di Irene Santori
Preliminarmente, occorre porre attenzione alla citazione in esergo, che apre la raccolta. “Non essere limitato da ciò che è grande, essere contenuto da ciò che è minimo, questo è divino“.
Essa è tratta dall’”Iperione” di Hölderlin, il quale a sua volta la mette in esergo al suo romanzo, riportandola nell’originale latino “Non coerceri maximo, contineri minimo, divinum est“.
Pertanto, questo motto è la citazione di una citazione, e già questo ci pone in un orizzonte di slittamenti, stratificazioni, ma soprattutto di sprofondamenti: poiché è Luigia Sorrentino che cita Hölderlin, il quale cita un epitaffio, per l’esattezza l’epitaffio inciso sulla tomba di un santo, Sant’Ignazio di Loyola.
È dunque da una tomba che esala e sale la parola che anticipa tutte le altre. È l’epitaffio, ovvero la parola ultima e definitiva, che qui invece si fa parola inaugurale. Un cenno etimologico: epi, significa sopra; tàphos, significa tomba, ovvero ciò che sta sotto, il sottoterra. L’epitaffio è in sé la simultaneità, il con-stare di due opposti: il sopra e il sotto. Nel caso particolare del messaggio veicolato da questo epitaffio, gli opposti si divaricano a dismisura, diventano maximo e minimo, l’infinito e il finito, l’uno e il tutto. Ed è divino, divinum est, stare, con-stare, esserci in entrambi, situandosi in questa divergenza, in questa divaricazione.
Ora, in “Olimpia” è all’opera la febbricitante e fredda presa in carico di questa situazione, laddove si assuma la parola situazione non nella sua funzione di sostantivo, come realtà data, bensì come azione nel suo darsi, come la tensione, l’operazione instancabile del situarsi.
Luigia Sorrentino – e qui l’aggettivo febbricitante assorbe una valenza quasi puerperale – mette al mondo, plasma, architetta un luogo e un logos: un luogo in cui quella divaricazione, quella difformità, quegli opposti possano corrispondersi, possano divenire tutt’uno e non più collisioni dell’essere. E se mai questo sarà possibile, lo sarà in virtù di un logos, di una parola pensata, hölderlinianamente, nella sua potenzialità demonica, ovvero della parola numinosa e perciò demiurgica e fondativa. Stiamo parlando della parola poetica, per come la intendeva Hölderlin, o meglio, per come la intendeva Heidegger esegeta di Hölderlin: la poesia è il nominare che istituisce l’essere e l’essenza di tutte le cose.
In altre parole, la parola poetica è quell’energia primeva, quell’Ur-Sprache, la protolingua che sta sotto, tombata nel profondo delle lingue storiche, da riattingere affinché l’epitaffio, da parola sepolcrale diventi inizio, avvento, evento, nascita di ogni discorso umano, ridiventi, per dirla ancora con Heidegger, voce del popolo. E però, nel dire popolo, non può non risuonare l’esclamazione corsivata della quart’ultima poesia della raccolta di Sorrentino, che sembra quasi gridare, spopolato!
“ciò che crediamo perduto possiamo
riaverlo, te l’ho già detto, spopolato!”
Ora – posto che assumiamo la poesia come istituzione dell’essere e dell’essenza di tutte le cose – in che modo accade questa istituzione, nel proprio, nello specifico della poetica di Luigia Sorrentino? In che modo, dall’epitaffio iniziale fino a questa esclamazione e poco oltre, vengono al mondo e vanno in scena tutte le cosmogonie e le agonie di “Olimpia”, ricapitolando il sottoterra ctonio e il cielo, il passato mitico e il destino, le rovine e le fondamenta, in una mai pacificata ma sempre febbricitante scommessa su una nuovissima alleanza tra divino e uomo?
Di nuovo, è solo il testo che fa testo.
Partiamo dunque dal titolo. Il titolo è trimorfico: Olimpia è la poesia, Olimpia è la divinità che la incarna, Olimpia è una città.
Affinché la poesia, intesa come mistica del Logos originario, come Ur-Sprache autenticamente rivelativo dell’intima essenza dell’essere, possa nascere occorre preliminarmente constatare, o forse confessare, l’inautenticità del mondo, vederne l’insignificanza e il nulla, ammettere che le sue proporzioni, simmetrie, magnificenze, i suoi palazzi e altari, non sono che ruderi, relitti, monconi: vedere, come scrive Luigia, su quelle rovine ciò che di noi viene disperso. Solo azzerando questo orizzonte saturo di vestigia storiche e culturali oramai afone, si farà spazio e prenderà corpo sottoterra, annidata come una radice nel grembo stesso di questa agonia e afonia, il soffio incorrotto, la voce pura, bianca, assoluta, ab-soluta poiché sciolta dalle scorie della condizione umana e proprio per questo capace di ripensare la condizione umana, di rinominarla, di ricomprenderla non più nella dispersione e nello sperpero di sé, ma in una forma altissima.
Questa è l’Olimpia dall’incarnato bianco, dalle pupille bianche, dal sorriso chiaro, che nasce nell’antro: il volto sbiancato nell’intangibile nulla. Immagine di assoluta innocenza, di assoluta epifania, ma anche talmente generativa da compendiare in sé non soltanto la nascita, ma la gestazione stessa: lei è la nascitura, la neonata e la gravida, è il frutto e la radice al tempo stesso, lei stessa madre e grembo, ma, attenzione, grembo che si prepara a ritornare estraneo ad ogni flutto. Poniamo molta attenzione a questo verso, a questo estraneo. Qui si insinua un pericolo. Vedremo perché.
Ma torniamo al titolo e all’Olimpia città: la città di Olimpia è figura massima di questo transito, di questo passaggio, di questa trasposizione (per inciso, sappiamo che Luigia sottintende un gemellaggio tra Olimpia e Napoli, morfologicamente, potremmo dire, omozigote): dagli albori della storia ad oggi, in lei sprofondano e concrescono rovine di templi, statue gigantesche, corone di alloro, eppure in lei si accendeva e si accende il fuoco sacro; ciclicamente dentro di lei si appicca la scintilla dei giochi cari agli dèi.
E non era per Hölderlin la poesia, come scrive in una lettera alla madre, l’occupazione più innocente di tutte? Ovvero, appunto, un gioco, come glossa Heidegger, interprete di questa frase, prima di metterla in risonanza con un’altra frase di Hölderlin, tremenda fino all’iconoclastia, per cui, scrive il poeta, il più pericoloso dei beni, il linguaggio, è dato all’uomo, affinché creando e distruggendo e perendo e ritornando a lei che sempre vive, la madre e maestra, egli testimoni ciò che egli è.
Terribile che questo gioco, questa occupazione innocente, sia il più alto dei beni, in quanto conditio sine qua non della testimonianza della verità più profonda dell’essere, eppure, nel contempo, che tra tutti i beni esso sia il più pericoloso.
Per questo colpisce che nella raccolta Olimpia, in questa pura e sorgiva celebrazione di una divina nascita – che trabocca di rose, tralci di rose, ulivi, querce, foglie d’acanto, melograni, grappoli d’uva, limoni, foglie accese, infiorescenze, in una natura che col suo umido, carnoso, fertile turgore assiste ostetricamente questa nascita e questa assoluta pregnanza – immediatamente si affaccino due versi di segno diametralmente opposto: ora come un tronco la voce/infilza i nostri cuori. La voce olimpica, da entità diafana e chiara, la poesia che ha reso chiaro-veggenti i nostri cuori, si fa tronco che cruentemente trapassa il petto e per trasposizione i nostri occhi spalancati sull’evento, spettatori dell’epifania della voce poetica: c’è qualcosa di vampiresco e di ciclopico in questa ferita mortale, tematizzata a pochi versi di distanza da quel grembo che sinistramente si prepara a ritornare estraneo a ogni flutto.
Tutto questo come se quel passaggio, quell’inversione, quel ritorno all’uno, alla pienezza del sé, alla luce, in quella ubiquità di orizzontalità e verticalità, di cielo e terra, operata dal soffio poetico, non si desse che precariamente. Olimpia appare, viene al mondo, ma (per citare Paul Celan, e non a caso) è come se venisse al mondo sotto il tiro di presagi, sotto il tragico presagio che tutto nuovamente si disancori, che gli opposti da saldati si scompaginino, che ciò che divinamente combaciava torni estraneo, che tutto risprofondi nella lapide e nella dilapidazione, in una costante polverizzazione sepolcrale dell’identità ristabilita e suturata.
E se per propiziare la nascita della voce avevamo dovuto preliminarmente riconoscerci maceria di noi stessi, avanzo, rimanenza del tempo, scoria e scempio della storia, nell’immediato post partum si insinua l’angoscia, la malattia mortale di un ritorno alla scissione, alla fissione del nucleo, alla dissipazione di una pienezza forse soltanto sfiorata, forse soltanto intravista. Che sia stato tutto un sogno, allora? Possibile che quel varco oltre l’antro della nascita, sia stato solo una svista? E su tutto incombe come un’intimidazione la domanda, reiterata da Luigia, è quella la porta? È quella la porta? È quella la porta? Per tre volte rintocca quest’interrogativa venuta a spaesarci nuovamente e a dirci che forse quel punto di congiunzione tra l’epitaffio delle macerie e il soffio vitale, tra il maximo e il minimo si dà solo come orlo del baratro, del sottosuolo (olimpico o napoletano che sia) sempre pronto a rispalancarsi, che forse quel varco si dà, come direbbe Yves Bonnefoy come insidia della soglia, come sentimento della perdita, come tragico presentimento della caduta.
E Iperione, il cui nome significa colui che si muove sopra, Iperione il titano figlio di Urano e Gea, ipostasi funambolica e bifida di cielo e terra, a pagina 55, cade, poiché recita l’Iperione hölderliniano in una nuova citazione di Luigia, che aggiorna e chiosa la prima citazione, nulla può crescere e nulla può così perdutamente dissolversi, come l’uomo.
E, aggiungo, perdutamente dissolversi anche il bene pericolosissimo del linguaggio, che vive di nascita e morte, creazione e distruzione e dell’eterno ritorno della loro ciclicità, così come il grembo subito si prepara a ritornare estraneo ad ogni flutto, per poi riempirsene in un nuovo rito, nella gravida e vuota attesa che ci si appropri della parola prima e ultima, nel dilemma che il Logos, nato nel paesaggio decrepito della balbuzie umana, possa darsi soltanto come Logos erchomenos, sempre e solo veniente, per fugaci approssimazioni o forse oniriche apparizioni.
E dunque, epifania e dissoluzione, come sorelle nemiche di una nuova mitopoiesi, si danno la caccia, si stringono ai fianchi, si stanno addosso: come antro e atrio, le due sezioni all’inizio della raccolta. L’antro della nascita e della palingenesi e l’atrio, ovvero quello spazio che fa subito casa, nel senso più precario del trascorrere, del dissolversi, del tornare polvere di ciò che è mortale e nato da mano mortale:
enorme il tempo appoggiato ai muri
affreschi si staccano dal fondo nella cornice in movimento resti di decorazioni
“colonne che furono altissime porte dorate slanciate chiuse
la montagna
in quel fondo di eternità
restò in attesa della loro ombra”
Attesa. Ombra.
E con questo atrio dagli affreschi staccati, dalle colonne collassate, dalle porte che non appena si aprono, così si chiudono, siamo di nuovo risucchiati nell’economia della casa e delle sue leggi (ricordiamo che economia significa oikos, dimora, nomia, legge), ovvero siamo aspirati nella legge del mondo, del deperibile, del marcescibile e del nostro scheggiarci. Come un biblico memento mori quella strofa ci ammonisce a ricordare sempre che polvere siamo e polvere torneremo ad essere.
Allora, è forse questa la situazione, per tornare allo pseudosostantivo iniziale, che Sorrentino pone sotto i nostri occhi? In cui gli opposti mai si saldano in un sicuro possesso, ma sempre si insidiano l’un l’altro: antro e atrio, divino e umano, maximo e minimo, il sotto e il sopra, l’epitaffio e il Logos, l’unisono unanime del coro e l’afonia dello spopolamento, la casa e il disabitare, e sempre inesorabilmente la presenza si dà come crisi della presenza e la sola sintesi concessa agli uomini tra luce e tenebra è l’ombra e la sua attesa.
Accennavamo a Celan, che compare anche nella raccolta di Luigia, la cui intertestualità, segnalo, è ricchissima e in questo contributo è stata appena sfiorata. Quel cristallo di respiro tematizzato a pagina 77 è il richiamo al Paul Celan del breve ciclo Atemkristall, fiammata anch’essa divaricata tra elevazione e catabasi.
In conclusione, proviamo a far risuonare alcuni versi di Sorrentino con uno di Celan. Scrive Luigia:
“la bellezza ci fu tolta nella luce inesorabile dello spegnersi”
Non è luce piena, dunque, ma spegnersi. Eppure non è buio pesto, poiché appunto è spegnersi. È un trasalire della luce nel buio, un fibrillare del buio nella luce, un’agonia di entrambi nell’umbratile intermezzo dell’ombra.
Scrive Celan nella poesia Sprich auch du (Parla anche tu) in Di soglia in soglia:
“Dice il vero, chi dice ombre”.
Allora, forse, la scommessa funambolica che Luigia accetta, situandosi interamente e tragicamente in questo pericolo, in questo bilico pericolante, sta nel fare proprio dell’ombra il proprio della verità, la sede paradossale di una riattivazione del dire veritativo sempre tremendamente revocabile, il grembo pieno e vuoto, caro ed estraneo, di una arrischiatissima apertura di senso di un Logos che si dà dileguandosi, di una parola prima e ultima che non appena viene al mondo si inabissa e a noi non resta altro che invocarla, propiziarla, suscitarla, nella disperata speranza che forse, fugacemente, magari un attimo prima della fine, lei riappaia. Ed è così, per stavolta almeno, è così: Olimpia, la prima parola, il soffio, la voce talmente epifanica e inaugurale da essere titolo, dal titolo in poi scompare, sprofonda, si inabissa per tutta la raccolta, ma a un passo dalla fine, soltanto nell’ultimo verso dell’ultima poesia, torna a farci visita, e, con la gioia come ancella, taumaturgicamente, riappare.