Simone Zafferani, “L’imprevisto mondo”

SIMONE-ZAFFERANI-2-RIDNota di Biancamaria Frabotta 

Ai suoi inizi la poesia di Simone Zafferani si abbeverava, mi parve, degli umori limbali che intridono l’umbratilità del primo Sereni. Riconoscere i maestri non è una vana impresa, ma la garanzia di potersi presto avviare sui propri sentieri. Anche se la strada verso la maturità che s’inerpica nelle ultime poesie di Zafferani, si fa subito impervia, la meta che si spera di poter continuare ad aggirare desta stupore, rivela e impone un mondo    “imprevisto”, come dice il titolo che si affranca da ogni precedente, amorevole servitù. E arrivano, a compensazione delle perdute e dolci amnesie adolescenziali, giuste parole d’amore, di pietà, di compartecipazione ai tremori delle creature umane. Non si può simulare “la vita che non c’è”, quando gli affetti famigliari, l’amore accumulato, i morti che oltrepassano la frontiera e si avvicinano pericolosamente  impongono un’altra lingua, un registro sempre meno metaforico. Questo poeta, amante della liquidità, delle risonanze oblique della luce, magari scrutate in Emily Dickinson, è proprio attraverso tali “verità imponderabili”  che viene a contatto della polpa segreta della vita e di sé stesso, infine. E quando avviene la trasmutazione delle creature più amate in quel mondo “altro”, prima solo intravisto nel riflesso dell’acqua che, non dimentichiamo, è l’elemento  più cospicuo che forma il nostro corpo,  allora la lingua della poesia si sbianca “come un’ostia”. Come nel compiuto poemetto La macchina naturale, in un gioco di continue rispondenze, ma anche un punto fermo che non permette rimozioni, regressioni, ripensamenti. Non resta che “mettere a posto il dolore”. E magari “con pazienza d’artigiano”, e scrivere nei Notturni le poesie più inclusive e arrese dell’intero libro. “Se venite di notte, versi,/ siate lievi nel forzare la porta/ di questi recessi impensabili che sempre/ da solo varco e mai del tutto”.

una certa inclinazione della luce 

 

un mondo che fa bene il suo lavoro

meravigliosamente all’opera

per il solo onore di se stesso

col suo cuore segreto di padre-figlio

per dare consistenza a ciò che manca,

per il pane del futuro.

 

Un mondo vertebrato che cammina

certo, in una fossile corazza

per amore della sua durata.

 

*

 

vi condanno ad amarmi per sempre

miei passati amori, mie vie di fuga

dagli ingombranti amori del futuro

che già pesano come anni d’asfalto

e portano i miei segni come fossero me

come fossi io a fare la strada

ogni volta uguale su una rotta diversa.

 

*

i vivi non capiscono i morti, forse

i morti non possono farsi capire.

Stanno sulla soglia e osservano

la ripetizione infinita del mondo,

la corsa verso la presa

sussurrando a volte titubanti

parole di vorticosa bellezza

in una lingua bianca come un’ostia.

 

Ma i vivi non ascoltano,

vogliono cercare, non essere cercati,

scheggiano le pietre e fondono il metallo

pensando di propiziarsi un accesso

alla lunga vita incomprensibile.

 

Camminano in direzione sbagliata

affannosamente si perdono

il suggerimento occulto dal retroscena,

replicano all’infinito una sola scena.

 

*

 

lentamente i pezzi si ritrovano

fuori di me, in me. L’anima torna a casa

lenta come la pace dei poli

dopo infinite glaciazioni.

 

Assembla gli anni e le versioni,

orienta il cuore tra i fasti delle sue rovine

verso i fuochi fatui del futuro.

 

Ogni volto riprende il suo posto.

 

Si stringono le mani e fanno festa

le digressioni vecchie alle nuove variazioni.

 

E tutto eccede meravigliosamente

come quando la felicità ricomincia

in un posto nuovo che conosce.

 

 

*

da molto tempo e per molto ancora

non posso fare a meno di voi

case dell’infanzia che instancabilmente

vengo a visitare ogni notte, carico

di morti accidentali e ricordi invincibili.

Oscenamente vengo a vedervi combaciando

me con me, con quello che ho lasciato ma

non ne ho mai abbastanza di voi

della vostra luce al crepuscolo – cerco

dove sistemarmi, mi affaccendo come un fantasma

che vuole attraversare le porte chiuse,

un uccello febbrile e ottuso che sbatte

sugli spigoli vivi del dolore.

 

*

la calma vertiginosa con cui

vengono a trovarci in predicato

di verità, a staccarci scaglie di pelle

sottili come l’aria e girandoci

intorno senza requie spostano

gli esiti dello smisurato ragionare

– perché siamo solo la loro pazienza

e ci aspettano alla fine della terra

per sussurrarci nelle orecchie la costernazione

di non essere arrivati in tempo.

*

il silenzio ci ascolta

come una pietra silenziosamente

levigata che registra

le onde del nostro soliloquio,

e liminale e assoluto rinserra

la voce a se stessa e sussurra

“parla, ti ascolto, parla”.

 

cover_libro_zafferani

Simone Zafferani (Terni 1972) vive a Roma. Ha pubblicato i libri di poesia Questo transito d’anni (Casta Diva, 2004, vincitore premio Lorenzo Montano 2006), Da un mare incontenibile interno (Ladolfi Editore, 2011, finalista premi Laurentum 2012 e Sulle orme di Ada Negri 2012), L’imprevisto mondo (La Vita Felice, 2015).

 

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