Letture
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Wojciech Bonowicz, Mare aperto, a cura di Leonardo Masi, incertieditori, 2012, pp. 89
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Nota di lettura di Alessandro Amenta
Sfuggente, enigmatica, elusiva. Sembrano questi gli aggettivi più adatti a definire la poesia di Wojciech Bonowicz, scrittore polacco nato negli anni Sessanta e autore di una quindicina tra raccolte poetiche, saggi e originalissime fiabe per l’infanzia. Il volume Mare aperto (incertieditori, 2012) presenta una straordinaria densità semantica e coesione stilistica, ben rese nella traduzione, accurata e musicale, di Leonardo Masi, che gli è valsa il premio Marazza 2012.
(Nella foto di Anita Poniklo lo scrittore Wojciech Bonowicz).
(http://www.francobuffoni.it/upload/document/verbale_marazza_2013-2.pdf).
Quelli di Bonowicz sono versi che scorrono tra allusioni e sottintesi, ellissi e silenzi, in cui la parola è depurata da ogni orpello e portata al limite delle sue possibilità espressive. Minimalismo o ermetismo sono etichette riduttive che non rendono appieno il senso di una ricerca che non riguarda solo gli aspetti formali, ma coinvolge il significato stesso della poesia, le sue potenzialità, le sue finalità. Cosa è in grado di dire la poesia, fino a che punto può spingersi? La risposta dell’autore suona in apparenza pessimistica: “Le energie della lingua si sono esaurite. / Perché a parlare dovrebbe essere l’inesprimibile. / Invece ha parlato ciò che è morto e scontato” (Da una lezione). Da qui nasce la necessità di rinnovare il linguaggio, che deve spogliarsi di incrostazioni e sedimenti, scontatezza e banalità, e deve farsi dissonante per rivelare significati nuovi o nascosti:
Da qualche anno la venuta della poesia
non ha niente a che vedere con l’ispirazione.
Non è lo spirito che spira
è piuttosto la terra che chiama.
E più ti aspettavi qualcos’altro
più forte essa ti chiama.
(Una discussione chiusa)
Quanto queste tematiche siano centrali nei componimenti di Bonowicz è dimostrato dal frequente ricorso alla riflessione metaletteraria, mai sterile ma sempre radicata nel reale. L’autore si domanda spesso quale sia il ruolo del poeta, quale relazione si instauri con il mondo che descrive o come avvenga il processo creativo. Quello che emerge è un rapporto conflittuale, a tratti persino claustrofobico: la poesia è un’entità a se stante, una forza autonoma che prende il sopravvento sullo scrittore e lo trascina verso mete imprevedibili. Scrivere significa entrare in un territorio incerto e misterioso. Il poeta, quasi fosse schiavo della parola, deve lasciarsi guidare, come nello splendido componimento Notte, una sorta di manifesto letterario:
[…]
Una poesia
ha una sua immaginazione.
L’ha costruita nella tua
E poi ce l’ha chiusa
Per liberarsi.
Devi aspettare
in quell’angolo di sasso
dove a volte brilla
la polvere d’oro della speranza.
Alla fine la poesia
si apre. La pietra
ti lascia andare: un foglio di carta
che inizia il suo respiro.
E quando la poesia “inizia a respirare” si aprono spiragli verso un mondo di cui possiamo cogliere frammenti, schegge o brandelli. Nient’altro. Inutile tentare di avere una visione globale, perché il mondo è inaccessibile nella sua totalità. Quello che abbiamo sono solo racconti interrotti, singoli momenti, accenni e indizi. Ma in questa frammentarietà non mancano grandi temi, che accomunano gli individui nonostante la singolarità delle esperienze: la sofferenza, il dolore, la perdita che, prima o poi, tutti sperimentano. E un ruolo di primo piano è giocato dal male, tema ricorrente e spesso legato a quello della giustizia e della responsabilità:
Il turpe li riscalda. Il turpe avviluppa
quest’adunata di gente sola e gli dà un senso.
Al turpe piace guardare il nulla che si addensa
quando si riattizza il fuoco. Il turpe sa:
quelli che borbottano e quelli che urlano
sono fratelli. La paura schizza da uno all’altro
la paura è il loro canto. Il turpe sa:
per tutta la notte ne ha scritto le parole
(Il turpe sa)
Il male e la sofferenza lasciano comunque spazio alla speranza, aiutano a distinguere ciò che è importante da ciò che non lo è, pertanto vanno sperimentati e raccontati. Qui come altrove (Dal libro del deserto, I viaggiatori della morte, Regione, Isole) risuonano echi biblici, affiora un simbolismo di impronta veterotestamentaria e i componimenti si fanno parabole moderne:
Dio li tiene nella rete. Porta in alto
il pugno chiuso. “Non avrebbe avuto comunque senso”
dicono quelli che si sono condannati da soli.
Non capiscono che il peggio si è ormai compiuto:
fu il giorno i cui gettarono le corone reali
per mettersi dei cappellini di carta e ortiche.
(Il giudizio)
Ma Bonowicz è un poeta religioso molto sui generis. La sua è una scrittura priva di dogmatismi che non vuole persuadere il lettore né imporre una visione del mondo. A interessarlo è piuttosto il tema della fede come esperienza privata, personale, diffidando di risposte pronte, concetti preconfezionati e verità assolute: “Si nascondono nelle scritture / come dentro a rifugi. / […] / Ma più di una volta le scritture li hanno consegnati / al fuoco all’acqua. Una pagina dopo l’altra” (I viaggiatori della morte). E ci spinge a cercare, ognuno per sé, quello che si nasconde sotto la superficie delle cose, nelle profondità delle parole: “Vedi / l’efficacia di scavare nel buio / si trova sempre qualcosa di nascosto / che non ha ancora un significato” (Il ritorno dell’A.)“Mare Aperto” di Wojciech Bonowicz, per la traduzione di Leonardo Masi ha ricevuto il premio Marazza.