Su Tribunale della mente di Corrado Benigni
Nota di Chiara De Luca
Nella sua scientifica esattezza, nella sua apparente freddezza, che adombra qualcosa d’inesorabile, fisso, immutabile, il linguaggio giuridico potrebbe sembrare quanto di più distante c’è dalla poesia, che fa della stratificazione semantica, della fluidità del dettato, dell’inesausta traduzione e riscrittura del reale il suo strumento per sovvertire le norme della comunicazione comune, rinominando di volta in volta le cose. In Tribunale della mente (Interlinea, 2012), Benigni riesce nell’impervia impresa d’impossessarsi del linguaggio giuridico, di farne poesia, piegandolo alle norme non-norme del linguaggio poetico, svelandone le debolezze, le crepe, le intrinseche contraddizioni, insite nel fatto stesso di essere linguaggio.
Ovvero, lascia che sia la lingua stessa, nel suo incedere, a rivelarle. “Il testimone non vede né sente nulla. / Solo l’attesa qui ha forza di legge: / siedi davanti alla soglia, non c’è via di scampo / da questa giustizia che sa solo se stessa” (p. 15), scrive Corrado Benigni, ponendoci immediatamente nel centro di una soglia all’apparenza invalicabile, di fronte a una porta aperta, al cospetto di un buio che ci chiama, e ci arresta al contempo. Inchiodati su quella soglia siamo come l’“uomo di campagna” della breve e intensa parabola Davanti alla legge, di Franz Kafka, dove il protagonista, un anonimo ognuno, si trova in piedi, immobile, su una soglia che per qualche oscuro motivo o senza alcuna prescrizione gli appare invalicabile, davanti a una porta, aperta. La porta è sorvegliata da un anonimo Guardiano senza volto, che non fa alcuna guardia, bensì lascia l’uomo implicitamente libero di entrare, limitandosi ad ammonirlo del fatto che dopo di lui troverà altre soglie, altre attese, altri guardiani, e del fatto che la vista del terzo guardiano gli risulterà insostenibile. Del tutto ignaro della propria colpa, eppure intimamente convinto della necessità dell’espiazione, l’uomo continua ad aspettare. Nessun verdetto è stato emesso, eppure l’uomo sconta l’ergastolo dell’attesa. La sua pena è il tempo, che trascorre inesorabile, mentre la porta resta aperta, e l’uomo sarebbe libero di entrare, ma non lo fa. Solo alla fine della propria vita scoprirà che quella porta era la sua, che apparteneva esclusivamente a lui, che l’attesa stessa costituisce dunque la colpa e la condanna auto inflitta, la libertà il verdetto che egli stesso nell’immobilità dell’attesa silenziosamente ha pronunciato, e che non ha saputo compiere.
Anche per Benigni la legge, silenziosa, invisibile, implicita, è “questa attesa fossile che ci contiene. Tutti” (p. 23). Il poeta sta dunque sulla soglia del linguaggio, dove “ogni cosa è il suo opposto”, dove la colpa risiede nella parola stessa, e l’assoluzione – che è anche condanna – nella libertà di varcare quella soglia e superarla. Anche la luce, in distanza, oltre la soglia, verso cui il linguaggio tende adempiersi, costituisce la nostra colpa, che è al contempo assolutoria, il verdetto liberatorio che non osiamo pronunciare per essere liberi dall’ignoranza della pena: ”Perché la colpa non ha leggi uguali per tutti / ma luce, luce spalancata sulla febbre che siamo.” (p. 43).
Il nostro compito è per il poeta quello di trovare la “carta smarrita” (p. 24), su cui è scritta la difesa. Ma cosa potrebbe mai imbastire la difesa da un crimine che non abbiamo commesso, o di cui non siamo consapevoli? La difesa sono le parole stesse, quelle contumaci, quelle che abbiamo taciuto. Il crimine è insito nella natura stessa del linguaggio, nella sua intrinseca contraddizione, che è la stessa presente nelle parole del guardiano di Kafka: la porta è aperta, tu puoi entrare, ma lo fai a tuo rischio e pericolo, scegli tu. La condanna è pronunciata dalla libertà di varcare la soglia del silenzio. Basta questo a fermarci, a tenerci sulla soglia della vita, a impedirci di andare verso la luce della pena e dell’espiazione che risiede nel pronunciarla, ovvero nel varcare la soglia. Invischiati nel tempo eterno dell’attesa, scandita dal “metronomo della goccia” (p. 27), ci fossilizziamo nella colpa impronunciata come in un’ambra che contiene tutti i tempi del tacere. “L’attesa è il solo alibi, un inizio da tradurre” (p. 26), e l’inizio è prescritto dall’attesa stessa (p. 30), in un moto circolare che si restringe al punto in cui siamo, e stiamo, immobili nel buio.
“Esistiamo solo davanti a qualcuno che scruta da lontano. Testimoni di noi stessi, nessuno è innocente.” scrive ancora Benigni. E come l’uomo di campagna di Kafka, il poeta intuisce che potrebbe passare, che potrebbe varcare la soglia dell’attesa, affrontare i guardiani, i giudici del tribunale della propria mente, schierati ad accusarlo di agire il pensiero nella parola, nella parola non ancora nata e abortita per paura, perché non comprendiamo “ciò che inganna” (p. 25).
Ma qual è la colpa di cui ci siamo macchiati? Se “la giustizia non ha nome, e se “ questo nome è la tua colpa” (p. 50), la colpa stessa è un nome assente, e noi siamo l’imputato contumace di una colpa che la giustizia stessa non è in grado di incarnare, che di fatto non esiste, al di là del silenzio che la materializza, tacendola. Se “Nessun frutto è proibito” (p. 28), nulla ci è davvero interdetto, nulla ci costringe realmente all’attesa solitaria nella contemplazione, intrisa di desiderio e di paura, di una luce lontana, che potrebbe appartenerci, che di fatto ci appartiene e spetta solo a noi. Nulla ci trattiene dal varcare quella soglia, dal procedere verso la luce della pena, per dare alla giustizia il nome della nostra colpa assente, rompendo l’immobilità del silenzio e affrontando il verdetto delle parole, per scioglierne la contraddizione. Testimoni di noi stessi e del crimine di esistere nel linguaggio incapace di pronunciarci, chiamati alla vita come a una condanna da espiare, non adduciamo prove della nostra innocenza, accettiamo la condanna senza appello, senza neppure conoscere il verdetto. Siamo ciò che abbiamo commesso (p. 13), per questo è necessario che pronunciamo la nostra colpa ignota per pronunciare noi stessi: “Siamo noi queste carte non rimescolate, verità da decifrare, mentre l’attesa prescrive ogni inizio”.
“La parola è il solo luogo” dove sia possibile distinguere la forma dalla materia, ricomporre il disegno dell’oscuro ordine che ci assolve. Noi stessi siamo la nostra condanna, perché noi stessi “Siamo comunque l’attesa di un giudizio / che torni a riscrivere tutto / con poche parole esatte” (p. 45). L’unica possibilità che abbiamo di scagionarci dal silenzio delle parole taciute è dunque quella di chiamare a testimoni le parole stesse, in difesa di ciò che non abbiamo detto, per dar forma alla verità e varcare la soglia del silenzio, andando incontro a quella luce che ci attende, mentre, a nostra volta, l’attendiamo immobili. Sono tanti i volti senza volto che vorrebbero arrogarsi il diritto di essere giudici, e tante le ragioni che “contendono la verità”. Ma la verità “non ha nomi” (p. 18) ed è sulle parole che non abbiamo detto che saremo giudicati (p. 18).
Il solo fatto di nominare le cose, di arrogarci il diritto di scegliere per loro un nome, significa patteggiare la propria pena. Ricordare è condannarsi all’interrogatorio serrato della memoria “inquirente” che ci insegue (p. 64). Eppure, la nostra colpa, il linguaggio, è anche l’unico alibi che ci scagiona, così come l’attesa costituisce la colpa, la pena, ma anche la sola possibilità di redenzione. Chiamati a comparire “avanti il tribunale della parola” (p. 75), dove non c’è redenzione fuori dall’attesa” (p. 79), “la materia della parola / è la sola forza che abbiamo, / nel sonno che sorveglia, / il bene di essere innocenti.” (p. 79). Anche se le prove a nostro discarico sono fragili, perché “Non c’è parola al di sopra / di ogni sospetto” (p. 16), anche se “assoluzione e delitto hanno lo stesso movente”, non abbiamo altro strumento per cercare di scagionarci. Il silenzio è la colpa che può essere espiata soltanto nella parola, impura, colpevole a sua volta, imperfetta, fallace e di volta in volta piegata alla verità e al suo contrario.