Francesca Serragnoli

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Francesca Serragnoli è nata a Bologna nel 1972, dove si è laureata in Lettere Moderne. Ha lavorato presso il Centro di poesia contemporanea dell’Università di Bologna, e attualmente fa parte del direttivo. Suoi testi di poesia sono apparsi nelle antologie “I cercatori d’oro”, a cura di D. Rondoni (Forlì, La Nuova Agape, 2000); “Nuovissima poesia italiana”, a cura di M. Cucchi e A. Riccardi (Mondadori, 2004); “Mosse per la guerra dei talenti”, a cura di Marco Merlin (Fara Editore, 2007); “La stella polare”, a cura di D. Brullo (Città Nuova, 2008); “Jardines secretos, Joven Poesìa Italiana, a cura di E. Coco (Sial, Madrid, 2008) e su varie riviste. Ha pubblicato la raccolta “Il fianco dove appoggiare un figlio” (Bologna 2003, premio Camaiore Opera prima, nuova edizione Raffaelli Editore 2012) e Il rubino del martedì (Raffaelli Editore, 2010; Premio Alpi Apuane ex equo, Premio Mario Luzi selezione, Premio Laurentum II classificata, selezione Premio Ceppo Pistoia). Collabora con la rivista ClanDestino.
Da Il rubino del martedì, di Francesca Serragnoli, Raffaelli Editore, 2010
Ci vorrebbe proprio tutto
il tempo di cucire un bottone.
Quel fermarsi
in quel punto della camicia
su e giù con l’ago
e il filo lungo che va in alto e scende.
Quel andare al di là e tornare, basterà?
Il viaggio di una madre
il puntino luminoso della sua mano
che dal cielo scende
e sale un filo che fra le dita
sembra attraversare niente.
Io ti avevo stretto la mano
nella panca della chiesa dei Servi
sentivo che piangevi
non sapevo come ricucire
il fiore sdraiato del tuo respiro
con tutte quelle radici al vento.
Non mi lasciare nel traffico
nel buio sordo di un attimo
quando non ti volti più
e caschi fra i rami
come un tramonto colpito
nel petto da uno sparo
non lasciami andare sotto i portici
che non hanno braccia
non farmi credere che la piazza
sia più bella dei tuoi occhi
che i gradini siano le tue ginocchia.
*
L’occhio ti avrebbe perso un giorno di marzo
sciolto il collare nel vento, nell’onda
come si perdono i transatlantici
e si rimane con le funi nelle mani
con quei cartelli con il nome
agli arrivi in casa, sulla porta
come se volessi portarti ancora
fra i tavoli e le sedie
la tv il letto, un viaggio stretto
con vuoti d’aria, la voce aggrappata
a un cornicione, strappata
un cadere nel tempo ti volta
un bacio breve stappa il primo ridere
divento uno spumante da quattro soldi
una canzonetta della radio, un balletto
brucio il libretto di poesie, le pagine
per guardarti il volto illuminarsi
e quella fiamma arresa, scesa sulle ginocchia
ricomincia a toccare l’andare a capo dei lineamenti.
Però non so ancora cosa s’inventa
cosa si fa per far ridere i bambini.
*
E’ sempre poco il tempo
per guardare le stelle
di ora in ora le sento cedere come truppe
stanche intorno ai fuochi.
E’ il tempo del fucile spento
la canna fredda tocca il mento
tengo il brivido, le mani in alto
il viso è un bambino scalzo
gli occhi come fionde tirano un sasso
non si sente il tonfo di niente
non fucilare il mio guardare
dov’è l’identità infinita?
il nome che spacca la vetrata della vita?
Il lago specchia me ondulata
imposte rotte sbattono parole vecchie.
Il cielo non è un bar per gente sola
ordino per te la pioggia
e Gesù fra i rami dell’acqua
come un puscher ci guarda
con la roba che spezza la morte.
*
A volte penso a quella volta dell’ovaia
a quel momento che me l’han portata via
e quando ti guardo ho la stessa paura
stringo la pancia, ti accarezzo tanto
faccio una lacrima senza farmi vedere
sono contenta che ci sei
con quei capelli sottili sottili
e quei patacchi nella maglietta
e quel carattere chiaro
tu sei un uomo buono
come una violetta impettita
al lato della strada
io ti avevo già visto una volta da bambina
quando mio padre fermò l’auto
e andammo a raccogliere le primule
se chiudo gli occhi di notte
e ti vengo vicino
sento lo stesso profumo.
*
C’è chi
quando è contento
lava anche tutti i piatti
e ci sta tutta la sera
girato di schiena
sul lavello
perché un sorso di felicità
muove tutto il corpo
e ognuno balla come sa.
La gioia è un ospite
che accende il ridere
come si accende un cerino nella notte.
Anche gli astronauti si voltano.
*
Volevo che la tua notte
rimanesse con la mia
che tu sporgessi piano dal lenzuolo
come un’alba che rimane continuamente
il primo gesto
di luce nel mondo.
Avrei raccolto da terra
il sole che ti cade dal viso
da quel sorriso eroso dal vento
che scende a picco sul mare.
Nei tuoi occhi andavano e venivano
le rondini, per posarsi
come quando le palpebre fanno
quel rumore di ali che si aprono.
Volava via invece il tuo profumo
sepolto nei luoghi
che solo il cane
che abbaia al vento conosce.
Così ti penso
una serata blu
che stringe gli occhi fino a sparire
e subito bianca
una luna a cinque dita
che mi tiene il mento
e mi guarda.
*
Questa mattina ho visto i matti
scendere dal pulmino bianco
accompagnati come bambini in gita
una donna con la berretta
un signore con il riporto pettinato
che paura quei visi!
S’illuminano per un niente
presi per mano hanno
lo sguardo dei figli
puntano il dito su tutto
sole d’ottobre che scende
su donne senza trucco
risate acute come spade
li ho salutati come si salutano i bambini
facevano ciao con la mano
mani che vedo dietro di me
salire nel cielo come quaglie
e svanire lasciandomi
la prima amicizia del mondo che è l’aria.

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