Premio Biella Letteratura e Industria 2011

Edoardo Nesi, autore di “Storia della mia gente” è il vincitore della decima edizione del Premio Biella Letteratura e Industria con la seguente motivazione: “Un sistema industriale ormai indebolito, il tessile; un triste viale del tramonto in cui è costretta una città, Prato, nel racconto tormentato di chi è stato tra i protagonisti nella sua città e nella sua economia industriale. Così, in “Storia della mia gente” Edoardo Nesi, industriale e scrittore, percorre la sua vita, partendo dagli anni giovanili negli Stati Uniti, trascorsi nei campus universitari, viaggiando, amando la musica, leggendo. Dopo l’America, il ritorno definitivo a Prato, l’immersione nella vita quotidiana, nella routine, a continuare la secolare vicenda dell’azienda di famiglia, “Lanificio T.O. Nesi & Figli S.p.A”. Fin dagli anni Sessanta i Nesi si erano specializzati nella produzione di due tipologie di tessuti da cappotto, con lo sbocco più remunerativo sul mercato tedesco. Negli anni Ottanta, nonostante qualche difficoltà congiunturale, il Lanificio Nesi continuava a prosperare. “Immaginate un’azienda che fabbrica solo un determinato prodotto e, se soffre di un problema è quello di non riuscire a produrne abbastanza”, sottolinea Edoardo. Nell’azienda diventa presto abile conoscitore dei problemi, innovatore di procedure. Va e viene dall’estero, consolida i migliori risultati; eppure la vocazione dello scrittore non lo lascia, anzi spera che un giorno o l’altro di fare “solo lo scrittore”. Tra gli anni Novanta e il Duemila irrompe la mondializzazione. Edoardo Nesi analizza criticamente gli sconvolgenti passaggi, la caduta dell’antico lanificio a ciclo completo, del manifatturiero del Made in Italy; e polemizza con gli economisti che vivono nel mondo delle teorie, che prospettano, dopo la tempesta, un illusorio futuro di ripresa. Che non ci sarà sulle macerie dell’ “età dell’oro”, l’oro del lavoro sicuro, della piena occupazione, della massimizzazione dei fattori produttivi. Il rapporto con il mercato è ormai decaduto: dalla trattativa diretta, in cui l’imprenditore era protagonista, si è scesi nell’inferno delle “aste”, che annichilisce e dequalifica prodotti ed aziende. La liberalizzazione del commercio mondiale ha spalancato le porte alla Cina: dapprima l’invasione dei prodotti, poi l’arrivo di produttori. Frattanto i Nesi hanno venduto l’azienda. Edoardo tristemente commenta: “Sono rimasto solo e stringo in pugno una copia dell’atto che abbiamo appena firmato, e la testa mi risuona delle parole su New York che Fitzgerald scrisse nel 1929, in piena depressione: Perciò lascio, ora, la mia città perduta. Non sussurra più di fantastici successi ed eterna giovinezza. Tutto è perso, salvo il ricordo”. D’ora in poi sarà scrittore, narratore ‘a tempo pieno’.” (di Marco Neiretti)

Gli altri riconoscimenti sono andati ad Antonio Pennacchi con “Mammuth” (Premio speciale della giuria); Sebastiano Nata con “Il valore dei giorni” (Premio della giuria dei lettori) e Dante Maffia con “Milano non esiste” (premio giuria della Casa Circondariale di Biella).

La premiazione si svolgerà il 18 novembre.

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I cinque finalisti e le motivazioni della giuria

Cosimo Argentina, Vicolo dell’acciaio, Fandango

 “Menestrello impietoso di un sud vittima di mali secolari che stenta a scrollarsi di dosso, Cosimo Argentina racconta una storia quasi post-industriale nel suo romanzo “Vicolo dell’acciaio”. In una Taranto depressa e assolata, la cancrena sociale si chiama Italsider, matrigna impietosa che ha offerto nei decenni lavoro, incidenti e malattie ai polmoni dei suoi dipendenti operai. In questo panorama di dolente staticità si sviluppa la storia del diciannovenne Mino Palata, abitante del quartiere periferico denominato “vicolo dell’acciaio”, zeppo di casermoni, lamentazioni, vuoti umani a perdere, cancri e illusioni spezzate. Figlio del mitico Generale, Mino tenta la sorte di una fuga attraverso lo studio, per evitare la prevedibile rotta verso il fumo delle ciminiere, la catarsi dei sogni, la fine in un letto di dolore.
“Ma il vicolo dell’acciaio è un delirante luogo dell’anima che instilla dubbi, spinge ad arrendersi al rituale incolore della quotidianità, tra cerimonie funebri collettive con il logorante rito del “consolo”, l’amore sofferto per la bella Isa, il cazzeggio nel quartiere tra i “gechi” appollaiati contro i muri a stordirsi di birra, il tifo per il Taranto: una connessione di provvisorietà che diventa apatia, modo d’essere e di annullarsi. Con un linguaggio forte, pantagruelico – una sorta di enorme rutto italo-dialettale che spurga malesseri e bestemmie, sudori e piaceri, Argentina tiene in piedi una costruzione solida, l’unica in mezzo alla devastazione che circonda invece i suoi protagonisti. Da certe realtà non c’è scampo, sembra suggerire l’autore, se non in un eterno ripetersi della rassegnazione, del dolore. Una forma intensa e folgorante di nuovo romanzo sociale.” (di Sergio Pent)  

Chiara Ingrao, Dita di dama, La Tartaruga Edizioni – Dalai Editore

“Dita di dama di Chiara Ingrao racconta la fabbrica con voci e sguardi di donna. Gli anni sono quelli tra Sessanta e Settanta, “tempi allegri e feroci, e più veloci della luce”, lo stabilimento di autoradio e televisori, alla periferia di Roma, ricorda la Voxon. è l’inizio dell’autunno caldo, e Maria detta Marì deve riporre ogni speranza di proseguire gli studi e accettare, per volontà paterna, la catena di montaggio. La sera, Marì racconta all’amica Francesca detta Francé – destinata invece al liceo, poi a Giurisprudenza – la fatica e le umiliazioni, ma anche la progressiva conquista di una coscienza di sé, la volontà di cambiamento, la scoperta della solidarietà tra donne che non solo partecipano a una comune condizione di lavoro ma – poiché il personale è politico, e la vera sapienza è il partire da sé – sperimentano logiche alternative di convivenza.
Dal rifiuto della vita di fabbrica, Marì passa alla fierezza di appartenere alla classe operaia e poi di rappresentare le compagne nel sindacato, in momenti di lotte dure e conquiste, a partire dal rinnovo del contratto dei metalmeccanici. Mentre come sempre “il mondo degli uomini” (dei padroni, dei segnatempo, dei sindacalisti prigionieri di politiche e parole sclerotiche) “mostra i muscoli”, le operaie, con le loro dita sottili adatte a costruire piccoli congegni, inventano forme di protesta e portano nei capannoni grigi, insieme ai colori ribelli di nuovi camici, il “dono tacito dell’accoglienza”.
Nella voce narrante di Francé, che diventa consulente legale del sindacato, risuonano le voci di un coro di donne, Ninanana e l’Aroscetta, Mammassunta e le altre. Tutte rivendicano ed esercitano, prima di tutto, un gioioso diritto di parola, e il loro linguaggio è tramato di dialetto romanesco, gergo e modi del parlato, e restituito attraverso un peculiare discorso indiretto libero. La colloquialità espressiva del testo reagisce con i titoli danteschi dei capitoli, suggerendo il carattere intensamente umano della vicenda, il legame profondo tra letteratura ed esistenza, la complessità non gerarchica del reale. Nel tessuto narrativo e stilistico agiscono insieme la cultura femminista della relazione e del corpo e l’esperienza dell’autrice nel sindacato e nei movimenti. La sostanziosa documentazione connota il romanzo anche come lavoro sulla memoria, teso a recuperare nella storia recente delle italiane e degli italiani un’identità collettiva reale, di fronte a incertezze già all’epoca incombenti e profeticamente avvertite: “Prima potevo di’: io so’ un’operaia, no? E mo’ che dico?”. (di Milva Maria Cappellini)

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Dante Maffia, Milano non esiste, Hacca

“Un operaio calabrese, emigrato a Milano negli anni della gioventù alla ricerca di un lavoro, è il protagonista di una vicenda umana e sociale, piena di speranza e di disincanto. Egli desidera una sola cosa dopo aver raggiunto la soglia della pensione: tornare al paese natale, dove lo aspetta una casa costruita con i sacrifici di una vita, ricongiungersi con una realtà antropologica nella quale riscattare privazioni, attese, promesse. I suoi progetti però incontrano l’ostilità di moglie e figli, incapaci di pensare se stessi in un altrove geografico che non sia la modernità cittadina, con i supermercati, il traffico, lo smog, il rumore, e all’operaio non rimane che tornare da solo al paese, finendo per diventare un personaggio allucinato, in preda alle ossessioni che hanno pervaso la sua esistenza a Milano.
Rifacendosi alla consolidata tradizione del “romanzo di fabbrica”, frequentato con successo nei decenni scorsi da autori come Ottieri, Volponi, Balestrini, Dante Maffia realizza un’opera che ha il suo punto di forza nel ritratto della condizione operaia nell’epoca della post-fabbrica e nella lingua, che si presenta in forma di monologo sensibile alle corde della memoria e della nostalgia, alle increspature dell’emotività e dell’alienazione.”  (di Giuseppe Lupo)

Sebastiano Nata, Il valore dei giorni, Feltrinelli

“L’azienda è onnipresente e remota, una multinazionale che sembra non avere nome, ma soltanto funzioni, funzionari e manager. Uno di loro è Marco, l’italiano che tutti considerano in irresistibile ascesa e che un giorno, durante una riunione destinata a rivelarsi fatale, si gioca tutto per una battuta fuori luogo. Non avrebbe dovuto dire quello che ha detto, lo sa anche lui, ma più che altro non avrebbe dovuto passare il fine settimana a Porto San Giorgio, la sua cittadina d’origine, in compagnia del fratello Domenico. Perché Domenico ha fatto scelte che sono l’esatto contrario di quelle di Marco: restare a casa anziché viaggiare per il mondo, gestire una piccola attività anziché combattere la dura guerra dei supermanager, ostinarsi a cercare l’amore anziché accontentarsi di una routine affettiva troppo educata per lasciare posto alla passione. Mentre Marco si macera davanti alle rovine della sua carriera, a Porto San Giorgio, silenziosamente, Domenico muore. Ed è in questo momento che viene il tempo di un altro viaggio, di un secondo ritorno che, pur senza essere definitivo, porterà Marco un po’ più vicino alla propria verità di uomo, costringendolo a riconoscere qual è, per ciascuno di noi, il più autentico «valore dei giorni»”. (di Alessandro Zaccuri)

Il Premio speciale della giuria è stato assegnato all’opera di Antonio Pennacchi, Mammuth, edito da Mondadori con la seguente motivazione: “Sentiamo, perché mai la classe operaia non dovrebbe più andare in paradiso? A prima vista, i motivi per la mortificante esclusione non mancherebbero. A cominciare da quel Quattroruote letto in sostituzione del Capitale o da quel mirabile mondo nuovo pianificato tutto per sé e non più per tutti, e per finire con una classe che da appassionata si è fatta disamorata, e che da specie in impaziente evoluzione si è devoluta in specie in logorata estinzione; “come i mammut” infierisce Pennacchi. “Lotta / dura / senza / paura”, addio? Andiamoci piano con incaute deduzioni, c’è prima da leggere questo libro, questa storia corale di una fabbrica di nome Supercavi e storia individuale di un operaio di nome Benassa. Fabbrica, non solo luogo di dolore e fatica, ma anche di gioie, amori, soddisfazioni, condivisioni. Dove il lavoro è, si, manuale, ma anche comunitaria trasformazione della materia, e dove, quindi, il “fare” è “poiesis” e l’uomo è faber e poeticus. Ma dove anche la macchina è creatura animata, con una sua personalità, un suo nome, di donna sempre, ciascuna impegnata in un dialogo ininterrotto con l’operaio che le lavora al fianco, e che la capisce, ne intuisce le esigenze, ne decifra gli appelli. E’ in quella stessa fabbrica che si svolge il percorso individuale dell’operaio Benassa, condannato al fine pena mai dei turni di notte, leader maximo della protesta sindacale, e persino un intellettuale, senza volerlo e senza offesa, uno che scrive comunicati come poemi. Per i padroni, invece, un dannato e dannoso rompicoglioni da neutralizzare, quanto prima tanto meglio. Infatti. Benassa vorrà farci credere in finale di essersi lasciato neutralizzare, persino di avere realizzato un sogno che dice essere di tutti “Farsi mandare a casa i soldi senza andare a lavorare”. Scrivendo, però. La storia sua e della sua fabbrica. E la storia (la lezione, il monito) della trascurata miniera di intelligenza e di creatività di una classe insofferente, e immeritevole, di giurassico.” (di Pier Francesco Gasparetto)

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