Fabio Franzin, “Fabrica e altre poesie”

Letture
a cura di Luigia Sorrentino

dalla Prefazione di Giuliano Ladolfi

La solitudine del “cittadino globale”
Dove cercare la vita all’interno della poesia italiana, dove trovare la realtà che stiamo vivendo senza cadere nella cronaca? Tra accademia e conventicole editoriali, tra promozioni e antologie, tra consacrazioni e icone massmediatiche? Il panorama non è certo incoraggiante. Nel frattempo la società cambia completamente aspetto: è finita un’epoca e se ne apre un’altra. Il “villaggio globale” non è un’utopia, è una rete collegata da internet, tv satellitare, cellulari e disastri economici. Popoli interi si disperdono, la tradizione corre il pericolo di essere annullata, si affacciano alla “civiltà dei consumi” nazioni prima sottosviluppate. E si continua a scrivere come se il mondo si fosse fermato all’età romantica.


Per fortuna ci sono alcuni autori (pochi in verità) che hanno raggiunto salda la consapevolezza della condizione attuale, quella, per usare la definizione del sociologo Zigmunt Bauman, della “solitudine del cittadino globale”, vittima degli effetti deleteri di una cultura “emporiocentrica”, che ha posto il denaro e la finanza come unico obiettivo, travolgendo l’individuo e la tradizione umanistica.
(…)

Nella raccolta che qui si presenta, composta per una buona metà di inediti, Fabio Franzin riordina, anche cronologicamente, il suo dire civile, che percorre la storia di un territorio, dagli ultimi echi della civiltà contadina, agli spasmi di quella industriale. E nel farlo, conferma, se mai ce ne fosse stato bisogno, di essere un poeta che sa “narrare” l’uomo inerme nel sisma della crisi.
(…)

Nella prima significativa raccolta Fabrica (Borgomanero, Atelier, 2009) Franzin affronta di petto la condizione operaia e la trasformazione antropologica che stava avvenendo nel Nord-Est dell’Italia a causa di un’industrializzazione selvaggia che stava cambiando non solo il paesaggio, ma soprattutto i rapporti tra le persone e i valori secolari. Alla sua uscita parecchi “intellettuali” storsero la bocca: un poeta dialettale osava staccarsi dalla retorica populistica delle composizioni incentrate sulla nostalgia della polenta, sul paesaggio veneto o sull’emigrazione di inizio XX secolo, e osava aprire gli occhi sulla nuova guerra dichiarata dalle multinazionali e dalle agenzie di rating, a colpi di spread, con il suo esercito inerme di cassintegrati, di ritirate tremende quanto quella in Russia, trascinate con eguale disperazione, in mezzo a una società indifferente. Certo la raccolta “disturbava” l’assodata convinzione sull’operoso Nord-Est e metteva in discussione i princìpi di ascesa sociale su cui era “politicamente corretto” chiudere gli occhi per non affrontare il declino iniziato da almeno un decennio, che già stava annientando quel “mondo” di capannoni con tutte le storie umane che conteneva. Nessuno si curava delle sorti degli operai, se non quando morivano.
Di fronte a quelle “morti bianche”, il poeta comprese che la crisi riguardava il concetto stesso di uomo, più che l’aspetto economico e sociale. Alla solidarietà tra gli operai si era sostituito un individualismo bieco e arrogante, al contempo asservito, prono alla delazione. Venivano meno anche gli stessi gesti di amicizia e di fratellanza, il darsi la mano, il ridere o l’imprecare insieme, man mano che i diritti venivano erosi e i tempi di produzione si facevano sempre più ossessivi, man mano che le condizioni di lavoro diventavano sempre più precarie. La fabbrica era divenuta un luogo dove si entrava per sopravvivere, occultando nei recessi più profondi dell’anima ogni sogno, dove la “condizione operaia” si era trasformata in sudditanza priva di abbracci e di sorrisi, la stessa condizione riscontrabile in lontane plaghe del “pianeta globale”, dal Giappone al Brasile, dalla Cina all’India, alla Corea.
(…)

Franzin comprende che la perdita della tradizione comporta inevitabilmente anche lo smarrimento della “solidarietà” dell’uomo con la natura, con la cultura delle radici, con la società contadina e lo smarrimento di questa “solidarietà” produce anche lo smarrimento del senso. I nuovi riti, indotti dal consumismo, non posseggono la forza di attribuire significato al vivere, perché finalizzati al mercato, il quale per sopravvivere necessita continuamente di un ciclo di produzione e di distruzione
(…)
Dopo Fabrica il tema della condizione operaia subisce un brusco stravolgimento. Nella raccolta Co’ e man monche [con le mani mozzate], (Buccinasco, Le Voci della luna) in edizione bilingue (dialetto veneto, che si parla nella zona compresa fra i fiumi Livenza e Monticano, e italiano) lo scrittore scava in profondità quella situazione di “solitudine del cittadino globale” che il lavoro riusciva a stento a mitigare: ora egli si trova di fronte alla realtà del licenziamento con la conseguente difficoltà a mantenere la famiglia. È finito il miracolo economico del Nord-Est, che aveva illuso la popolazione con il miraggio di uno sviluppo illimitato. La distanza con Fabrica è abissale e non sotto il profilo stilistico o morale, ma sotto l’aspetto sociale e culturale. Il paesaggio stesso subisce nel giro di un paio d’anni una metamorfosi spettrale: le zone, una volta siti di aziende agricole, di campi a perdita d’occhio, poi colonizzate da fabbriche, depositi e centri commerciali, sono diventate deserte. I capannoni sono chiusi, le erbacce crescono sui piazzali, gli arbusti colonizzano i bancali, l’edera si attorce ai silos e alle maglie rugginose dei recinti.
A cinquant’anni, dopo trentadue di lavoro, il poeta perde l’occupazione senza la speranza di trovare un altro posto. Gli operai stanno con le mani in mano, vuoti nel vuoto che li scava interormente, scheletri anch’essi come gli opifici abbandonati. Si sono liberati dalla costrizione di un lavoro privo di etica, ma sono diventati prigionieri del nulla e delle leggi economiche, nella disperazione che si sporge, come dal cornicione di un palazzo, verso un futuro che non è più quello di una volta (Mark Strand). (…) Il disoccupato diventa l’immagine sociologica “del cittadino globale”, vittima di poteri, di ragioni, di scopi a lui ignoti, dipendente, come i protagonisti dei romanzi di Kafka, da un misterioso destino “non a misura d’uomo”, disperso su un pianeta diventato improvvisamente opaco. Alla condizione di “sfruttato”, che pure conferiva identità, segue la condizione di “essere-per-il-nulla”, di individuo privo di progettualità e di capacità di incidere sulla produzione materiale e sulla relazione sentimentale, sfiduciato, inadeguato nei doveri di uomo, di padre, di marito, di cittadino, di amico. La giornata non è scandita da un orario, ma da un bighellonare (il flâneur postmoderno) tra la tivù, la passeggiatina e una puntatina al bar per conversazioni convenzionali; la libertà si trasforma in “carcere”, perché la chiusura della fabbrica non rappresenta il fallimento di un’azienda, ma il fallimento di persone.
La tragedia rivissuta da Franzin testimonia che in questi ultimi anni la poesia si è riappropriata del suo compito fondamentale che consiste nel parlare dell’uomo all’uomo, in lui il “novecento” appare non solo superato, ma “umiliato” (nel senso più nobile del termine) nella superba pretesa di confinare la scrittura in versi a gioco dimenticando l’esigenza di testimoniare la tragedia dell’esistenza umana.
(…)

Chi in futuro vorrà percepire il senso di disorientamento di milioni di essere umani dovrà leggere le poesie di Fabio Franzin e di Simone Cattaneo, poeti che hanno saputo dar voce a questo momento travagliato della storia umana, quando l’individuo si sente espropriato della possibilità di creare il proprio destino. Si potrebbe dire che ci troviamo in un’età “antirinascimentale”: l’homo faber fortunae suae ha ceduto il posto all’homo consumens oeconomicae legis servus. La società umana, invece di procedere progressivamente verso la libertà e la vita democratica, sembra avvilupparsi in un groviglio di contraddizioni insolubili.
Il poeta veneto non scade in soluzioni di indignazione retorica o in moralismi predicatori, egli sa far emergere l’aspetto più genuino di un’umanità sofferente: la sua poesia è carne e sangue e, come tale, non lascia indifferente il lettore e lo coinvolge in un’opera di ripensamento sui valori contemporanei.
Anche le parti descrittive fremono di sentimenti umani, al cui centro sta sempre la consapevolezza di una dignità sfregiata e umiliata, di cui il poeta stesso si sente parte. Ci troviamo di fronte a una poesia profondamente incarnata nella realtà attuale, nei suoi problemi, nelle sue vicissitudini. Il sentimento di pietas che non scade mai nel bozzetto, ma che si mantiene sui livelli di una tragedia, i cui attori sono individui comuni, gli emarginati, i reietti, gli immigrati, coloro che perdono il lavoro, coloro cui le vicende della vita hanno tolto il bene più prezioso, la stima e la fiducia in se stessi.
La poesia di Franzin ripropone una poesia “civile” (quanto dibattito, quante conferenze, quanti articoli!), una poesia “a misura d’uomo”, quella che sconvolge non solo il consueto modo di vedere il mondo, ma anche il consueto e pacifico modo di vivere l’esistenza, perché lacera le coscienze e le costringe a scontrarsi con i problemi che una società ricca ed opulenta tenta di dimenticare.
La poesia di Franzin non è solo voce di chi non ha voce, ma è anche la coscienza inquieta di un periodo storico che sta smarrendo la preziosa eredità umanistico-cristiana in nome di una deriva disumanizzante.

Giuliano Ladolfi

Testi scelti da “FABRICA e altre poesie”, Borgomanero, Ladolfi Editore, 2013
                           
(a Pierluigi Cappello, in forma di eco)

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Mi ‘i vede davanti come se fusse ‘dèss,
se i fusse ‘ncora tuti quanti qua: un che
se fa el segno dea crose, che ‘l se basa
i dei te l’amen, là, in mèdho a un canp,
prima che càe el scuro, che sie doman

e ‘n’antro che indrezha ciòdhi storti
sentà te un careghìn sot’a barchessa,
tic, tic, continuo, come se marteìna
e pasienza i podhésse indrezhàr anca
el mondo o un destìn revèss; un cagnét
biondo che strussa ‘a coda fra ‘e so
ganbe, òci senza mal fra ‘e rece basse.

‘N’antro lo vede mona de vin, rider
e cantar da lù lu sol, ‘na macia de piss
in tea botéga, i passi che sèra ‘a sera
un bàeo baéngo, ‘àgreme che slusa sot
el ciaro dei lanpioni ‘ndo’ che ‘l se pica

‘a vose fiapa de quel che no’ l’é stat
bon de brincàrghe i corni aa vita, de
farli deventàr manubrio, che tee man
el strendhe sol ‘a só sconfita, suspiri
fondi co’l corpo el se destira tel scuro.

Li vede qua, tuti, quei che me ‘à ‘assà
un calcòssa, ‘na crose da portar, sacri sassi
del mosaico che son; parché son l’insieme
de ‘na stirpe, ‘a subiàdha persa te un cel
pì seren, e ‘l sorìso fiorìo in fra ‘a miseria,
tenpesta e gèo, ‘a carezha magra e un rosario
strendhù fra i déi, pontà te l’ànema. Parché
drento ‘a carne sinte scórer el sangue pìcol
dei perdenti, ‘a pólvara e ‘l paltàn, ‘a fame
e ‘a sé, ‘a paròea comandi e ‘na speranza
granda come un cel de not, da ciamàr
sotvose sentà fòra daa porta co’ un gat
‘cocoeà tii pie. E so che no’ ve sfantaré
mai, scriti tel mé d.n.a. come ‘na poesia
tel libro, ‘iuté ‘ste paròe a star rasotèra.

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Me li rivedo davanti come se fosse adesso, / se fossero ancora tutti quanti qua: uno che / si fa il segno della croce, che si bacia / le dita nell’amen, là, in mezzo a un campo, / prima che cali il buio, che sia domani // e un altro che raddrizza chiodi storti / seduto su una seggiola sotto la rimessa, / tic, tic, continuo, come se martelletto / e pazienza potessero raddrizzare anche / il mondo o un destino avverso; un cagnolino / biondo che con la coda sfiora le sue / gambe, occhi privi di odio fra le orecchie basse. // Un altro lo vedo ebete di vino, ridere / e cantare con se stesso, una chiazza di piscio / sulla patta, i passi che chiudono la sera / un ballo balengo, lacrime che rilucono alla / luce dei lampioni dove si aggrappa // la voce sommessa di quello che non è stato / capace di afferrare le corna della vita, di / farsele manubrio, che fra le mani / stringe solo la sua sconfitta, sospiri / lunghi quando il corpo si stende nel buio. // Li vedo qui, tutti, quelli che mi hanno deposto / un ricordo, una croce da portare, sacre tessere / del mosaico che sono; perché sono l’insieme / di una stirpe, il fischio perso in un cielo più limpido, il sorriso fiorito nella miseria, / grandine e gelo, l’esile carezza e un rosario / stretto fra le dita, appuntato nell’anima. Perché / sotto la carne sento scorrere il sangue sbiadito / dei perdenti, la polvere e il fango, la fame / e l’arsura, la parola comandi e una speranza / vasta come un cielo notturno, da chiamare / sottovoce seduti fuori dalla soglia con un gatto / accoccolato ai piedi. E so che non ve ne andrete / mai, scritti nel mio d.n.a. come una poesia / nel libro, aiutate queste parole a stare basse, a contatto con la terra.

*

Marta l’à quarantatrè àni.
Da vintizhinque ‘a grata
cornìse co’a carta de véro,
el tanpón, ‘a ghe russa via
‘a vernìse dura dae curve

del ‘egno; e ghe ‘à restà
come un segno tee man:
carézhe che sgrafa, e onge
curte, da òn. I só bèi cavéi
biondi e bocoeósi i ‘é ‘dèss

un grop de spaghi stopósi
che nissùna peruchièra pòl
pì tornàr rizhàr. Co’a cata
‘e só care amighe maestre
o segretarie, ghe par che

‘e sie tant pì zóvene de ea,
‘a ghe invidia chee onge
cussì rosse e longhe, i cavéi
lissi e luminosi, chii déi
ben curàdhi, co’ i sii pàra

drio ‘e rece, i recìni. Le
varda e spess ‘a pensa
al só destìn: tuta ‘na vita
persa a gratàr, a gratarse
via dal corpo ‘a beézha.

.
Marta ha quarantatre anni. / Da venticinque / leviga cornici col tampone, / la carta abrasiva, con questi umili strumenti frega / la vernice dura nelle modanature // del legno; e le è rimasto / come un segno nelle mani: / carezze che graffiano, e unghie / tozze, da uomo. I suoi bei capelli / biondi e ondulati sono ormai // un groviglio di spaghi stopposi / che nessuna parrucchiera potrà / più rimodellare. Quando incontra / le sue coetanee, maestre / o segretarie, le sembrano // tanto più giovani, / le invidia quelle unghie / così rosse e lunghe, i capelli / lisci e luminosi, quelle dita / ben curate, quando se li scostano // dietro le orecchie, gli orecchini. Le / osserva e spesso pensa / al suo destino: tutta una vita / persa a grattare, a grattarsi via dal corpo la bellezza.

*

Me despiase
Ieri, el kosovaro che ‘l lavora co’ mì
el me ‘à domandà se podhée prestarghe
zhinquanta euro, el se vardéa tii pie

pa’ far su ‘l coràjo de chee paròe
chissà par quant rumegàdhe – lo sa
che ‘ò dó fiòi, el mutuo pa’a casa

e tut el resto – e za ‘l savéa, son sicuro
anca ‘a mé risposta, parché no’l se ‘à
ciapàdha, sì, sì, certo, capisco l’à dita

sgorlàndo ‘a testa intànt che ‘ndessi
verso i reparti, i guanti strenti tea man.
Però mi nò che no’ lo riconossée pì

co’là che ghe ‘à tocà dir mi dispiace
proprio co’ ièra drio sonàr ‘a sirena
e no’ restéa tenpo nianca pa’a vergogna.

.
Mi dispiace

Ieri, il kosovaro che lavora con me / mi ha chiesto se potevo imprestargli / cinquanta euro, si guardava nei piedi // mentre formulava quella sua richiesta / chissà quanto a lungo meditata – lo sa / che ho due figli il mutuo per la casa // e tutto il resto – e sono sicuro conoscesse / anche la mia risposta perché non se l’è / presa sì, sì, certo, capisco continuava // a dire scrollando la testa, intanto che ci avviavamo / verso i reparti, stretti i guanti nella mano. / Però io no che non lo riconoscevo // quello che ha dovuto dire mi dispiace / proprio quando suonava la sirena / e non c’era più tempo neanche per la vergogna.

*
 
Gabriela Iliescu

Co’ò lèt l’artìcoeo tel giornàl,
‘a desgrazhia che te ‘vea tocà,

‘na matìna de caìvo che paréa
piova, el sie de dizhenbre domìe
e undese, intant che tuta l’Europa
‘a ‘è soto scaco pa’na economia
maeàdha e senza cuòr, son ‘ndat
in internet pa’ capìr de pì, anca
mì ‘ò sgobà vinti àni tee presse,
so del sudhór missià col caeór,
i gas che intòssega, i tenpi strenti
da rispetàr pa’ portàr casa un toc
de pan. ‘Ò scrit el tó nome, te
google, e suìto me ‘à vignù fòra
mìe foto de ‘na tosa bèa, in posa
tee copertine de riviste de moda.

Pensa al destìn, cara Gabriela:
una che porta ‘l tó nome, una
nassùdha tel paese che ve ‘à
vist partìr in zherca de fortuna

‘a fa ‘a modhéa, sogno de òni
tosa, te ‘sti àni, l’à ‘l só soriso
stanpà te poster e publicità, lo
fa sbociàr sora ‘e passerèe rosse,
davanti i flash, da l’estetista

el tuo stuà fra dó stanpi
de fèro e ‘i scarti de plastica.
.

Gabriela Iliescu

Quando ho letto l’articolo nel Gazzettino, / la tragedia che ti ha colpita, // una mattina di nebbia che sembra / pioggia, il sei dicembre duemila / undici, mentre tutta l’Europa / è sotto scacco per un’economia / malata e senza cuore, mi sono collegato / ad internet per capire meglio, anche / io ho sgobbato vent’anni alle presse, / so del sudore mischiato al calore, / i gas che intossicano, i tempi di produzione / da rispettare per portare a casa un tozzo / di pane. Ho cliccato il tuo nome, su / google, e subito mi è apparsa / una schermata di foto di una bella ragazza, in posa / sulle copertine delle riviste di moda. // Pensa al destino, cara Gabriela: una tua omonima, una / nata nello stesso paese che vi ha / viste emigrare in cerca di fortuna // fa la modella, sogno di ogni / ragazza, in questa epoca, ha il sorriso / stampato su poster e pubblicità, lo / fa sbocciare sulle passerelle rosse, / davanti ai flash, dall’estetista // il tuo spento fra due stampi / di ferro e gli scarti di plastica.

*
‘Tacàr, invidhàr

Incùo el mé fiòl pì pìcoeo
l’é ‘rivà daa só camaréta
co’ un pòche de machinete
rote in man, rodhèe e tòchi

de plastica che ghe caschéa
fra ‘e piastrèe del pavimento
– ‘a só voséta prima de lù, là,
drio ‘l coridòio – “papà, se
non riesci a trovare lavoro

in una fabbrica potresti fare
il meccanico che aggiusta le
macchine intanto incomincia
a giustare le ruote di queste

mie che sono rotte”. E ‘lora
méterme là co’ un cazhavidhe
cèo e ‘a pazhienza che no’ò
mai bbu, a provàr, ‘na rodhéa

cavàdha de qua e una ‘tacàdha
de ‘à, a tornàr a far córer chee
machinete. Chissà se ‘l destìn
varà ‘a stessa pazhienza, co’

mì, se ghe sarà un calcùn bon
de tornàrme invidhàr i sèsti,
tee man, parché ‘e pòsse tornàr
a córer anca lore… pa’l pan.
.
Fissare, avvitare

Oggi il mio figlio più piccolo / è arrivato dalla sua cameretta / con un mucchietto di macchinine / rotte fra le mani, ruote e pezzi // di plastica che gli cadevano / sulle piastrelle del pavimento / – la sua vocina prima di lui, lì, / lungo il corridoio – ” papà, se / non riesci a trovare lavoro // in una fabbrica potresti fare / il meccanico che aggiusta le / macchine intanto incomincia / ad aggiustare le ruote di queste // mie che sono rotte”. E allora / mettermi lì con un cacciavite / da orologiaio e la pazienza che non ho / mai avuto, a cercare, una ruota // tolta di qua e una fissata / di là, a tornare a far correre quelle / macchinine. Chissà se il destino / avrà la stessa pazienza, con // me, se ci sarà qualcuno capace / di riavvitarmi i gesti, / nelle mani, affinché possano ritornare / a correre, anch’esse… per il pane.

Tute chee robéte

Tute chee robéte che ‘l porta
casa da scuòea, nostro fiòl,
dal cortìo dea ricreazhión

tute chee robéte che casca
tee piastrée, dae scassèe
del só traversón zheèste:

bachetini, sasséti, tochéti
de fèro rùdhene, de carta
o plastica, ossi de pèrsego

o de poeàstro. Che coràjo
che ghe vol pa’ butàrle via,
una qua, una là, tii bidoni,

che deìto no’ capìr el vaeór
vero, no’ èsser boni de vardàrle
pa’l só vèrs, ‘e robe, ‘verghe

robà ‘a só poesia, ‘a fantasia
che le fa tesoro. Quant senpi,
po’, a ciamàrghe oro sol a l’oro.
.

 
Tutte quelle cosucce

Tutte quelle cosucce che porta / a casa da scuola, nostro figlio, / dal cortile della ricreazione // tutte quelle cosucce che cadono / sulle piastrelle, dalle tasche / del suo grembiule azzurro: // bastoncini, sassolini, pezzetti / di ferro arrugginito, di carta / o plastica, ossi di pesca // o di pollo. Che coraggio / ci vuole, a buttarle via, / una qua, una là, nei bidoni // che delitto non comprendere il valore / vero, non essere capaci di guardarle / dalla giusta angolazione, le cose, aver // sottratto loro la poesia, la fantasia / che le trasforma in tesoro. Quanto stolti, / poi, a considerare oro solo l’oro.


Fabio Franzin è nato nel 1963 a Milano. Vive a Motta di Livenza, in provincia di Treviso. Ha pubblicato le seguenti opere di poesia:

Nel dialetto Veneto-Trevigiano dell’Opitergino-Mottense:

El coeor dee paroe, Roma, Zone, 2000, prefazione di Achille Serrao.
Pare (padre), Spinea, Helvetia, 2006, introduzione di Bepi de Marzi.
Mus.cio e roe (Muschio e spine), Sasso Marconi, Le voci della luna, 2007, 2a ed. 2008, introduzione di Edoardo Zuccato, “Premio S. Pellegrino Terme 2007”, “Superpremio Insula Romana 2007”, “Premio Guido Gozzano 2008”, Fabrica, Borgomanero, Atelier, 2009, 2a ed. 2010, “Premio Pascoli 2009”, “Premio Baghetta 2010”.
Rosario de siénzhi (Rosario di silenzi – Rožni venec iz tišine), Postaja Topolove, 2010, edizione trilingue con traduzione in sloveno di Marko Kravos. Siénzhio e orazhión (Silenzio e preghiera), prefazione di Franca Grisoni, Motta di Livenza, Edizioni Prioritarie, 2010.
Co’e man monche (Con le mani mozzate), Milano, Le voci della luna, 2011, con prefazione di Manuel Cohen, Premio “Achille Marazza 2011”,
Fabrica e altre poesie, Borgomanero, Ladolfi Editore, 2013, con il saggio introduttivo La solitudine del “cittadino globale” di Giuliano Ladolfi.
Bestie e stranbi, Martinsicuro, Di Felice edizioni, “I poeti di Smerilliana”, postfazione di Matteo Vercesi, 2013.

In lingua

Il groviglio delle virgole, Grottammare, Stamperia dell’arancio, 2005, premio “Sandro Penna 2004 sezione inedito” con introduzione di Elio Pecora.
Entità, in E-book, Biagio Cepollaro E-dizioni, 2007.
Canti dell’offesa, Cesena, Il Vicolo, con introduzione di Gianfranco Lauretano, 2011.

In lingua e dialetto:

Margini e rive, Città Nuova, Roma, 2012. Nota di Daniele Piccini.

*
Nel 2009, La rivista Atelier gli ha dedicato, monograficamente, il n°53. Nel 2010 ha vinto il premio “Giacomo Noventa – Romano Pascutto”, e nel 2012 il premio “Tito Maniacco”. Sue poesie, accolte in molteplici riviste in Italia e all’estero, sono state tradotte in inglese, francese, cinese, arabo, tedesco, spagnolo, catalano e sloveno.

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