La vostra voce, Emanuele Canzaniello

La vostra voce, Emanuele Canzaniello
a cura di Luigia Sorrentino

“Potrei parlare di un’opera o meglio di una decina di poesie che presento qui solo guardando agli intenti che ho cercato di perseguire, al gusto che ho tentato di soddisfare, agli effetti che ho provato ad ottenere o mettere a fuoco e precisare. Se dei territori della poesia, come si disse, è stato preso tutto, e di quella carne triste abbiamo già riprodotto e disegnato tutte le mappe da Walcott a Borges, ho forse provato qui a postillare qualche ultimo foglio della navigazione tropicale di quel mare di colori secondo il loro pantone pubblicitario, esplorare la nostra lussureggiante foresta visiva e digitale del mondo pop, della moda, della fotografia degli ultimi decenni. Ma questo ingresso del mercato, del fondale accelerato e ibrido in poesia, questa sartorialità del brand credo possa essere indossata con piglio e altezza mitologica, gran scioltezza di gambe e insieme rigore d’immagini, precisione di significato e forma, un certo ritorno alla clarté che s’impone secondo la naturalezza di codici condivisi, secondo il privilegio di sposare quel pantone alle sfumature d’oro di Poussin, e a tutta l’arca mirabile della civiltà europea.
Le poche poesie che raccolgo qui credo siano in qualche modo esili, a tratti volutamente frivole, vorrei poter credere che abbiano una nettezza di disegno e una certa memorabilità d’immagini, nel senso tecnico dell’esigenza in poesia di ottenere sotto le palpebre chiuse del lettore una e una sola immagine, fatta di una sintesi profumata di un paio di parole e qualche ricordo d’estate che è forse quanto di meglio si possa lasciare in retrogusto. Con questo non voglio sminuire la portata di conoscenza e direi di vera prassi di sperimentalità ontologica del reale che attribuisco alla poesia, al verbo carico di tutti i poteri delle teologie, ambirei piuttosto a una pratica delle due strade. La condanna alla leggerezza smaterializzata e post-industriale, e la fedeltà a un’idea medievale e orafa dell’artigianato di cui è fatta la poesia, che al suo meglio può prescindere dall’idea di autorialità. Ma forse in tutto questo non si tradisce altro che una debolezza ipermoderna, una barocca presunzione di gemme e massacri per fornire l’esaltante e atletica prestazione degli ultimi tre secoli, dipingere il bello dell’inferno, attenuarne o peggiorarne la mostruosità, diventandone un complice manifesto.”

Emanuele Canzaniello

 

B à H a Neuilly
.
L’errore non farà crepe
Lungo la tersa nudità della tua schiena,
Affacciata a sfioro
Su vasti quadranti di pietra.
Su planimetrie del tempo
Lungo nomi perduti di Rivoli
E battaglie, e blu antichi in divisa,
Affacciano le tue caviglie nude, le tue scarpe.
Tra azzurri interni a Villa d’Este,
E su boschi ricamati di bosso
Fuggi nell’erba, glorie di raso
Ti svestono, cadono,
Affacciando i tuoi seni al corsetto,
Lascito sontuoso di volte perdute.
Più fragile della tua fuga romana
Il punto tra le mie mani,
La stretta ferita della palma o della lancia,
Un diadema o la sua freccia.
A me la fioritura a sangue
Sulla fronte, l’errore,
Refuso roseo come un San Sebastiano.

***

Et in Arcadia ego
.
Da te che ora sei tra le mie braccia,
Amata come il lampo ama il tuono,
Mi viene l’incolpevole
Bruciore di abbagliante estate,
Il beccheggio insaziabile
Che vi accompagna
E non di molto e non solo a largo.
Il nome di quel gozzo
Tra le tue labbra mi sorprende,
Le panche e i normali assi
Sono altri, e piegati all’uso
Che assedia la mia vista.
Ricostruisco velami d’afa
E nessuna copertura dal sole,
Abbronzature fulgide
E le spalle di Alain Delon,
Omicidi hollywoodiani e ischitani.
Nient’altro che la prua
Per sostenervi piana e liscia,
Un asciugamano per versata pozione,
Limite allo sguardo,
Alla pretesa di assecondarvi
Nella spinta delle reni.
E’ piaga divertita e dolce
Saperti fuori da quel mare
Ma che anche per quel bagliore
Indicherai stupita
Il tuo
Et in Arcadia ego.

***

Titoli di testa (Title sequence)
.
Giardini di bossi
In ripida discesa
Verso acque antistanti,
Mare o lago gemmato d’isole.
Figure dell’astronomia
E di anomale ellissi
Nascoste dietro al sole.
Pianeta d’influssi e melanconie
Della carne e del compasso.
Alterazione innaturale
La cui orbita si allontana
E dopo, schianterà la terra.
Morbosità siderale,
E tarsia di san Girolamo
Nello studio dei leoni.
L’avvelenamento vi appartiene
In duplice calco,
Cromatismo abnorme
E kitsch più sovraesposto.

.
Una melodia insaziabile
Esplode sferica o ci attende
In notturni esterni.
Rallentata, condensa
L’impasto di oscure dorature,
Nevi al ritorno dei cacciatori bruciano
La patina del mondo
Che ambisce all’incisione,
Alla mano di Rosso Fiorentino,
Al seno di Diana
Immersa in lavatoi pubblici
E vitrei vapori opalescenti.
Affogati i corpi nei suoi neri olandesi,
La visione si rapprende
Dentro lenti smerigliate.

***

Il sogno
.
Per nulla che tu sia in grado d’essere
Ho sottratto alla ragione vigile
Il piacere confessato all’alba.
Per niente meno che te
Ho dato vita e corpo al felice sogno,
L’ho portato a fondo
Dove tu non hai compimento.
Bastano pensieri di te
Per fare dei piaceri verità
Più veri del tuo rifiuto d’essere.
Un vicolo è bastato
E un viso d’uomo
Che suggerisse la sua mano esperta;
Non mi è servito vederlo
Mentre masturbava il ragazzino,
Ero già venuta.

*** 

1945
.
Sono la Germania dopo la marea dello sterminio,
La mia colpa non la misurano i cieli incendiati
Del tramonto.
Le radici ritorte dell’essere
Non mi hanno strangolato,
Le macerie oscene non t’hanno cancellata.
Ogni colpa è dunque vana più del suo oblio.
Eppure siamo ancora ben rasati,
Occhi di ghiacciai, capelli biondi
L’uniforme impeccabile,
Cosce incredibilmente lunghe e muscolose.
Vorrei essere una donna per lanciarvi fiori.

 *** 

Controriforma
.
Distesa tra note di guanciali
Ti contornano parate di florealità ritorte,
Nastri rosa sacri a fughe
Regali nella morte.
La tua mano smuove fumo,
Una santa d’Avila con sigaretta
E polso plastico,
Il tuo deliquio ha gusto fotografico.
Ma non c’è estasi barocca
Che la tua bocca non mi schiuda
Più affilata e affine.
Merita inni e altari,
Quel salto del mondo
Che si slancia e inizia
Dai tuoi fianchi e sfavilla
Fin nelle pieghe del panneggio.

***

Caino
.
Lontano da quel suolo ho costruito città,
Sotto tutti i cieli e su vaste arcate
Ho aperto luce e templi circolari.
Chiunque ha potuto incontrarmi, lontano da te.
Da quel sangue ho fatto la pietra di Nod,
Ornamento dei cherubini ad oriente.
Tutti i tuoi impasti a sfondi d’oro
Li ha generati questa mano.
In una prigione di Malta
Ho visto smaltata in rosso la mia vita
A terra decapitata,
Io che giustiziai quel condannato.

***

Non ti fece il Carracci
Ma un mattino di turchesi smalti.
Nessun roseo bivio erculeo più
Ti offre la pietra su cui posare.
Non ti fece il Carracci,
Il tuo incarnato stinge
Nella policroma fragranza vogue.
Vederti così, nello smalto del mattino,
La spiaggia ti cede il sonno dell’alba.
Nessuno splendore minerale
Né l’aerea Santa Sofia d’ombra e oro
Oscurano l’intatta luce del tuo corpo.

***

F. F.
.
Ho vissuto simile ai Nazarin
Sino ad ora, fino al deserto
Che ha fine nel mare.
Come lama la parola
E’ stata forgiata in me
Dal sole, sotto di esso
E’ stata bagnata a tempra.
Ora penso alla Pietragrua,
Attesa, inseguita per undici anni
E avuta per un giorno solo di settembre.
Datemi tutte le follie possibili della vita.
***

La Valle dell’Eden
.
Tu eri ad Occidente del Paradiso
Lungo le chiuse acque di Nisida.
Come nominarti boxeur dodicenne,
Viso devastato da un barile di benzina
O raggiante da Coroglio in discesa
Su tavole lavorate a mano, senza freni.
Cioccolata americana esfoliava il viso ricostruito,
J. Dean non inebetiva il tuo passo.
Sfogliami, la branda militare ti donava,
A dorso nudo mi guardi rilassato.
Qual era il suono del cielo sul mare
La mattina di bombardamenti e oro
Che raccogliesti pezzi d’uomo brillato via.
Sugli alberi le dita, non la mano intera.
Nemmeno te ne accorgesti.
Tu eri ad Occidente nel Paradiso,
Io non sono rimasto.

***

Carlos Monzón
.
Mi son piaciuti il bianco e quel nero,
Lucido mantello di smalto sulla tua carne,
Foto splendida di Helmut.
Mi è piaciuto volar giù dall’albergo di Mar del Plata
Insieme alla mia donna, dopo averla strangolata
E ancora una volta non morire.
Mi è piaciuto il ring blu su cui non salivo,
La palestra che mi fa vivere.
Mi è piaciuto il caffè, il suo odore,
Le mappe incise nel colore del rame.
Questo è piaciuto a lui e a tanti altri.
Mi è piaciuto farmi meraviglia
Davanti all’arduo firmamento
Fatto a morsi e sfinimenti,
Per averlo un solo istante
Smaltato in parole dure
O in bell’ordine dipinto.

— 

Autobiografia di Emanuele Canzaniello
Sono nato a Napoli, ho ventotto anni, una laurea in letteratura comparata alla Federico II di Napoli, e sto per conseguire un dottorato di ricerca con interesse particolare per la letteratura francese del Novecento, all’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”.
Nel 2012 ho partecipato nella sezione di poesia all’edizione Subway 2012 risultando finalista.
Figlio di genitori anziani, sono il frutto tardivo di belle ginocchia sbucciate e abbronzate sulle scogliere intorno a Nisida, durante i bombardamenti anni ’40. Da una tradizione familiare di lavoro in fabbrica e fierezze sportive, ho tratto un’ostinata refrattarietà al lavoro nutrita di malattia romantica, tale da potermi ripetere – ma senza la sua stessa serena coscienza – le parole di Nabokov: “Non ho mai lavorato in un ufficio o in una miniera di carbone. Non ho mai fatto parte di circoli o associazioni”. La letteratura, va da sé, è servita e serve a curare le ferite che apriva, a nutrire avvelenamenti e divorzi da ogni socialità, pur corteggiata già nel liceo storico della città, con preveggente e proustiano snobismo. Questa piccola mostruosità potrebbe continuare dando conto di sensi di colpa inesplorati e palesi, di un ateismo fermo e svogliato con nostalgie di culto e una fertile reattività per ogni elemento religioso. Potrebbe continuare per sfruttare l’occasione impagabile di fare i nomi del proprio pantheon letterario, dagli iniziali rapimenti per Baudelaire e Nietzsche, agli entusiasmi stendhaliani cui devo la mia prima dichiarazione d’amore resa, a Flaubert cui devo l’amicizia, a Borges cui rimetto e sottraggo la poesia. Fino alle scoperte recenti, Walter Siti e Francesco Orlando romanziere.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *