Il problema Tozzi: il gigantismo del non essere nulla

Riletture
a cura di Luigia Sorrentino

“Con gli occhi chiusi” di Federigo Tozzi pubblicato in prima edizione nel 1919.

Recensione di Giorgio Galli

Con gli occhi chiusi è il romanzo emblematico di Federigo Tozzi. Eppure è il più irrisolto; ma proprio per questo è emblematico. Inizia con le movenze d’un vasto romanzo ottocentesco, d’un romanzo verghiano o nieviano; e ci si aspetta uno sviluppo conseguente. Ma questo sviluppo non viene: è come una serie di preludi a cui non segue l’opera. Eppure l’opera c’è, così viva da entusiasmare persino Pirandello. E’ noto ciò che ne scrisse il Girgentano: “Quando s’è finito di leggere, e, meglio, parecchi giorni dopo la lettura… uomini e cose, vicende e paesaggi, tutto insomma,acquista davanti a noi una tal consistenza di realtà che veramente ci stupisce, perché non riusciamo più a renderci conto, come davanti alla vita stessa, quali di quei tanti particolari che parean momentanei e casuai, quali di quelle tante notazioni minute, che parevano incidentali od accidentali, e anche talvolta svagate, abbiano potuto darcela, e come, e quando, così perfetta e solida, così intera e finita, tutta quella consistenza di realtà. Si penserebbe al procedimento di certi pittori che con un turbinio di punteggiature, in cui, a guardar davvicino sembra che ogni tratto, ogni linea si perda, riescono poi a dare a distanza con insospettati rilievi d’ombra e giuochi di luce una inattesa costruzione di forme, se il paragone non fosse reso fastidioso e inaccettabile dall’assenza, qua, d’ogni evidente e minuzioso sforzo di tecnica… Si direbbe naturalismo: ma non è neanche questo; perché qui tutto, invece, è atto e movimento lirico… E come non posa mai descritto il paesaggio, così non si sofferma mai raccontata la passione di Pietro Rosi per Ghisola, né mai si fissano delineati i caratteri e le figure di questi e degli altri personaggi, che nell’instabile rappresentazione momentanea ci si muovono davanti, coi loro pensieri subitanei, i loro capricci, le loro smanie, e sofferenze e aspirazioni e illusioni e scontentezze e disinganni, ciascuno con tutte le sue possibilità d’essere, così nel bene come nel male, soggetti, non a un preconcetto disegno del loro autore, ma quasi a ogni possibile evenienza della loro sorte… perché se i casi che a volta a volta capitano ad essi non fossero questi, ma altri, essi avrebbero pure in sé, ben note a noi, tutte le possibilità d’una diversa vita e d’un diverso destino”.

Ci siamo permessi di corsivare l’ultimo periodo perché qui Pirandello centra il punto più dolente. Se non fossero successe quelle cose, ne sarebbero accadute altre. E’ proprio questa la tragedia dei personaggi del Tozzi -il non avere una concezione del mondo, il non essere strutturati, il poter essere questi ma anche altri.

Con gli occhi chiusi è il racconto dell’infanzia e dell’adolescenza d’un giovane confuso, raccontata da qualcuno che non s’identifica a pieno con il giovane, ma che ne condivide la confusione, e che nel suo narrare affastella le cose senza una logica, senza un ordine, e senza nemmeno cercare un voluto disordine -in altre parole: senza cercare un ritmo, uno stile. Sembra scrivere così perché così le cose si presentano alla sua mente, come sogni male afferrati al risveglio. Eppure sono cose concretissime. A renderle vaghe, è solo l’indeterminatezza del punto di vista.

Sta proprio qui il paradosso: Tozzi non ha il problema di dare concretezza al mondo che descrive, perché è il mondo nel quale è nato e cresciuto e lo conosce come le sue tasche. No: il problema è che la visione di Tozzi è offuscata dall’ingombro dell’o, di quell’io che Calvino avrebbe voluto far sparire dalla scrittura, di cui sentiva il disagio. Ma il paradosso dentro questo paradosso è che l’io di Tozzi non è ingombrante perché ha una sua fisionomia ben strutturata, con dei dolori, delle gioie, delle esclusioni e delle concezioni troppo radicate per essere escluse: no, è un io ingombrante perché quasi inesistente, è come un gas che, non avendo una forma sua propria, si espande dappertutto lungo tutto lo spazio che trova.
Il paragone col successivo Tre croci è rivelatore: qui Tozzi fa il lavoro opposto, ed anziché disperdere concentra. La sua scrittura è secca, nervosa, i personaggi si muovono come su un palcoscenico, sono figure teatrali, a volte sembrano perfino marionette per quanto è scattante e manicheo il loro modo di muoversi: tutto conduce senza indugi alla vertigine finale, a quei momenti indimenticabili in cui Giulio Gambi si suicida nella sua libreria senza nemmeno rendersi conto di starsi suicidando, senza volerlo consapevolmente fare, come se non potesse fare altro che così; e vede in un’allucinazione le firme che ha falsificato sulle cambiali balzar su dal pavimento e sfuggirgli mentr’egli cerca, impazzito, d’acchiapparle; e intanto il fratello sta fuori dal negozio, e bussa, e non sente niente, e lascia che Giulio si tolga la vita a pochi metri da lui. Momenti che da soli bastano alla gloria dell’autore. I fratelli Gambi sembrano dei fratelli Karamazov in sedicesimo e in grottesco: i loro eccessi, le loro sguaiataggini sono sì provinciali e sanguigne, e tutto sommato più simpatiche dell’ipocrisia elevata a sistema degli altri personaggi. Sembra che quell’ “assenza d’ogni evidente e minuzioso sforzo di tecnica” che Pirandello individuava nel primo romanzo sia stata trascesa e bruciata da una “sceneggiatura” di granitica tensione, che tende tutta verso un punto culminante: il racconto, appunto, della follia di Giulio, seguito da quella chiusa amara la cui insopportabile sobrietà parve a Cassola degna di Verga. Eppure, anche qui c’è qualcosa che non soddisfa, che disturba. Se Con gli occhi chiusi è dispersivo, Tre croci è troppo concentrato, va troppo dritto allo scopo. L’autore dei due romanzi sta procedendo per tentativi -per tentativi febbrili: si direbbe che stia inseguendo la propria personalità letteraria come Giulio Gambi insegue la firma falsa che vede sgusciare nei suoi incubi di suicida. E poi, ciò che non soddisfa è la lingua. Non si riesce a capire se il Tozzi sia o no interessato allo stile. Il suo vernacolo senese è così smaccato che quando scrive gasse, granata o doventare, vien da chiedersi se siano scelte consapevoli o se, semplicemente, egli scriva come parla, o se addirittura creda che si scriva così.

Naturalmente, Tozzi sa benissimo d’usare il vernacolo. Aveva studiato gli antichi scrittori senesi, li aveva antologizzati, aveva tratto la sua lingua da loro oltre che dalla realtà circostante; ed era oltretutto un ammiratore e un emulo di Verga, e cercava quindi di calarsi nella realtà anche linguistica dei suoi personaggi. Solo che, a differenza si Verga, Tozzi non aveva alcun distacco dai personaggi e dal loro ambiente, anzi vi stava immerso dalla testa ai piedi. Per questo s’avverte una confusione di vita e di letteratura, un’incapacità di ricondurre la materia magmatica alla compiutezza dello stile. Tozzi non è di quelli che trascendono il proprio dolore oggettivandolo nella forma: è semmai il dolore che sforma contenuti e toni delle sue opere. E non ha il coraggio di lasciare il dolore puro com’è, di non redimerlo colla forma e di scavarlo fino a farsi male, fino a conquistare la serenità paradossale di chi, scavando scavando, è arrivato al nulla. Per Tozzi la pagina scritta è un nastro che registra le sue onde cerebrali in tutta la loro indefinitezza.

Rileggiamo il giudizio d’un altro scrittore, Cassola: “La gente comune ama i romanzi, e Tre Croci è più romanzo di Con gli occhi chiusi. Con gli occhi chiusi è più poetico, ma meno epico dell’altro. A questo punto mi accorgo che è necessaria una spiegazione generalissima: in che consiste la differenza tra le due fondamentali espressioni letterarie, la lirica e l’epica? Uso apposta la parola epica, benché ai nostri tempi la sola forma dell’epica sia la narrativa, perché nessuno possa cavarsela dicendo che la prima è in versi e la seconda in prosa. Certo che il romanzo è in prosa; ma il poema epico, che lo ha preceduto nel tempo, assolvendo la stessa funzione? La Commedia, tanto per fare un solo esempio, è in versi, eppure non ha niente a che vedere col Canzoniere del Petrarca, e con la stessa poesia amorosa di Dante. Quest’ultima appartiene al genere lirico, mentre la Commedia all’epico. Allora, qual è la differenza? Che il poeta lirico parla di sé, mentre il poeta epico parla degli altri. Bisogna però che questi altri non siano proiezioni dell’autore, come accadde per parecchio tempo allo stesso Tozzi.” Cassola avverte però che “è solo nell’ultimo capitolo che Tozzi si libera di quell’autobiografismo che gli aveva impedito di prendere le distanze dai personaggi, di vederli col necessario distacco. In altre parole, che gli aveva impedito di uscire da sé, cioè di uscire dall’ambito del romanzo esistenzialista per cimentarsi nel romanzo sociale.”
Pietro, protagonista di Con gli occhi chiusi, alla fine del romanzo viene sbattuto fuori dal suo mondo dei sogni, dalla sua percezione sballata della realtà e si trova di fronte alla propria incapacità di vivere. Potrebbe utilizzare bene o male questa scoperta, noi non lo sappiamo. Ma il tono della narrazione, che non guarda a posteriori la sua confusione, ma aggiunge ulteriore confusione, lascia supporre che nulla abbia sollevato Pietro dalla sua abulia. E Pietro altri non è che il Tozzi giovane. In Tre croci, la scrittura è nervosa e scattante, apparentemente distaccata dai personaggi che racconta: eppure, raggiunge la sua massima intensità quando descrive follia e suicidio. E’ solo nel raccontare la follia esplicita che l’autore trova il suo tono e ci regala quell’ultimo capitolo che per Cassola “sta al pari dei Malavoglia”.

In effetti, nel romanzo i tre fratelli sono visti sì con distacco autoriale, ma il mondo al di fuori di essi esiste solo in loro funzione, è visto coi loro occhi -con quegli occhi che vedono solo vizio e broglio e infingimento e marciume morale, e nient’altro. Nessuno e nessuna cosa conta com’è, conta come viene percepita e in quanto viene percepita. La scrittura s’è liberata dell’autobiografismo narrativo per arrivare a un autobiografismo più estremo: non conta più la storia dell’autore, ma il problema interiore dell’autore, il problema dell’incapacità di uscire da sé e di discernere fra se stessi e il mondo. Il mondo scivola lungo i percorsi mentali dei protagonisti e loro ne trattengono solo ciò che conferma la loro visione preesistente: dunque non vengono da esso influenzato, non cambiano d’una virgola, non c’è possibilità di ampliare l’orizzonte, di evolversi, non c’è possibilità d’interscambio fra il mondo e l’io: e l’io, che si nutre solo di se stesso, non può che spegnersi e autodistruggersi come si spengono e s’autodistruggono, a partire da Giulio, i tre fratelli Gambi. Il senso d’oppressione, come d’un soffitto troppo basso, come d’un cielo mancante, che aleggia sul romanzo, deriva da qui. Molte scene sono ambientate in esterni, ma nel ricordo della lettura si staglia solo il rettangolo claustrofobico del negozio. Il romanzo successivo, Il podere, prosegue nel tentativo di ricongiungersi alla tradizione letteraria, di raggiungere uno stile vigoroso e “verghiano” e di uscire dall’autobiografismo, ma racconta la più autobiografica delle storie tozziane: la maledizione dell’aver ricevuto in eredità un podere, del dover possedere qualcosa e quindi del doversene assumere le responsabilità. Come può il solipsistico personaggio di Tozzi barcamenarsi col senso di responsabilità, col sentimento umano che più di tutti richiede la presenza, dentro di sé, dell’altro? Tozzi aveva cominciato a scrivere coll’egotismo dei suoi ricordi d’impiegato; e finisce collo scandagliare in una finzione d’oggettività il proprio orrore d’essere proprietario del podere. Il cerchio si chiude. Ma c’è qualcosa, in questo cerchio, che rimane aperto, e che aperto ci si mostra: è il cantiere del Tozzi scrittore, il suo lavoro di costruzione della propria identità di scrittore.

Il segnale più forte è la lingua. Il vernacolo è così ostentato che sembra di sentirlo parlare, il Tozzi, con voce nervosa, a scatti, sovreccitato, nevrotico, quasi preso da un trasalimento ebefrenico. Epperò a sminuzzare le sue frasi, a voler fare il sentiero minato che passa fra i suoi vari attraventare, ruzzare ecc. ci s’accorge che non solo quel vernacolo è troppo ostentato, e m che anche l’italiano è un italiano iper-scritto pur nella sua nudità. La lingua del Tozzi è una lingua imparlabile e impalatabile: chi la usa non ha la concretrzza dell’oralità -ma vuole fingerla- e non ha la sapienza della letteratura -ma vuol far credere di possederla. E’ un essere molliccio e informe, raggomitolato in una sua integrale vigliaccheria di fronte alla vita, che non ha una concezione del mondo, né vuole averla, ed esprime codesto vuoto interiore non col distacco di chi ne estrae la forma, né col dolore di chi sceglie di non redimere la propria angoscia nemmeno colla foma; ma col godimento di chi crede che questo magma tetro basti da solo a fare opera e forma. E’ un essere invasato dal gigantismo di non essere nulla.

Il suo approccio alla letteratura è, in fondo, anch’esso una scorciatoia vile. Tozzi potrebbe utilizzare il suo magma linguistico per farne stile, e invece sceglie di sbattere questo magma in pagina, nella speranza che ciò di per sé faccia stile; preferisce portare nei suoi romanzi la realtà così come la vede, non lavorata, sperando che il fatto stesso di portarla sulla pagina la trasformi in qualcosa: e nulla di tutto ciò avviene. Ciò che avviene è che, mentre il narratore accumula i suoi frammenti sul mondo contadino senza saper bene cosa dirne; mentre fa muovere come marionette impazzite i fratelli Gambi, involontariamente ci fa leggere quello che non scrive: e cioè che il vero soggetto del romanzo non è l’amore di Pietro per Ghisola, non è l’amoralità dei fratelli Gambi, ma è la sostanza viscida e immota di cui è fatto il suo autore, che vorrebbe concretarsi in qualcosa ma non ha forza per farlo; e noi tocchiamo con mano quest’orrore, questo viscidume che sguscia, che sfugge, che non è niente ma cerca di afferrarci e perfino di sedurci prendendo una forma che non gli appartiene, una forma a caso, la prima che capita -la forma di una Siena “paesana” che Tozzi disprezza e da cui è disprezzato. Fosse nato a Catania, o a Zurigo, Tozzi avrebbe dato al suo nulla una forma catanese o zurighese, la prima che gli fosse stata per avventura disponibile. E la grandezza della sua scrittura consiste nell’avercelo fatto toccare, quest’orrore, come nessun altro ha saputo fare, proprio perché non era ancora diventato un vero scrittore, proprio perché ci ha lasciati entrare nel suo cantiere ancora aperto. E’ un orrore fisico, è come toccare un essere liquidiccio e senz’ossa. Si è detto: Tozzi, o la scrittura crudele. Ma bisognerebbe piuttosto dire: la scrittura ripugnante.

Ha scritto Calvino nel saggio Il midollo del leone (in Una pietra sopra, p. …) “Alieni da tentazioni per l’irrazionale e l’oscuro, pure ci interessa il cammino degli uomini che partirono in lotta contro i mostri, ora fronteggiandoli impassibili su lterreno nemico, ora travestendosi da mostri essi stessi, ora sfidandoli, ora soccombendo. Perciò continuiamo a frequentare Thomas Mann, Picasso, Pavese, continuiamo a segnare i punti delle loro vittorie e delle loro sconfitte: non è il loro “decadentismo” di cui ogni tanto qualcuno premurosamente ci avverte che ci interessa, ma ciò che in loro è nucleo d’umanità razionale, di classica chiarezza che tocca il fuoco e non brucia. Ci interessa il loro cercare di lavorare sulla base di tutta la problematica del loro tempo, il loro porre a confronto i termini delle antitesi più drammatiche, il loro situarsi nel punto nodale di una cultura e di un’epoca. Non sono la decadenza, l’irrazionalità, la crudeltà, la corsa alla morte dell’arte e della letteratura che devono farci paura; sono la decadenza, l’irrazionalità, la crudeltà, la corsa alla morte che leggiamo continuamente nella vita degli uomini e dei popoli, e di cui l’arte e la letteratura ci possono far coscienti e forse immuni, ci possono indicare la trincea morale in cui difenderci, la breccia attraverso cui passare al contrattacco. Siamo in un’epoca d’allarme. Non scambiamo la terribilità delle cose reali con la terribilità delle cose scritte, non dimentichiamo che è contro la realtà terribile che dobbiamo batterci anche giovandoci delle armi che la poesia terribile può darci. La paura per le cose scritte è una deformazione professionale degli intellettuali, che vogliamo lasciare tutta a loro. E’ sempre con curiosità e speranza e meraviglia che il giovane, l’operaio, il contadino che ha preso gusto a leggere, aprono un libro nuovo. Sempre così vorremmo che venissero aperti anche i nostri”.

Questo stupendo passo di Calvino ci aiuta a definire il succo prezioso che da Tozzi possiamo trarre. Tozzi ci dà l’immagine più ripugnante e allarmante di dove porta l’individualismo della crisi se spinto all’estremo e accettato col più completo cinismo: e ce ne rende consapevoli. Questo il dono che ci fa. Un dono che non voleva fare e non sapeva di farci. Lui cercava solo di scrivere come Verga.

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