Nello scaffale
a cura di Luigia Sorrentino
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E’ uscito il numero zero della rivista di poesia semestrale LEVANIA (Edizioni La città del sole, 2012, euro 12,00). L’editoriale, di Eugenio Lucrezi, direttore editoriale della rivista, dice molto, e vi invito a leggerlo. E’ importante che nasca una rivista di poesia a Napoli, vent’anni dopo ‘Altri termini’. Nelle foto sotto le quattro tavole di Giuseppe Antonello Leone pensate e pubblicate proprio per il numero zero di LEVANIA. Eugenio Lucrezi nel suo editoriale spiega che LEVANIA è il nome dato alla rivista in omaggio a Sergio Solmi, che così intitolò, negli anni Cinquanta, un’esile raccolta ispirata a un librino del Seicento, il Somnium, seu Opus de astronomia lunari, opera oscuramente utopica di Johannes Kepler.
Editoriale
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Per lunghi secoli esercizio di raffigurazione, l’arte ha preso poi a rappresentare la complessità della visione e il decentramento del soggetto, moltiplicando le prospettive fino alla disgregazione dell’identità stessa dell’artefice. «Qualcuno ha detto, che importa chi parla?» dice, con Beckett, il Foucault di Qu’est-ce qu’un auteur?, che ci presenta la scrittura dell’oggi tutta spiegata nella propria esteriorità, una volta che si è liberata del tema dell’espressione. Un linguaggio non più intento nella forma dell’interiorità non può che raccontare la lotta dello scrivente con la propria sparizione: esteriorizzando la morte, sorella della scrittura e campionessa dell’indicibile. Ecco che allora al posto dello stile – sintesi ideale tra esigenze espressive dell’individuo e divenire storico di un gusto comune – l’inciampo, l’interruzione e il ricominciamento permettono oggi allo scrivente di sperimentare una pluralità di forme, ma a prezzo di una perenne precarietà di risultati. Così è per le scritture poetiche, homeless ed erratiche per consolidati destini novecenteschi, che oggi, nell’era del web, chiedono in massa domicilio nei siti e nei blog. La poesia è di tutti, proclamarono i profeti dell’avanguardia. Oggi ci siamo arrivati, ma l’instant karma virtuale si brucia rapido nell’iridescenza dei pixel.
Se la poesia, nel chiuso dei suoi laboratori linguistici, non può fare a meno della propria autonomia, nell’aperto degli spazi di ascolto non può non farsi eteronoma, per offrire al pubblico i motivi e le suggestioni di un immaginario condiviso. Lo diceva Luciano Anceschi e lo fanno i poeti d’avanguardia, votati alla contemporaneità e adusi a rimestare tra le mitomanie e le monotonie dell’era mediatica. La poesia è di tutti, e la sua ricerca espressiva non può che partire dall’elaborazione della panciuta inespressività della civiltà di massa: massimalizzandola e facendole il verso.
Altri, ansiosi di superare gli steccati tra arte e vita, sconfinano dalla pagina scritta, ibridando espressione ed esperienza attraverso il mescolamento tra parole, immagini, suoni, odori: sono i poeti verbo-visivi e multimediali, impegnati nel rendere artificiosa e magica una parola pensata come alternativa al discorso lineare. Ma un’avanguardia che non preceda un esercito non ha ragione d’esistere, e per la sopravvivenza dei battaglioni in marcia è indispensabile anche la retroguardia, a protezione delle spalle. Gli attardati non fanno male a nessuno, tanto meno in poesia: nel caso dei vernacolari, anzi, la fedeltà alle radici o all’ovile può rivitalizzare universi linguistici altrimenti destinati all’estinzione.
Nel mezzo, tra i due fronti estremi, avanza il grosso dei poeti, non molti dei quali, alzando lo sguardo dalle sudate carte, riescono a vedere la testa e la coda della schiera alla quale appartengono. Eppure da questo novero, da pochi tra i molti della truppa, sortiscono i risultati migliori, quelli nei quali la capacità di comunicare si aggiunge all’enunciato senza che questo perda di intensità né di originalità. Questi poeti parlano a molti o a pochi, mai soltanto a se stessi. Anche per loro, il luogo dell’incontro e del dialogo è la rivista di poesia.
E una nuova rivista nasce oggi a Napoli, e in Campania: sarà un quadrimestrale agile, che accoglierà esempi di quanto si va scrivendo in Italia e in altri Paesi, senza trascurare la buona poesia che c’è in aree e in ambienti sfavoriti dall’assenza dell’editoria maggiore, e anche di quella media. In ossequio alla migliore tradizione novecentesca, che ha visto farsi sempre più intensi il confronto e l’interferenza tra linguaggi diversi, presenteremo, inoltre, il lavoro di artisti, scelti di preferenza tra quelli impegnati nella ricerca della comune origine segnica di figure e parole, e tra quelli che hanno avvertito l’esigenza di includere la parola, se non il testo poetico, nelle immagini che producono. Nella convinzione, infine, che pensare la poesia costituisca un’attività critica ed una forma di resistenza all’insensatezza, la redazione sarà attenta alle intersezioni della poesia con le discipline scientifiche e con la filosofia, presentando, dal prossimo numero uno, contributi teorici e saggistici.
La rivista si chiama Levania in omaggio a Sergio Solmi, che così intitolò, negli anni ’50, un’esile raccolta ispirata a un librino del Seicento, il Somnium, seu Opus de astronomia lunari, opera oscuramente utopica di Johannes Kepler. Nel quale è scritto che «in aetheris profundo sita est LEVANIA insula»: si tratta della luna, eterna ispiratrice dei poeti. I suoi due emisferi sono abitati da altrettanti popoli: quello dei Subvolvi, che costantemente godono della visione della Terra: «Volva, quae est illis vice nostrae lunae»; e quello dei Privolvi, che miseramente «Volvae cospectu in Aeternum privatur».
Keplero ci racconta la visione indiretta della luce e lo struggimento della distanza astronomica dal calore della vita; e Solmi, lettore ineguagliato di Giacomo Leopardi, ne raccoglie la suggestione. Dell’autore di Levania ebbe a scrivere, nel suo I poeti del Novecento, Franco Fortini: «Il rifiuto di affrontare temi e realtà troppo laceranti lo conduce a vagheggiare alcuni vasti miti culturali dell’età contemporanea, come i voli spaziali e la fantascienza».
Solmi, dunque, non guardò la Medusa negli occhi, anche quando ebbe a scrivere, in Dal quaderno di Mario Rossetti, pagine intense sulla Resistenza. Ma in lui, poeta «del ritegno, ragionante e civile» (ancora Fortini), agirono inaspettate accensioni di pensiero avvenire, innescate dall’attitudine sperimentale che sempre sottende chi guarda alla letteratura come a un corpo vivo che si trasforma. Ecco come incredibilmente si presentano, in una pagina solmiana degli anni ’20 del Novecento, il tema dell’idios e quello delle poetiche lampo, che saranno poi nucleari – mezzo secolo dopo! – nella riflessione del nostro maggiore poeta del dopoguerra, Andrea Zanzotto: «Una certa ‹idiozia› è pur necessaria al pensiero: una lentezza maldestra, la presenza d’ostacoli che lo spirito superficiale risolve e supera in un batter d’occhio. […] Il nostro pensiero più profondo nasce a volte improvvisamente dal passivo stagnare della nostra vita, come la ninfea nel fango. Nel brulicare d’infinite
sciocchezze e vanità, nell’inconsistente polverìo che noi chiamiamo ‹vita interiore›, è a volte come un
lampo momentaneo: le parole insulse e meccaniche, le incerte visioni corporee che il flutto limoso traeva con sé s’aggrumano e s’organizzano, prendono figura: è il mistero carnale d’ogni creazione, la luce che albeggia sul caos.» (S. Solmi, Meditazioni sullo scorpione, Adelphi, Milano 1972, p. 25-26).
Per questo Levania, e per questo Solmi: partendo da Leopardi e arrivando a Zanzotto, al Pasolini (e al principe Antonio De Curtis) della Terra vista dalla luna, al Fellini pittore e al regista (entrambi stralunati), ci presentiamo oggi a lettori come noi animati dalla fiducia nell’energia vivificante e nella forza di significazione della parola poetica. Che agisce, se vale, animata da una più sottile e ricca percezione dell’esistente, frutto vivo della mente capace di modificare la struttura del pensiero, e i suoi confini. Che muovendosi lungo piani di esplorazione non orizzontali porta allo scoperto semi energetici non ancora visibili, non ancora inservibili e guasti. Che non si distrae dal riconsiderare costantemente, all’interno e al di là della propria costituzione linguistica, le ragioni stesse del proprio farsi.
Eugenio Lucrezi
Nel ringraziare Luigia per le parole beneauguranti con cui accoglie la nuova rivista, desidero precisare che l’editoriale qui oresentato – che nasce e si sviluppa, sì, attorno ad un’antica predilezione del direttore per l’autore delle MEDITAZIONI SULLO SCORPIONE – non è farina esclusiva del suo sacco; e che nel lavoro di definizione della fisionomia e dei contenuti di tale scritto si sono da subito affilate le lame, tutte individue e ciascuna a suo modo profilata, dei redattori tutti. Le riscritture della pagina sono state sette, anzi otto; e ci siamo fermati per stanchezza. L’editoriale, nel frattempo e per fortuna, si era assestato per conto suo.
Il discorso poetico, si sa,è incapace di esaurirsi: mentre è ben capace, di converso, di esaurire le forze di chi lo redige. Per non esaurire i lettori, l’editoriale del prossimo numero di LEVANIA canta su un’altra corda; ma di questo si dirà dopo l’estate.
Eugenio Lucrezi