Franco Buffoni, “Una piccola tabaccheria”

Nello scaffale
Franco Buffoni, Una piccola tabaccheria – Quaderno di traduzioni – Marcos y Marcos, 2012


Songs of Spring, il mio precedente Quaderno di traduzioni, apparso da Marcos y Marcos nel 1999, racchiudeva nel titolo il cuore di un verso di John Keats, tratto da To Autumn: dove sono i canti di primavera, dove sono ora? L’intendimento era quello di comunicare al lettore, sin dal titolo, l’alta temperatura “romantica” che percorreva la raccolta: se ne accorsero i giurati del “Mondello” che vollero premiarlo, in primis proprio per quella febbre, misurata – nella loro motivazione – come altissima.
Dodici anni dopo mi trovo qui a raccogliere una nuova messe di traduzioni e imitazioni (certamen, æmulatio, imitatio: volta a volta ripeto tra me quando sigillo una nuova versione nel mio pc) di diverso segno e temperatura. Sempre più convinto che – nei confronti della poesia scritta in altre lingue che quotidianamente mi giunge sul tavolo o rileggo in biblioteca – il mio servizio non possa essere che di tipo “estetico”. Lascio ad altri la funzione “sociale”, la traduzione integrale di un’opera o di un autore…

L’unico modo che conosco per rapportarmi a un altro poeta è quello di incontrarlo “poieticamente” su un dato testo. Un incontro che fa leva da un lato sull’incastro tra due poetiche, la poetica del tradotto e la poetica del traduttore (con sempre ben presente nella memoria emotiva la definizione anceschiana: “la riflessione che gli artisti e i poeti compiono sul proprio fare, indicandone i sistemi tecnici, le norme operative, le moralità, gli ideali è la poetica”); dall’altro proprio quel poiein, quel “fare” che indusse gli antichi bardi scozzesi a definirsi Makar, fattori, costruttori.

Un poeta è – insieme – un costruttore e un divoratore di linguaggi, operazioni che tuttavia non può compiere senza avvalersi di un metodo. Il mio – con specifico riferimento al tradurre – principalmente si rifà alla distinzione poundiana tra melopea, logopea e fanopea. In ogni testo che capisco di voler “tradurre” cerco di individuare l’elemento prevalente, quello irrinunciabile: può consistere nell’intarsio ritmico-melodico, o nel pensiero nitidamente formulato, oppure nell’illuminazione, nell’epifania: quel guizzo, che da solo costituisce il senso profondo del testo. In tal modo, so dove posso eventualmente compiere un sacrificio.

Mia ferma convinzione è che non di “fedeltà” si dovrebbe parlare bensì di “lealtà”. Il termine fedeltà connota guanciali, lenzuola e sotterfugi; il termine lealtà due occhi che fissando altri occhi dichiarano amore ammettendo un momentaneo “tradimento”. Sono stato leale alla tua altezza poetica, tradendoti qui e qui e qui: l’ho fatto per restare il più lealmente possibile alla tua altezza. Questo è ciò che dico ogni sera ai poeti vivi e morti coi quali cerco di intessere il dialogo poietico.

Un dialogo che essi proseguono anche tra loro, spesso con insofferenza verso la mia idea di macrotesto, per via degli accostamenti imposti, delle sequenze argomentative.
Nella moderna traduttologia, i concetti di ritmo, di avantesto, di intertestualità, di poetica e quello “apeliano” di movimento del linguaggio nel tempo, vanno sempre più sostituendosi alla dicotomia ciceroniana ut orator/ut interpres e alle novecentesche coppie oppositive: traductions des professeurs e traductions des poètes, come scriveva Mounin; traduzioni target-oriented o source-oriented (le famose traductions ciblistes e traductions sourcières dibattute da Meschonnic e Ladmiral); o the translator’s invisibility ipotizzata da Lawrence Venuti, implicitamente convincendoci dell’esistenza di una translator’s visibility.

Ecco, come questa terminologia mi sfugge dalla penna, subito passo al “noi”, mentre mi ero ripromesso di essere solo singolare: prima persona – magari – ma singolare.

Condivido la sostituzione, ritengo chiusa l’epoca delle dicotomie e delle coppie oppositive, ma questa sera non ci voglio pensare. Questa sera vi chiedo: lasciatemi divertire, lasciatemi volgere altrove sguardo e pensiero, dis-vertere per quanto possibile.

Per quanto possibile: perché, a chi scrive, ciò non è mai dato fino in fondo. Pound – in una delle poesie qui tradotte – vorrebbe aprire una piccola tabaccheria pur di smetterla con questo lavoro dello scrittore che lo costringe a pensare. Sempre. Provate anche voi a entrare nel negozietto. *

Franco Buffoni

 

* Confesso che a questo punto il pensiero mi è andato fortemente oscillando anche verso la famosa tabaccheria di Pessoa (“L’uomo esce dalla tabaccheria / Infilandosi il resto nella tasca dei calzoni. / Ah, so chi è: è Esteves senza metafisica. / Il padrone della tabaccheria si affaccia all’ingresso. / Per istinto divino Esteves si volta e mi vede. / Mi saluta con un cenno, gli grido: arrivederci Esteves, e l’universo / Mi si ricostruisce senza ideali né speranza. / Sorride il padrone della tabaccheria”), ma a questa tentazione ho resistito. Sarà per un’altra volta.
F.B.
Hafez

 

Ghazal v

Non è elegante vantarsi dell’arte

Non è elegante vantarsi dell’arte
Davanti all’amico,
Di arabo è piena la bocca
Ma silenziosa la lingua.
Nasconde il volto l’angelo e il demone
Ostenta bellezza,
Per lo stupore bruciò la ragione,
Ma quale magia è questa?
Nessuno ha mai colto in questi sentieri
Una rosa senza le spine,
Con le fiamme del Maledetto
Scende la fiaccola del Prescelto.
Imperscrutabili sono i disegni
Degli astri. Dunque non chiedere
Perché concessero vita ai malvagi.
Luce nei nostri occhi è la bellezza
Del figlio della vite
Avvolta forse nel velo dell’iride
O nel manto della cornea come un acino.
Avevo in grande misura intelletto e pudore
Ma ora che il figlio della vite mi ha colto
La lussuria sarà la mia regola.
Porta il vino perché come Hafez
Confido nelle lacrime dell’alba
E nella supplica di mezzanotte.
Adesso cerca per il tuo dolore
La cura in quella pozione del cuore
Che sta nella brocca di Cina
E nella coppa di Aleppo.

Hafez

Ghazal VIII
زبان خموش وليكن دهان پر از عربيست
بسوخت ديده ز حيرت كه اين چه بوالعجبيست
چراغ مصطفوي با شرار بولهبيست
كه كام بخشي او را بهانه بي سببيست
مرا كه مصطبه ايوان و پاي خم طنبيست
كه در نقاب زجاجي و پرده عنبيست
كنون كه مست خرابم صلاح بي‌ادبيست
به گريه سحري و نياز نيم شبيست

اگر چه عرض هنر پيش يار بي‌ادبيست
پري نهفته رخ و ديو در كرشمه حسن
در اين چمن گل بي خار كس نچيد آري
سبب مپرس كه چرخ از چه سفله پرور شد
به نيم جو نخرم طاق خانقاه و رباط
جمال دختر رز نور چشم ماست مگر
هزار عقل و ادب داشتم من اي خواجه
بيار مي كه چو حافظ هزارم استظهار

.
پيش تو گل رونق گياه ندارد
خوشتر از اين گوشه پادشاه ندارد
آينه داني كه تاب آه ندارد
چشم دريده ادب نگاه ندارد
جانب هيچ آشنا نگاه ندارد
شادي شيخي كه خانقاه ندارد
طاقت فرياد دادخواه ندارد
هر كه در اين آستانه راه ندارد
كيست كه او داغ آن سياه ندارد
كافر عشق اي صنم گناه ندارد

روشني طلعت تو ماه ندارد
گوشه ابروي توست منزل جانم
تا چه كند با رخ تو دود دل من
شوخي نرگس نگر كه پيش تو بشكفت
ديدم و آن چشم دل سيه كه تو داري
رطل گرانم ده اي مريد خرابات
خون خور و خامش نشين كه آن دل نازك
گو برو و آستين به خون جگر شوي
ني من تنها كشم تطاول زلفت
حافظ اگر سجده تو كرد مكن عيب

 

 

William Shakespeare

Sonnet 33

Full many a glorious morning have I seen,
Flatter the mountain-tops with sovereign eye,
Kissing with golden face the meadows green;
Gilding pale streams with heavenly alchimy:

Anon permit the basest clouds to ride,
With ugly rack on his celestial face,
And from the forlorn world his visage hide
Stealing unseen to west with this disgrace:

Even so my Sun one early morn did shine,
With all triumphant splendour on my brow,
But out alack, he was but one hour mine,
The region cloud hath mask’d him from me now.

Yet him for this, my love no whit disdaineth,
Suns of the world may stain, when heaven’s sun staineth.

.

Molte volte l’ho visto al mattino
Molte volte l’ho visto al mattino
Corteggiare le cime dei monti,
Baciare i prati, dare vita all’acqua
Con l’alchimia dell’oro nello sguardo.

Ma poi sul volto si lasciava scorrere
Le nuvole più basse,
Per sfuggire a occidente, di nascosto.
Così, il mio sole. Una mattina

Mi brillò in fronte in tutto lo splendore…
Brillò, ma non fu mio che per un’ora,
Le nuvole del mondo poi lo mascherarono.
Eppure, non ha offeso il mio amore:

Se si offusca il sole del cielo,
Può oscurarsi anche lui sulla terra.

Arthur Rimbaud

Le dormeur du val

C’est un trou de verdure où chante une rivière
Accrochant follement aux herbes des haillons
D’argent; où le soleil, de la montagne fière,
Luit: c’est un petit val qui mousse de rayons.

Un soldat jeune, bouche ouverte, tête nue,
Et la nuque baignant dans le frais cresson bleu,
Dort; il est étendu dans l’herbe, sous la nue,
Pâle dans son lit vert où la lumière pleut.

Les pieds dans les glaïeuls, il dort. Souriant comme
Sourirait un enfant malade, il fait un somme:
Nature, berce-le chaudement: il a froid.

Les parfums ne font pas frissonner sa narine;
Il dort dans le soleil, la main sur sa poitrine
Tranquille. Il a deux trous rouges au côté droit.

.

Lui dorme in fondo

Un angolo verde dove scorre un ruscello
Lasciando sull’erba del bordo i suoi stracci
D’argento, e dove luccicano dalla montagna
I raggi del sole già intensi.

Un soldato giovane, a capo scoperto
La nuca immersa nell’erba azzurra
A bocca aperta dorme disteso
E pallido nella luce.

Dorme coi piedi nei gigli, sorride
Come un bambino malato, fa un sonno.
Natura cullalo, ha freddo, riscaldalo,

Non sente più i tuoi profumi,
Dorme nel sole, la mano sul petto
Tranquillo. Ha due fori rossi sul fianco.

Seamus Heaney

Song

A rowan like a lipsticked girl.
Between the by-road and the main road
Alder trees at a wet and dripping distance
Stand off among the rushes.

There are the mud-flowers of dialect
And the immortelles of perfect pitch
And that moment when the bird sings very close
To the music of what happens.
.

Canzone

Un sorbo rosso come una ragazza dalle labbra dipinte.
Tra la strada secondaria e quella principale
Gli ontani a una distanza bagnata e sgocciolante
Si ergono tra i giunchi.

Lì sono i fiori di palude del dialetto
E i fiori immortali della perfezione
E quel momento quando l’uccello canta
Quasi la musica di ciò che accade.

Katherine Mansfield

There was a child once

There was a child once.
He came to play in my garden;
He was quite pale and silent.
Only when he smiled I knew everything about him,
I knew what he had in his pockets,
And I knew the feel of his hands in my hands
And the most intimate tones of his voice.
I led him down each secret path,
Showing him the hiding-place of all my treasures.
I let him play with them, every one,
I put my singing thoughts in a little silver cage
And gave them to him to keep…
It was very dark in the garden
But never dark enough for us. On tiptoe we walked among the
deepest shades;
We bathed in the shadow pools beneath the trees,
Pretending we were under the sea.
Once – near the boundary of the garden –
We heard steps passing along the World-road;
Oh, how frightened we were!
I whispered: “Have you ever walked along that road?”
He nodded, and we shook the tears from our eyes…
There was a child once.
He came – quite alone – to play in my garden;
He was pale and silent.
When we met we kissed each other,
But when he went a way, we did not even wave.

.

C’era una volta un bambino

C’era una volta un bambino
Tanto pallido e silenzioso,
Venne a giocare nel mio giardino
E solo quando sorrise
Di lui io tutto compresi.
Capii che cosa aveva nelle tasche,
Conobbi delle sue mani il tocco nelle mie
E della voce il tono più sommesso.

Lo condussi per sentieri segreti
Mostrandogli dei miei tesori il nascondiglio
E con ciascuno lo lasciai giocare.
Poi in una piccola gabbia d’argento
Misi i miei pensieri volanti
E glieli diedi perché li conservasse…

Era diventato buio il mio giardino
Ma non abbastanza per noi.
Camminammo in punta di piedi tra le ombre più nere,
Ci bagnammo negli stagni scuri sotto gli alberi
Fingendoci nel mare, sotto il mare.
Ad un tratto, sul fondo del giardino,
Udimmo i passi sulla strada del mondo
E ci spaventammo.
“Hai mai camminato sulla strada?”, mormorai;
Annuì, poi entrambi ci asciugammo le lacrime…

C’era una volta un bambino
Tanto pallido e silenzioso.
Veniva a giocare solo in giardino
E incontrandomi mi baciava.
Ma non mi salutò quando partì
Neppure con un cenno della mano.

1 pensiero su “Franco Buffoni, “Una piccola tabaccheria”

  1. C’è da imparare ed imparare ed imparare ancora.
    Quel passaggio su fedeltà e lealtà per esempio. Su come si possa attraversare o dialogare con una poesia. Ascolto qui il rumore della “sforbiciata e scatto brusco d’un chiavistello a manetta” (S. Heaney) che apre ed invita ad entrare in quella tabaccheria. Grazie.

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