Saggio poetico-musicale nei Lieder di Mahler

I Lieder eines fahrenden Gesellen: un viaggio poetico-musicale nel passaggio fra due civiltà

di Giorgio Galli

Thomas Mann disse che il Lied è “l’anima del popolo tedesco”. Non aveva torto: il Lied (letteralmente canto, canzone) ha attraversato la storia tedesca come un fiume carsico, dall’epoca carolingia fino all’epoca dei Maestri cantori di Norimberga (che non sono solo personaggi di un’opera di Wagner, ma figure storiche di artigiani-cantastorie del Rinascimento), ha cominciato a prendere una forma più moderna nel Barocco, ma è solo col Romanticismo che è entrato nell’età del suo splendore. Mozart e Beethoven hanno scritto dei Lieder (plurale di Lied), ma è con Schubert che il Lied è entrato veramente nell’ “anima del popolo tedesco”.

Fu Schubert a scrivere i primi grandi cicli di Lieder, uniti da un’atmosfera o da un tema comune: e si trattò quasi sempre d’un’atmosfera scura, invernale: il suo ciclo di Lieder più famoso s’intitola infatti Winterreise, viaggio d’inverno. Schubert attinse i testi alla grande letteratura tedesca -a Goethe, a Grillparzer- ma per la musica seguì e perfezionò la tradizione del suo tempo, che voleva il Lied fortemente ispirato al canto popolare: al quale aggiunse un suo tocco personalissimo, fatto di estrema vitalità e di estrema malinconia. Schubert morì giovane, aveva appena trentuno anni. E tutta la sua musica ha il marchio e il fascino di questo insanabile dissidio. Il dolore vi è amplificato perché impera su un animo giovane, fresco, ancora stupendo di vita… Schubert era giovane, e pieno di sogni: ed anche nel fondo più cupo dell’inverno cercava la fiammella che riluceva a una finestra, e se ne lasciava incantare. Ma intanto l’inverno avanzava, e gl’invadeva l’anima; e in questa lotta fra lo straripare della gioventù e la spietatezza dell’inverno sta l’origine del fascino asciutto e tragico, elementare, della sua musica.
Sconosciuto in vita, Schubert fece scuola dopo la sua morte. Nessun liederista venuto dopo di lui ha potuto evitare il confronto. I Lieder di Schumann approfondiscono il discorso schubertiano in un senso ancora più intimistico; quelli di Hugo Wolf inaugurano una mniera meno intimista, che trasforma il Lied in un’opera teatrale in miniatura. In pieno Novecento, a scrivere Lieder erano rimasti il tardoromantico Richard Strauss, e i dodecafonici ed espressionisti Alban Berg e Anton von Webern. Come si vede, il Lied ha attraversato veramente la storia della cultura tedesca: dico della cutlura e non solo della musica perché, come i compositori hanno attinto alla grande poesia nei loro Lieder, così i poeti sono stati influenzati dall’atmosfera e dalle forme del Lied.
I Lieder di Gustav Mahler rappresentano un capitolo a parte. La maggioranza di essi fu scritta non su testi della “nobile” tradizione poetica, ma venne ricavata -con adattamenti ad opera dello stesso Mahler- da una raccolta di canti popolari: Il corno meraviglioso del fanciullo, di Arnim e Brentano. Come fecero i Grimm, come fece da noi Calvino, Arnim e Brentano raccolsero tutta una tradizione orale, nata fra il Seicento e l’Ottocento, e la fissarono nell’eternità del libro. Mahler trascelse dalla raccolta i canti più grotteschi o infantilmente assurdi, i più surreali, innocenti e spaventosi. Scelse purissime preghiere e storie terrificanti di poveri soldati mandati a morte perché s’erano distratti ascoltando un corno alpino, di innamorati divisi perché lui è chiamato alla guerra, storie agghiaccianti di soldati che continuano anche dopo morti ad uccidere… Ma c’è anche posto, nella sua musica, per fantasie tristemente sorridenti, dove i santi e i beati in Paradiso fanno bisboccia. Ovunque, pietrificata in immagini spaventose o esorcizzata da toni finti lieti, c’è la presenza della morte.
Chi era Mahler? Era nato in un villaggio in Boemia, nel 1860. Ebreo, di famiglia povera e con un padre molto violento, aveva visto morire otto dei suoi fratelli. Da bambino, con l’aiuto della musica, riusciva a rifugiarsi in un mondo tutto suo. Da adulto, fece della musica la ragione della sua vita e della sua scalata al potere: a quarant’anni, era il più famoso direttore d’orchestra del mondo, plenipotenziario dell’Opera di Stato di Vienna. Ma -ma- prima di prendere l’incarico s’era battezzato cattolico. Gesto di convenienza? Sincera conversione? Oppure tentativo, da parte di lui sradicato, di conquistare anche in questo le forme di una cultura alla quale si sentiva irrimediabilmente straniero?
Anche la sua musica fu musica “straniera”: troppo moderna per i tradizionalisti, troppo radicata nel passato per gl’innovatori. Osannato comedirettore, Mahler fu veramente riscoperto come compositore solo cinquant’anni dopo la sua morte. Disperata, ironica, eccessiva, iper-romantica ma pre-espressionista, espressione d’un vitalismo panteista ma sovrastata dalla presenza minacciosa della morte, intellettualistica fino al citazionismo ma con continui rigurgiti del canto popolare, teatralmente esibizionista ma punteggiata dai più struggenti ripiegamenti interiori della storia della musica occidentale: questa fu la musica di Mahler. Negli ultimi anni, abbandonò la poesia popolare per attingere i testi dei suoi canti a una tradizione più colta, ma anche in questo non smise di sorprendere: la sua ultima raccolta di Lieder, Il canto della terra, si basa su poesie cinesi dell’epoca T’ang.
I Lieder eines fahrenden Gesellen (Canti di un uomo in cammino) di cui qui ci occupiamo, si collocano in una sorta di “terra di mezzo” del percorso espressivo di Mahler. Composti nel 1984-85, da un Mahler di circa 25 anni, non attingono alla tradizione alta e nemmeno al Corno meraviglioso del fanciullo, che Mahler all’epoca non conosceva. Autore dei testi fu lo stesso compositore: che non era, evidentemente, un letterato, e che per qualche anno preferì far credere di aver musicato “testi della tradizione popolare” piuttosto che attribuirsi la paternità di quelle liriche goffe, ingenue, piene di punti esclamativi. Eppure, vale la pena di soffermarcisi, su quelle liriche.
Il legame con la tradizione popolare non è peregrino. Ma quello ch’è più interessante è la qualità di questo legame. Leggiamo, in una mia traduzione, il primo Lied:

Quando il mio amore andrà a nozze,
a nozze felici,
avrò il mio giorno triste!
Mi chiuderò nella mia cameretta,
buia cameretta,
e resterò lì a piangere per il mio tesoro!
Fiorellino azzurro! Non appassire!
Dolce uccellino! Tu canti sulla verde brughiera:
“Ah com’è bello il mondo! Cip!”

Non fiorite fiori! Non cantate uccelli!
 

La primavera è fuggita lontana.
Tutti i canti ormai sono muti.
La sera, quando vado a dormire,
penso al mio dolore.

Il sapore popolaresco è palese. E’ palese che non c’è la mano di un letterato. Ma la lirica riecheggia quasi parola per parola due canti popolari raccolti nel Corno meraviglioso del fanciullo. Ecco il primo:

Quando il mio tesoro andrà a nozze
passerò una giornata molto triste,
andrò nella mia cameretta
e mi metterò a piangere, pensando al mio tesoro.

E il secondo:

Non appassire, caro fiore azzurro
che spunti dal verde del prato.
La sera, quando vado a dormire
penso al mio amore.

L’originale è più asciutto, ha un tono più arcaizzante. Ed è meno intenso. Non è solo per esigenze musicali che Mahler lo ha adattato: le strofe originarie erano veramente troppo arcaiche per esprimere un dolore arcaico. In arte, la finzione paga. Mahler ha dovuto renderle più disperate, ha dovuto introdurvi del sentimentalismo -e non ha avuto paura di farlo, ma ha avuto paura poi di assumersene la responsabilità, cioè la paternità del testo.
Ma c’è un’altra ragione per cui Mahler lavora in questo modo: egli non appartiene alla tradizione culturale di questi versi. E’ ebreo, è boemo. E’ un uomo senza radici, e lo sa. Dice di se stesso: “Sono tre volte apolide: come boemo in austria, come austriaco in Germania, come ebreo nel mondo”. Mahler più tardi si convertirà al cattolicesimo, s’impadronirà della cultura tedesca, arriverà ad occupare posti di potere nel mondo culturale tedesco -diventerà direttore dell’Opera di Stato di Vienna, temutissimo, rispettato e odiato per il suo carattere autoritario. Ma nell’intimo resterà un apolide. Per tutta la vita cercherà una cultura in cui identificarsi, e non ci riuscirà. Ha troppa ansia di appartenere a qualcosa per poterle veramente appartenere. Mahler commette l’errore di molti uomini, che rovesciano il bisogno d’appartenere nel bisogno di possedere. L’unico modo che ha di appropriarsi di una cultura è deformarla, sfigurarla, farne la parodia: come certi serial killer che assumono di volta in volta le fattezze della loro vittima. E’ un uomo senza identità, un uomo senza volto. E l’uomo senza volto è pericoloso.
Per fortuna, il nostro uomo non sfigurò altro che la musica: e diede vita a una musica intensa, tenera, artificiosissima e allucinata. Ma in questi Lieder giovanili possiamo già vedere Mahler -che non è ancora diventato Mahler- compiere la sua opera di deformazione. Se ricongiungiamo i versi alla loro musica, l’operazione di straniamento culturale appare ancora più riuscita.
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[youtube]http://www.youtube.com/watch?v=tohzs3vsCKs[/youtube]
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Il Lied è eseguito da Dietrich Fischer-Dieskau accompagnato dalla Philarmonia Orchestra diretta da Wilhelm Furtwaengler

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Il Lied si apre con una sorta di ventata strumentale, un melisma che vagamente arieggia a una melodia klezmer: e su quel melisma Mahler costruisce tutta la prima parte. Poi, dopo una breve parentesi sognante, simile a una barcarola, abbiamo il momento più intenso. Mahler ci vuole dire che una delusione d’amore ha, per chi la vive, i caratteri d’un disastro epocale. Che il paesaggio resta bombardato. E questo clima di catastrofe cosmica s’addensa nei semplici, nudi, dimessi versi “Singet nicht, bluhet nicht / Lenz ist ja vorbei” (“Non cantate uccelli, non fiorite fiori / la primavera è fuggita lontana”) e nella loro semplice, dimessa e nuda musica. Non credo di sbagliarmi se dico che versi più colti non avrebbero espresso meglio questa primordiale tragedia.

Ma c’è un’altra primordiale tragedia adombrata in questi Lieder, un vero dramma epocale: la fine della civiltà primitiva, in cui l’uomo viveva in armonia colla natura: il distacco dell’uomo dalla natura. Col secondo Lied cominciamo ad assistere a questo distacco. Il povero contadino (ché tale è lecito considerarlo) abbandonato dall’amata inizia a vivere un’esperienza nuova: se prima egli era parte della natura, ora egli si sente un’altra cosa:

Questa mattina andavo per i prati,
la rugiada era stesa sull’erba,
e il gaio fringuello mi disse:
“Ehi, tu! Buongiorno! Ehi, tu!
E’ bello il mondo, eh? Cip, cip!
E’ bello e vivo!
Ma come mi piace il mondo!”
Anche la campanula sui campi,
gaia e di buon umore,
tintinnando le sue campanelle, dindin, dindin,
mi ha dato il saluto mattutino:
“Non è questo un bel mondo?
Dindin! Che meraviglia!
Ma come mi piace il mondo. Hurrah!”
E poi alla luce del sole
il mondo iniziò a scintillare,
tutto prese suono e colore
alla luce del sole!
Fiori e uccelli, piccoli e grandi,
“Buongiorno! Non è un mondo bello?
Ehi, tu!, non è un mondo bello?”
Comincerà anche per me
la bella stagione?
No! No!
Per me, credo,
non fiorirà più.

L’animo del pover’uomo non è completamente sordo. Questa poesia, come la precedente, ha una sua forza, trasmette una gioia di vivere autentica, che passa di fiore in fiore, di animale in animale. La musica mahleriana qui è come una marcetta, ma più dolce, e si trasforma presto in un fluire che, senza perdere il ritmo, ricrea questo passaggio della gioia di voce in voce. Il contadino la avverte, quella gioia, ma non riesce più a parteciparvi. Il processo dell’incivilimento inizia quando l’essere umano prende coscienza di non appartenere più alla natura. Ed anche la musica si ferma: ha una stasi, uno di quei momenti che dai critici mahleriani sono stati chiamati “crisi”. La conclusione è una tetra e dignitosa nenia funebre. Da notare una piccola finezza letteraria: il verso “No! No!”, con i suoi punti esclamativi, ci riconduce, dopo la pausa della passeggiata per i campi, ai toni del primo Lied.

Il terzo Lied è ancora più “umano”: la natura non vi è quasi adombrata. Non vi è nessun elemento della realtà: il contadino è solo con le sue ossessioni. Non esistono oggetti del mondo se non evocati dalla sua memoria in subbuglio. Non sappiamo nemmeno dove sia: questo Lied è infuocato, ma astratto, è pura lotta interiore, pura psicologia. E’ nata l’interiorità divisa, lo scavo dentro di sé. Qui i versi sono decisamente inferiori, attingono alla tradizione del melodramma e in italiano diventano ancora più ridicoli:

Ho un coltello rovente nel petto.
Ahimé, fa male! Incide in profondo
ogni gioia, ogni piacere,
incide in profondo, in profondo!
Oddio, che ospite crudele!
Che mai si calma,
che mai trova pace,
né giorno né notte,
neanche nel sonno!
Ahimé! Ahimé!
Quando alzo lo sguardo verso il cielo,
vi scorgo due occhi azzurri!
Ahimé! Ahimé!
Quando vado nei campi dorati,
vedo di lontano i capelli biondi
che ondeggiano nel vento.
Ahimé! Ahimé!
Quando mi sveglio di colpo dai miei sogni
e sento il suo riso argentino,
ahimé!, ahimé!,
vorrei giacermi nella bara oscura,
e non aprir gli occhi mai più!

 

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[youtube]http://www.youtube.com/watch?v=CZf4rt1d8Dg&feature=youtu.be[/youtube]
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Questo Lied ci interessa solo perché è “di passaggio” verso il quarto: l’ultimo, il più importante. La musica è molto migliore dei versi: dopo un attacco così violento che quasi sbalza l’ascoltatore dalla sedia, c’è una zona centrale marcatamente onirica, fatta di poche note mesmericamente ripetute, come nell’ossessione, nella pazzia.

L’ultimo dei Lieder eines fahrenden Gesellen adombra il distacco definitivo fra essere umano e natura, l’uscita dal mondo risonante del panteismo e l’entrata, timida, nel mondo della consapevolezza e della ragione. In anticipo rispetto alla moderna antropologia, Mahler pone questo evento all’epoca del passaggio dalla civiltà contadina alla fondazione delle prime città.
Il contadino abbandona il suo villaggio natale perché dappertutto lo perseguitano gli occhi della sua amata, che l’ha lasciato e s’è sposata con un altro. E’ come se non abbandonasse il suo villaggio per scelta: come se non potesse fare altro, come se lo dovesse fare:

I due occhi azzurri del mio tesoro
che mi hanno spedito per il vasto mondo.
Per colpa loro ho dovuto dire addio
a quel posto, amato più d’ogni altro.
O occhi azzurri, perché mi avete guardato?
Ora avrò sempre dolore e vergogna.

Lascia la sua casa in una solitudine e in un silenzio primordiali, e si mette in cammino:

Sono partito nella notte silenziosa,
nella notte silenziosa, attraverso la scura brughiera.
Nessuno mi ha detto addio, addio, addio.
Miei compagni l’amore e il dolore.

Poi, come un’immagine fiabesca o una visione :

Sulla strada c’è un albero di tiglio:
là per la prima volta ho riposato.
E sotto quell’albero di tiglio
che nevicava i suoi fiori su di me……

sotto quell’albero, per il povero viaggiatore, tutto ritorna di nuovo buono, anche “l’amore e il dolore, e il mondo e il sogno”. Ascoltiamo il Lied per cogliere veramente appieno questo passaggio, uno dei più commoventi della creazione mahleriana.

[ http://youtu.be/XZ_IAHqbb1E ]Tutto è tornato buono. Ma per quanto durerà quest’illusione? La pace ritrovata è una pace ancora piena d’amarezza. Tutto è buono, ma in quel tutto ci sono ancora “l’amore e il dolore”, e il contrasto fra il mondo com’è e come si sogna che dovrebbe essere. Ogni superamento, in realtà, non è una liberazione: non ci si libera nemmeno di un minuto del proprio passato, semmai lo si ingloba, lo si trascende in un’esperienza nuova. Chi è il viaggiatore? Non ha identità. Può essere ognuno di noi. Che sia un contadino lo capiamo non solo dagli ambienti che descrive, ma soprattutto da come si esprime, per esclamazioni, affastellando un’affermazione dietro l’altra, senza uno stile. Ma proprio da quel modo meccanico, goffo, ridicolo di esprimersi, nasce un’acre poesia: una poesia di cui godono solo gli altri: lui, dentro di sé, resta meccanico, goffo e ridicolo. Il mondo ha perso ogni fascino ai suoi occhi. Al massimo, gli può dare qualche lieve consolazione passeggera, simile al sollievo che il talco mentolato dà a chi ha la varicella. Il fascino dei suoi versi è tutto in noi, in noi che abbiamo perso il contatto con la campagna, con la natura, con quel modo ancestrale di sentire e di esprimersi. Ma per lui, ch’è immerso in quel mondo, non c’è proprio niente di bello. Lui agisce macchinalmente. Noi capiamo che lui ha un destino, che gli occhi azzurri della sua amata lo hanno determinato, nel momento in cui gli hanno fissato addosso il loro sguardo. Lui non lo sa: lui fa soltanto. E’ del tutto inconsapevole del fascino romantico che la sua storia esercita su di noi.
Non sappiamo se Mahler ha mai pensato a tutto questo: in fondo, tutta la sua musica è un canto dell’innaturalità, della perdita di contatto col reale. Non sappiamo se s’è mai reso conto che il silenzio in cui il viandante lascia la sua casa è un silenzio che a noi risulta innaturale, cosmico, ma che in realtà è naturalissimo, e al contadino doveva essere ben noto. Non sappiamo se ha pensato che, oltre ad “amore e dolore”, compagna del viandante, in quella sua solitudine, era anche la natura: una natura indifferente, ma nella quale lui era integrato. Si può dire che il viandante, nella sua ingenuità, faceva addirittura parte della natura. L’amore non ricambiato è la prima cosa che, forse, lo ha fatto rendere conto di essere un uomo. Confusamente, il povero contadino ha vissuto su di sé, senza saperlo dire che a smozzichi di frase, il divorzio dell’uomo dalla natura. E’ singolare che questi Lieder segnino proprio il passaggio, per Mahler, dal periodo delle composizioni giovanili all’età matura. Dopo di essi egli partirà per la grande avventura delle sue dieci Sinfonie. E’ altrettanto singolare ciò che la biografia racconta: che Mahler compose questi Lied dopo una delusione d’amore: dunque identificandosi nel contadino, che per amore ha perso l’innocenza ed è entrato nella maturità. L’autunno dà i frutti migliori, ma ha colori più caldi e più scuri. La giovinezza è dolce ma acerba.
Mahler rimpiangerà per tutta la vita l’acerbità della giovinezza. La sua musica fu il sogno impossibile di farla durare in eterno. Il movimento iniziale della sua Prima sinfonia aveva un sottotitolo: Primavera senza fine. V’è in Mahler c’è una costante aspirazione alla purezza; un costante rammemorare un qualcosa che non c’è più, una felicità perduta nel cui ricordo s’insinua il dubbio che non sia mai stata realmente felice; la memoria si cristallizza e diventa atemporale, e la cosa rammemorata appartiene ad una dimensione ch’è sia di passato rimpianto che di futuro verso cui ci si protende come verso un avvenire. Cantore d’addii, Mahler lo era del resto per natura: era venuto da lontano, per incontrare una cultura -quella austroungarica- non nel momento della sua gloria, ma in quello della sua decadenza, a un asso dalla Prima guerra mondiale. Il suo senso d’alienazione è senso della fine non di un mondo, anzi di due mondi, entrambi da lui amati: quello popolare della Boemia da cui veniva, e quello colto della Vienna di Schubert e Brahms, prima che su di lei si abbattesse la decadenza.

2 pensieri su “Saggio poetico-musicale nei Lieder di Mahler

  1. Ho continuato a leggere lo scritto perche’ mi e’ piaciuta l’immagine del fiume carsico… poi le cose si confondono… appartenenza e identita’.
    L’appartenenza e’ un desiderio che tutte le persone pensanti provano, quelle che viaggiano e quelle che rimangono sempre nello stesso posto lo provano con uguale intensita’. A volte il desiderio diventa una pena …che non e’ certo legato a una diversita’ di razza.
    L’identita’ e’ un’artificio che gli emigranti conoscono per esperienza personale. Le persone che sono sempre vissute in Italia non possono capire l’angoscia ed il sacrificio che il perdere l’artificio implica.
    Pensi alla canzone “O Sole Mio!” scritta da un soldato italiano in Crimea e conosciuta nel mondo piu’ che il nostro inno nazionale. Il sole e’ l’appartenenza in cui il soldato si e’ ritrovato in un mondo di guerra. L’appartenenza implica sempre un “luogo” di conforto che certi non riescono mai a trovare.

    Lei non deve essere cosi’ severo con Mahler.

    Molte delle mie poesie della raccolta “Sulla terra tocco il cielo” sono state messe in musica e cantate qui in America nella tradizione dei lieder da Greg Zavracky, un giovane compositore e tenore americano la cui nonna era italiana, anche lui ha trovato un’ispirazione nel ricordo della nonna e della lingua da lei parlata.

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