Giancarlo Pontiggia, “Lo stadio di Nemea”

Nello scaffale
 a cura di Luigia Sorrentino

“Lo stadio di Nemea” Discorsi sulla poesia, di Giancarlo Pontiggia, Moretti e Vitali Edizioni

La mia poesia in due parole
(State University of New York, 11 aprile 2008)

La storia della mia poesia potrebbe essere riassunta così: sono nato nel 1952, ho esordito nel 1977, ma ho pubblicato il mio primo vero libro solo nel 1998. Insomma, è come se avessi esordito due volte. La prima volta, al tempo della rivista milanese «Niebo» e dell’antologia poetica La parola innamorata, fui come ipnotizzato dalla strabiliante ricchezza dei linguaggi contemporanei, dal loro caos avventuroso e colorato: ma non ci misi molto a capire che quelle poesie potevano piacere solo al mio tempo, non a me; che erano state scritte con la lingua, troppo facile, di un’epoca, e che – in ogni caso – non mi appartenevano. Allontanarle da me, prima che cadessi nella tentazione di

farne un vero libro e di cristallizzarle in un’esperienza definitiva, significò poter ripensare la poesia in una dimensione più limpida e misurata, più severa e appartata: non sapevo ancora cosa volevo, ma sapevo ciò che non volevo più. Il ritorno ai classici latini e greci, letti appassionatamente durante l’adolescenza, e poi abbandonati all’Università, mi svelò la vastità e la profondità di un pensiero poetico nato alla confluenza tra ispirazione e disciplina, natura e storia, memoria letteraria e tempo presente. Amavo, ed amo, i libri architettonici, strutturati e ventosi, dove ogni parola si potenzi nelle altre, liberando la forza archetipica dei nostri sogni e dei nostri pensieri. Diffidavo delle parole che suonano troppo, ma anche di quelle che non suonano, così come diffidavo, in genere, delle parole astratte, non nutrite di materia e di vita, di quella sovrana forza sensibile e naturale che viene dall’esperienza delle cose del mondo. Passando gli anni, posso solo aggiungere di credere sempre meno nel potere delle poetiche e sempre di più nella qualità sostanziale della poesia, che mi appare – al suo meglio – come una prodigiosa sintesi di immaginazione, pensiero e suono. Ho scritto, per ora, due libri di poesia – Con parole remote, pubblicato nel 1998; Bosco del tempo, pubblicato nel 2005 -, che costituiscono come una sorta di dittico. Nel primo pongo i confini del poetico, rifacendomi alle esperienze più arcaiche, quelle degli antichi auguria e delle antiche «evocazioni», ma in un linguaggio liquido e onirico di sostanza tutta novecentesca. Nel secondo mi avventuro nel bosco del tempo: diseguale e irriducibile; misterioso, labirintico garbuglio di illuminazioni private e pubbliche, di smarrimenti, di felicità, di luoghi mitici e assolati che si alternano a paurose lande ghiacciate. Quasi un’allegoria, insomma, del nostro tempo umano. In ogni caso, credo che ai poeti si debba chiedere, come sempre, di dire qualcosa che ci riguardi in profondità: parole forti e generose, risolute e chiare, anche quando affondino nella fragilità opaca del vivere, nel buio irriducibile delle nostre più segrete pulsioni.

Camminavo, come sempre
(Milano, Via del Conservatorio, 31 gennaio 2006)

Camminavo, come sempre, lungo le vie che portano alla Basilica di Santa Maria della Passione. Come sempre, intendo dire, ogni volta che mi capita di recarmi, per ragioni di studio, in Sormani. Era uno di quei pomeriggi di gennaio, appena dopo la grande neve di quest’anno, freddi e scuri, quando le ombre calano improvvise sulle case, e sembrano depositarsi tra i coppi – che ancora qui sfolgorano alla luce obliqua d’inverno – e gli strombi delle finestre, come una vasta tela persa, sfrangiata sugli orli da nuvole più lattee, lievi. Risalivo, lentamente, l’antico Stradone della Passione, ormai prossimo alla facciata, quando una corona di note s’infilò, trasversalmente, all’incrocio della piazza, digradando giù da una finestra appena illuminata del Conservatorio. Senza fermarmi, ma rallentando il passo, mi feci portare, come già altre volte, da quell’onda di oboe, forse, dai suoni infiniti e tubati, che paiono risvegliare in noi il sentimento di qualcosa di trascorso, e che non potrà più tornare. Fu allora, in quel preciso momento, che mi parve di comprendere, all’improvviso, il segreto di certe meravigliose pagine di Nerval che avevo, adolescente, letto nei gialli volumi di Garnier: e non parlo solo delle sue Promenades (promenades, non a caso, sprofondanti in vertiginosi souvenirs), ma anche di Sylvie, con quel suo scivolare onirico in stanze sempre più profonde e celate della memoria. In Nerval, come in Proust, ma ad uno stato forse ancora più puro, più densamente lirico, non sentiamo forse di abitare non un luogo ma la sua calda e perduta sostanza originaria? Strano come poi, entrando, quasi come attratto ipnoticamente, nella chiesa così vasta, eppure così intima, di Santa Maria della Passione, sentissi all’improvviso, dinanzi alla tela del San Carlo di Daniele Crespi, che non so quante volte, nella mia vita, avrò contemplata, come non esistano solo i luoghi dell’anima, ma anche i libri dell’anima, e come, insomma, non ci siano luoghi più profondi di certi libri pensosi e malinconici quali i Ricordi dettati a se stesso – in una lontana tenda militare – da Marco Aurelio, o le pagine assolute e meditative di Mario l’epicureo.

Non lo senti anche tu, lettore,
ogni volta che stai per varcare la soglia di un libro

vero

come un richiamo – arduo, umile, severo –
alla vita, al tempo, alle sue stanze

più remote?

Giancarlo Pontiggia, milanese, ha pubblicato due raccolte poetiche (Con parole remote, Guanda 1998; Bosco del tempo, Guanda 2005), due volumi di saggi (Contro il Romanticismo. Esercizi di resistenza e di passione, Medusa 2002; Selve letterarie, Moretti & Vitali 2006) e un testo teatrale (Stazioni, Nuova Editrice Magenta 2010). Traduce dal francese (Sade, Céline, Mallarmé, Valéry, Supervielle, Bonnefoy) e dalle lingue classiche (Pindaro, Sallustio, Rutilio Namaziano, Disticha Catonis).

2 pensieri su “Giancarlo Pontiggia, “Lo stadio di Nemea”

  1. Non so perche’molti scrittori e lettori si meraviglino che altri siano capaci e siano stati capaci di pensare e scrivere. Nessuno si meraviglia del fatto che Marco Aurelio fosse capace di camminare, ma tanti si meravigliano del fatto che fosse capace di scrivere, di sentire, di pensare come noi oggi. Il futuro ha portato tante tenebre e tanti uomini del passato ci sono vicini piu’ che un contemporaneo. Poi il mondo dei sentimenti non conosce il tempo.

  2. Mi sono imbattuta in questa pagina svolgendo una ricerca di tutt’altro genere. Avevo letto ‘Con parole remote’, quando uscì, trovandolo così bello da apparirmi prezioso, ma non ho mai letto Bosco del tempo. Rimedierò presto a questa mancanza (in tutti i sensi del termine). Anch’io ho amato tanto Nerval, e in particolare proprio Sylvie. Il senso dell’abitare: Pontiggia riesce a dirci, con poche, evocative parole, proprio quello che pensiamo, come se ci leggesse dentro e traducesse per noi il nostro sentire. Non si può leggerlo che con gratitudine.

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