticati
scolpiti sulla plastica riottosa.

Milano accoglie avvizzita aria afosa,
secca di tribolazione, bendati
gridi di pace, lemmi tratteggiati
di una contorta prosa lacunosa.

Al campo ottantasette sta in precario
equilibrio con lo stesso livore
l’uomo che scava orbite vitali.

Viene da chiedersi – unico indiziario –
cosa ci fosse prima del pallore
delle seicento croci comunali.

***

A Černobyl trent’anni dopo
le giostre eseguono un moto regolare,
tintinnio macchinoso di ruggine
condensata. Le candele si piegano
all’aria reticente, sbuffo geloso
di un uscio che balbetta.
È domenica e i Samosely vanno
a messa, si riconoscono i visi
sempre uguali. Lo spiraglio di una porta
socchiusa suona come un invito a
entrare in un’anticamera che vive
respira si alimenta, eppure non esiste.

***

Solo i passi sveleranno l’illusione,
affossati nel mistero che circonda
i viali larghi di questa città
che vive dei rumori passati.
Avvolgeranno i confini dell’attesa
senza profanare né capire, ma ora
dentro di me ogni piccola cosa
del mondo splende e riaffiora.
Nel cielo tempestato di anime
hai già smesso di parlare.

***

Non parlarmi di tempi remoti.
In questo breve fiato si confondono
i nostri sogni. E anche se i giorni
scorrono invisibili sul tuo volto
olivastro, nonno, viviamo.
In quest’eterno presagio di un attimo
di comunione. E ci dà torto questo
nostro impossibile essere fratelli.

***

Il bambino che raccoglie i gusci di paguro
segue il flusso continuo dell’erosione,
consunzione di materia che si cela nelle volute
murate, rastrella le forme accresciute
in fragili gabbie atrofizzate.
Serrate le labbra violacee, resta inginocchiato
sulla sabbia nera. Dove il bagliore si interrompe
si coagula il respiro nervoso della gente.

***

Mi sembra di conoscere la cortina irregolare,
fortuito accumulo di scarti, impasto stratificato
di rifiuti. Sono le stesse alghe che si accumulano
sulla riva scomparsa che monologa compatta
con vagiti sepolti, movimenti retroflessi
di un’intimità rivelata. Ignora il suono afoso
di un richiamo collettivo, il massacro incolore.
Ignora il tratto collusivo di quelle promesse
che sono già a fondo, vittime adespote
essiccate nel solco miasmatico, depositate
all’ombra del bunker, putrefazione
diagnosticata in tempo, accolta in ritardo,
nutre gli illustri visitatori del nulla.

***

I cimiteri invaderanno le città,
sgusceranno dal suono afoso
delle preghiere incise su lastre esili,
che già riportano nomi, date,
pulviscolo monotono, alimenta
un impulso conformista di icone.
Non gli ammassi di cemento
trafitti da punte gotiche che non sfiorano
il cielo, non palazzine costipate
da presenze taciturne. E nemmeno
i volti devozionali, ritagliati nell’angusta
cornice ovale concessa dal marmo,
spazio fraterno che commuove. Colma
l’arretramento volontario della città.
La soglia disattesa offre un respiro greve.

***

Manca ancora l’icona in mezzo
ai satelliti immobili di cemento, alti
non contro il cielo, si stagliano rasoterra.
Le chiome rigide, volumi fissi in una rete
di impronte digitali ancora da scolpire,
in fila indiana. Un po’ mi stringe
un po’ mi allevia, quest’anelito
sempre identico, l’arte di non scomporsi.

***

Fu un vecchio a dirmi di voler tornare
in cima al promontorio, sembra quello
il destino della scogliera: una tenera stasi.
E gli ospiti incuranti delle isole
che negano alle ombre ristoro.
Eppure conta e dimentica, rinsavisce
nei rintocchi che nessuno ascolta.
Roccia bianca che galleggia,
prima ricorda: nessuno veglia la cenere
destinata alle onde. Disperse queste
intermittenze di luce ci conducono qui,
alla Chiesa Vecchia, ma la cenere non brilla.

***

L’ombra galleggia nel fluido ammasso
del rimpianto, calpesta gli ultimi aghi
di pino del giorno che è stato,
i tronchi inerti, fissati al terreno tenace,
l’equilibrio immobile di quello che resta.
Il silenzioso reticolo delle alghe
nasconde lo scheletro roccioso
dell’Isola che ora vive solo per sé.
L’ebbrezza dei corpi che si cercano
ansiosi sul viso torbido della marea.

Nunzio Bellassai ha conseguito con lode la laurea magistrale in Filologia Moderna presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”. Attualmente presso il medesimo ateneo è dottorando in Italianistica con un progetto sul patrimonio epistolare di Vitaliano Brancati.
Per il racconto La stazione, edito da Schena, ha vinto il Premio nazionale “Valerio Gentile” nel 2019. Con la sua raccolta d’esordio Due tempi (Ensemble, 2021, prefazione di Maurizio Cucchi) ha ottenuto le menzioni speciali del Premio “Città di Latina” e del Premio “Portopalo Più a Sud di Tunisi”, oltre al terzo posto al Premio “Diana Nemorensis” di Nemi. Suoi componimenti sono stati selezionati per la Bottega di poesia de «La Repubblica», la rubrica “L’Angolo degli inediti” della casa editrice Stampa-2009 e l’Ufficio Poesie Smarrite del «Corriere della Sera».
I suoi studi gravitano intorno alla letteratura italiana del Novecento, con un interesse per i fenomeni italofoni transnazionali. I suoi primi contributi scientifici sono apparsi su «Sinestesieonline» e «La rivista di Arablit» nel 2023.